Scienza, conoscenza, tecnologia
L'abuso dei termini della sfera semantica della scienza, nonché la frequente confusione dei relativi concetti con altri appartenenti ad aree vicine ma distinte di conoscenza, ha conseguenze abbastanza deleterie sulla percezione comune della scienza, con fraintendimenti che vanno dal tipo di conoscenza che essa costituisce alle forme in cui può esprimerla, dalla sua validità ai suoi campi di competenza.
Qualche chiarimento mi sembra sia d'uopo, con particolare evidenza ai seguenti temi:
- la differenza tra fenomenico e trascendente, che dovrebbe essere ormai di dominio comune almeno tra le persone di una certa cultura, ma che è comunque il caso di sottolineare, come punto di partenza;
- forme e gradi della conoscenza scientifica
- i rapporti tra la scienza e le sue applicazioni
- sull'abuso dei termini e la confusione dei concetti
Fenomena e trascendenza
Dal significato primitivo di raccolta più o meno sistematica, più o meno completa e più o meno strutturata di conoscenze su uno o più specifici campi, il termine ‘scienza’ si è andato specializzando sia in termini di oggetto della conoscenza, sia in termini di metodo.
Il primo passo di questa maturazione è stata la separazione dello studio dei fenomeni, ovvero di ciò che è osservabile, dalle altre forme di conoscenza. Nella conseguente distinzione tra φυσική (ciò che riguarda la natura) e metafisica, la scienza si separa dalla religione come dalla filosofia e comincia ad assumere quel carattere di verificabilità che dapprima implicito maturerà fino a diventarne la metodologia caratteristica, per venire infine sostituito da Popper con un concetto ancora più forte.
La scienza si distingue così dalle forme di conoscenza che derivano puramente da intuizioni trascendenti, da seghe mentali o da accurate mire dominatrici, generando un interessante paradosso.
Le altre forme di sapere fondano infatti le proprie radici su principî dogmatici, sulla forza dell'auctoritas, sull'ipse dixit, nonché sulla distinzione tra esoterico ed essoterico, tra iniziato e profano; non a caso maturano principalmente in ambienti conservatori e reazionari, che vi basano la propria forza facendo leva sull'impossibilità di validarne oggettivamente le fondamenta. La scienza, per contro, cresce e matura sulla propria oggettiva verificabilità, anzi sulla propria stessa falsificazione, sulla scoperta dei limiti del vecchio e sul loro superamento nel nuovo.
E così il paradosso: ciò che non è oggettivamente validabile ha pretese di verità assoluta (nonché ovviamente incontrovertibile ed immutabile), anche quando palesemente in contrasto con altre, diverse verità pretendenti uguali titoli, mentre ciò che validabile è, e che pertanto maggiormente potrebbe aspirare a verità, prospera sul dubbio e sul proprio superamento.
La matematica come modello del sapere perfetto
La frattura che separa le due forme di conoscenza è sostanzialmente invalicabile. L'unico ponte, se mai tale può essere considerato, è dato senza dubbio dalla matematica. Essa nasce, come le altre scienze, dallo studio della realtà osservabile; ma qualche millennio prima degli ‘esperimenti ideali’ di Galileo, in matematica si scopre la potenza dell'astrazione, ma anche del rigore formale e del linguaggio incorrutibile della logica.
La matematica è forse l'unico ramo del sapere umano ad avere generato verità incontenstabili, pur avendo un'età paragonabile quando non superiore a quella di altre forme di sapere più e meno astratte. Si sono, è pur vero, verificati casi in cui la distrazione dello studioso, l'errore umano hanno portato alla luce asserzioni fragili quando non platealmente false, ma la potenza del rigore formale della matematica è sempre stata tale che l'autore stesso dell'errore si è sempre potuto rendere conto dell'errore compiuto, per rivolgersi quindi nuovamente allo studio senza arroccarsi negli sciocchi fanatismi che hanno pervaso e spesso tuttora pervadono le forme non scientifiche della conoscenza, quando messe a confronto con la propria incompatibilità con altre verità.
Dalla propria storia, la matematica ha imparato che le proprie affermazioni, se pure incontrovertibilmente vere, non possono dirsi assolute. A posteriori, ciò potrebbe sembrare ovvio, giacché esse discendono, in maniera rigorosa, da una selezione, in una certa misura arbitraria, di asserzioni (assiomi o postulati) che si suppongono vere senza spiegazione all'interno del sistema formale che da esse deriverà.
L'esempio più plateale in questo senso è certamente quello della geometria, una delle branche più antiche della matematica (seconda forse solo all'aritmetica): formalizzata da Euclide, si trovò fin da subito davanti al problema del famoso ‘quinto postulato’, equivalente all'affermazione che da ogni punto esterno ad una retta passa una ed una sola parallela alla retta stessa.
Il postulato, che nella formulazione originale era alquanto più complesso ed in quanto tale anche molto sgradevole, non piaceva nemmeno al suo stesso autore, che cercò di usarlo il più tardi possibile nella propria esaustiva esposizione della geometria (generando così i 28 teoremi che sono noti come ‘geometria assoluta’, poiché veri anche nelle geometrie non euclidee).
Il problema del quinto postulato ha ossessionato per secoli i matematici, che hanno cercato di dimostrarlo partendo dagli altri postulati della geometria; nel fallire questo obiettivo, sono però riusciti a semplificarlo (arrivando alla sua formulazione moderna) ed a dimostrare che era indipendente dagli altri (e quindi meritevole dello status di postulato).
Un approccio spesso tentato per dimostrare il quinto postulato è stato quello della reductio ad absurdum: tentare di giungere a conclusioni ‘assurde’ partendo dalla negazione del quinto postulato, anzi dalle sue negazioni, giacché il quinto postulato può essere negato sia affermando che non esistono parallele sia affermando che ne esistono più d'una.
Ma i matematici che hanno intrapreso questa strada sono arrivati al più, come scrive ad esempio Saccheri, ad affermazioni che «ripugna(no) alla natura della linea retta», trovandosi così a scontrarsi con quel tipo di ostacolo che l'aritmetica ebbe con l'introduzione dei numeri negativi, e che l'algebra avrebbe poi avuto con l'introduzione dei numeri immaginari: pur senza riuscire a cadere in un assurdo logico, le nuove idee risultavano indigeste perché incompatibili con il concetto che il matematico aveva dell'astratta idea di cui trattava.
Il superamento di queste incompatibilità, sempre mentali dello studioso e mai strutturali nelle teorie matematiche, hanno permesso lo sviluppo di alcuni dei più potenti ed affascinanti strumenti matematici, dalle geometrie non euclidee all'analisi complessa.
La matematica ha inoltre sempre trovato un organico equilibrio tra sistemi formali anche diversi: se pure la geometria euclidea, quella iperbolica e quella sferica, ad esempio, non possono essere valide nello stesso spazio, è anche vero che il cerchio privo di circonferenza della geometria euclidea è un modello della geometria iperbolica, così come la superficie sferica nello spazio euclideo è appunto un modello della geometria sferica.
D'altra parte, soprattutto in tempi più recenti (almeno relativamente alla lunghissima storia della matematica), rami interi della matematica si sono sviluppati partendo da curiosità astratte o come puri esercizi mentali. Nonostante ciò, di essi si sono poi trovate sorprendenti applicazioni anche nel mondo reale.
La matematica rappresenta così l'unico modello di sapere veritiero ed incorruttibile, che cresce ed evolve senza però mai cancellare o negare il proprio passato, e riuscendo ugualmente a toccare la sponda fenomenica e quella metafisica del sapere; essa è pertanto la forma più alta di conoscenza. Non a caso i più pretenziosi sistemi filosifici aspirano a raggiungerne il sistematico rigore, e non a caso la scienza ne ha fatto il proprio linguaggio.
I tre gradi della conoscenza scientifica
on fait la science avec des faits comme une maison avec des pierres ; mais une accumulation de faits n'est pas plus une science qu'un tas de pierres n'est une maison
si fa scienza con i fatti come una casa con le pietre; ma un cumulo di fatti non è più scienza di quanto un cumulo di pietre non sia una casa
Henri Poincaré, La science et l'hypothèse, Ch. IX
Poiché la scienza ha come oggetto i fenomeni, ovvero ciò che è osservabile, è abbastanza ovvio che il primo passo verso la conoscenza scientifica sia l'osservazione, la raccolta del dato.
Se semplici considerazioni qualitative possono andar bene come punti di partenza, è l'accumulare minuzioso di dati e la loro metodica sistemazione a preparare le basi informative di quella che può essere la conoscenza scientifica. Esempi dell'importanza della catalogazione sistematica si trovano in chimica (Mendeleev, l'autore della famosa Tavola periodica, poté dedurre le proprietà di elementi chimici non ancora scoperti semplicemente in base alla loro posizione), come in astronomia, una scienza molto interessante come esempio del procedere della conoscenza scientifica.
In un periodo in cui il dibattito sulla centralità del sole piuttosto che dei pianeti era in pieno fervore (e non mancava di rischi), il più grande contributo di Tycho Brahe al progresso della scienza non fu la sua proposta del modello ticonico (con i pianeti che giravano attorno al sole che girava attorno alla Terra), bensì le innumerevoli misure, gli innumerevoli dati raccolti con una precisione fino ad allora inaudita (e per giunta senza l'ausilio del telescopio).
Furono proprio queste osservazioni a permettere1 a Keplero di formulare le sue famose Leggi di Keplero, ovvero il modello che, con ottima approssimazione, descrive effettivamente il moto dei pianeti nel sistema solare: approssimazione talmente buona che furono proprio le divergenze dei moti dei pianeti dal loro ideale che permisero secoli dopo la scoperta dei pianeti più esterni.
Le leggi di Keplero sono un esempio del secondo grado della conoscenza scientifica: un modello che descriva come i dati sono legati tra loro, ma non perché siano legati da quella particolare legge.
È in questa fase che la matematica diventa strumento fondamentale della scienza, con la propria capacità di descrivere in astratto relazioni tra quantità numeriche. Le leggi di Keplero permettono così di esprimere le proprietà fondamentali del moto dei pianeti in termini di semplici figure geometriche e formule matematiche.
Ma la scienza vera e propria comincia solo nella terza fase del suo progresso, quando dai come si passa ai perché; l'astronomia, ad esempio, matura in questa direzione quando i progressi della meccanica, dalla legge di gravitazione universale alla conservazione della quantità di moto, permetteranno di motivare le relazioni tra raggi vettori, aree, velocità e tempi scoperte da Keplero.
Beninteso, in questa terza fase la scienza entra anche nel pericoloso campo del regresso all'infinito: per ogni “perché?” cui si trova risposta ne nascono almeno altrettanti nuovi la cui risposta va nuovamente cercata.
Perché i corpi si attraggono con forza proporzionale alla massa ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza? Perché un corpo non soggetto a forze permane nel suo stato di quïete o di moto rettilineo uniforme?
Anche le scienze arrivano quindi ad essere limitate da postulati, da modelli primitivi che non vengono spiegati da altri modelli. Questi postulati, questi assiomi definiscono i limiti della nostra conoscenza scientifica. Si può anzi dire, di più, che il superamento di questi limiti caratterizza lo spirito scientifico: la ricerca di spiegazioni sempre più complete, sempre più dettagliate, che scendano sempre più in profondità nell'indagine sulle cause ed i modi dei fenomeni: a patto, ovviamente, che questa indagine venga condotta secondo quelle modalità specifiche che, come già menzionato all'inizio, costituiscono il secondo pilastro che distingue la conoscenza scientifica da altre forme di sapere.
La sperimentazione come base della conoscenza scientifica
Fino alla prima metà del ventesimo secolo, il concetto di scienza (modernamente intesa) era fondato sulla verificabilità, la oggettiva riproducibilità degli esperimenti o delle osservazioni che avessero ispirato la teoria e contro i quali e contro le quali la teoria stessa potesse venir messa alla prova. Una verifica che riproducibilmente fallisse invaliderebbe la teoria.
Questo è esposto in maniera alquanto semplice ed elegante in questo articolo di Chris Wenham, sfortunatamente sparito da Internet salvo che per la copia su webarchive. L'articolo chiarisce lo spirito del progresso della conoscenza scientifica paragonando la scienza ad un gioco da tavola con le seguenti semplici regole:
- lo scopo del gioco è raggiungere l'altro lato del piano di gioco
- il piano di gioco è diviso in quadrati, ma non si sa quante caselle sia lungo o largo
- ci si può spostare su una casella solo se è coperta da una tessera; ci si può spostare su qualunque tessera, anche quelle fatte da altri giocatori
- se ci si sposta su una casella vuota, o se la tessera su cui si è viene rotta, si ‘cade in acqua’ e bisogna nuotare verso la tessera più vicina
- ogni casella vuota che confina con una tessera o con il bordo iniziale del piano di gioco contiene una domanda. Le domande sono semplici ed hanno risposte univoche; tipo: “perché l'acqua scorre verso il basso?” or “perché la luce attraversa il vetro?” o “cos'è il calore?”
- l'unico modo per costruire tessere è di rispondere alla domanda
- una tessera può galleggiare solo se può essere verificata con un esperimento riproducibile
- una tessera può essere rotta solo dimostrando che la risposta è sbagliata con un esperimento riproducibile
- un esperimento non può rompere una tessera a meno che non possa essere riprodotto, una tessera non può galleggiare se l'esperimento che la verifica non può essere riprodotto
- se una tessera si rompe, si rompono anche tutte le tessere a essa collegate che non sono anche collegate al bordo del piano di gioco attraverso altre tessere integre
Per comprendere il potenziale limite di questa formulazione, supponiamo che invece che di scienza si parli di matematica, e prendiamo come esempio la domanda “È vero che tutti i numeri dispari maggiori di 2 sono primi?”.
Supponiamo che un giocatore voglia costruire una tessera sulla casella corrispondente, rispondendo «sì». Per poter fare ciò deve proporre un esperimento riproducibile che verifichi la correttezza della risposta. Il giocatore in questione propone come esperimenti di verifica i numeri 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19, 23, 31. La tessera galleggia. Un altro giocatore propone l'esperimento con il numero 9 (o 15 o 21), che ovviamente fallisce e demolisce la tessera.
In effetti, la tessera rotta può essere sostituita con una nuova tessera, che risponde «no» alla domanda; la nuova tessera regge (nel caso di domande/risposte di questo tipo, basta un controesempio per poter accettare ‘no’ come risposta).
Prendiamo ora come esempio la congettura di Collatz. Partendo da un numero intero qualunque, se è pari lo si divida per due, se è dispari lo si moltiplichi per 3 e si aggiunga 1; si ripeta l'operazione con il nuovo numero ottenuto (ad esempio, partendo da 6, si ottiene 3, poi 10, poi 5, poi 16, poi 8, 4, 2 ed infine 1). La congettura di Collatz chiede: è vero che da qualunque numero si parta si finisce sempre con l'arrivare ad 1?
La congettura è stata verificata fino a qualche miliardo di miliardi di numeri, e non è stato trovato alcun controesempio. Considerando le regole della scienza suesposte, la risposta ‘sì’ alla congettura è scientificamente corretta.
Nella sua Logica della scoperta scientifica, Karl Popper osserva come la semplice verificabilità sia una caratterizzazione troppo debole della conoscenza scientifica. Popper propone quindi, come caratteristica propria delle teorie scientifiche la loro falsificabilità, ovvero la possibilità di concepire un esperimento il cui fallimento invaliderebbe le teorie stesse: ciò che distingue il sapere scientifico è quindi la sua potenziale fragilità, la possibilità che esso possa non essere vero.
È interessante notare come anche con una prospettiva popperiana la congettura di Collatz sia comunque scientificamente valida: basterebbe infatti un controesempio per falsificarla, e tutti gli esperimenti svolti finora l'hanno invece confermata. Il sapere scientifico è quindi molto diverso da quello matematico: il secondo accetta qualcosa come vera solo dopo che essa venga dimostrata a rigore di logica partendo da premesse la cui verità sia già stata accertata; il primo accetta qualcosa come vera finché essa non venga dimostrata falsa (e secondo Popper, solo a condizione che essa possa, potenzialmente, essere dimostrata falsa).
Buona parte del lavoro dello scienziato consiste quindi (o dovrebbe consistere) nel concepire nuovi esperimenti il cui fallimento dimostrerebbe la falsità di una teoria, di un modello. (L'altra parte del lavoro consiste nello sviluppare teorie e modelli che tengano conto dei risultati degli esperimenti che sono riusciti nell'intento di falsificare teorie e modelli precedenti.)
In realtà, la falsificazione di una teoria scientifica non implica necessariamente un integrale rigetto; è infatti possibile, soprattutto nel caso di teorie che abbiano già raggiunto una certa maturità, che la loro falsificazione venga ridimensionata in quello che possiamo definire limite di applicabilità.
Quando ad esempio l'esperimento di Michelson-Morley ha invalidato la cosiddetta relatività galileiana, e con essa l'intera meccanica classica, aprendo così le porte alla teoria della relatività ristretta di Einstein, le teorie scientifiche falsificate non sono semplicemente svanite: vengono tuttora applicate quotidianamente, pur con la coscienza della loro erroneità, perché nelle condizioni in cui vengono applicate (dimensioni spaziali non subatomiche, velocità abbondantemente subluminali) esse rimangono comunque un'eccellente approssimazione delle teorie attualmente valide (ovvero finora non falsificate).
Scienza e protoscienza
Viene abbastanza naturale parlare di maturità di una scienza in base al grado di profondità cui arrivano i modelli che ne costituiscono l'ossatura. Nelle primissime fasi, quando la larga parte della conoscenza è costituita da dati sperimentali e relazioni derivate dall'osservazione e dall'esperienza piuttosto che da modelli più astratti, sarebbe più opportuno parlare di protoscienza, piuttosto che di scienza vera e propria.
Queste forme meno mature di conoscenza fenomenica sono caratterizzate da modelli superficiali, in cui le relazioni causali sono lacunose se non del tutto assenti. La loro capacità predittiva è estremamente limitata, e generalmente manca del determinismo tipico delle forme più mature di conoscenza; un approccio più probabilistico o statisto permette infatti di esprimere l'incertezza sulle relazioni tra aspetti noti del fenomeno studiato, o l'ignoranza degli aspetti che sarebbero determinanti.
Proprio questa fragilità e questa indeterminazione nei modelli proposti sottrae a queste forme di conoscenza la possibilità di essere classificate come ‘scienza’ nel senso popperiano del termine: la loro debolezza predittiva ne rende infatti impossibile la falsificabilità. La stessa verificabilità, condizione comunque imprescindibile per le teorie scientifiche, ne è indebolita.
Pertanto, le conoscenze protoscientifiche sono meno affidabili di quelle di scienze più mature. Esse sono tuttavia non meno importanti, esprimendo comunque, volta per volta, il grado più alto di conoscenza di quel particolare fenomeno; in quanto tale, esse sono comunque la base da cui partire sia per il progresso della conoscenza dei relativi fenomeni verso forme più mature e più proprie di scienza sia, con le dovute cautele, per lo sfruttamento della conoscenza nelle applicazioni del caso.
Scienza e tecnologia
Le prime fasi della conoscenza scientifica, ovvero la raccolta del dato e di semplici relazioni derivate principalmente dall'osservazione e dall'esperienza più che da modelli più astratti costituiscono anche le basi di un approccio alla conoscenza che a me piace definire ingegneristico.
Essa è la base della tecnica, intesa nel senso etimologico che la fa derivare dalla τεχνή greca, ovverossia anche di quelle arti e mestieri che nei primi secoli del secondo millennio si riunivano in gilde e corporazioni.
È una conoscenza di tipo sensibile, e che pur non potendosi definire propriamente scientifica, sta comunque dallo stesso lato della scienza nella frattura di cui si è discusso sopra. Anzi, per molti versi è persino più vicina ai fenomeni che non la scienza, le cui aspirazioni formali tendono a sollevarla verso schemi più astratti.
Ciò che distingue la conoscenza scientifica da quella ingegneristica è principalmente l'obiettivo, e per conseguenza anche il metodo. La scienza si prefigge infatti di giungere alla comprensione delle leggi fondamentali della natura; in mancanza della certezza assoluta che non solo esse esistano, ma che possano anche essere conosciute, come obiettivo secondario si propone la costruzione di modelli che possano descrivere i fenomeni e prevederne lo svolgimento.
Laddove la scienza ha quindi come obiettivo una conoscenza in un certo senso fine a sé stessa2, la conoscenza ingegneristica nasce per contro da obiettivi che potremmo dire applicativi: corpus di conoscenze che permettono di risolvere problemi (pratici). Come posso semplificare il processo del trasporto di oggetti e persone? Come posso rendere i miei strumenti più solidi? Come posso costruire un edificio più alto? Come posso trasmettere informazioni a grandi distanze in poco tempo? Come posso evitare di morire?
La conoscenza di tipo ingegneristico spazia quindi su tutto il sapere che ha finalità pratiche, da quella che ai giorni nostri si considera ingegneria (che sia edile, meccanica, elettronica) alla medicina, dall'agronomia all'economia. In effetti una larghissima parte del sapere umano nasce come ingegneristico, anche quando poi evolve in forme più pure ed astratte di conoscenza, dalle scienze alla matematica: se le conoscenze edili degli antichi romani sono evolute in quella che tuttora è ingegneria edile, la necessità di prevedere il tempo, i tempi e le stagioni è maturata nell'astronomia moderna; se coltura ed allevamento hanno stimolato lo sviluppo della biologia, la necessità di ridisegnare i campi dopo le alluvioni del Nilo ha gettato le basi per la geometria e per alcuni tra i più astratti aspetti della matematica che da essa derivano.
Ovviamente, la conoscenza ingegneristica non può e non deve sottostare ai canoni di rigore e formalismo che vengono chiesti alla conoscenza scientifica. Poco importa che tu non conosca i principî della statica che sottendono l'edilizia, se conosci comunque la necessità della chiave di volta ed i tuoi edifici reggono per millenni. È altrettanto vero che la possibilità di appoggiarsi a valide conoscenze scientifiche può significativamente consolidare la conoscenza ingegneristica.
Per questo, il sapere scientifico non è e non deve essere estraneo a quello di tipo ingegneristico: tra i due infatti esistono solidi legami che possono realizzarsi in un proficuo scambio di conoscenze. Da un lato la tecnica, le arti e i mestieri costituiscono una base potenzialmente inesauribile di dati sperimentali e possono aprire nuovi campi d'esplorazione alla ricerca scientifica; dall'altro, le applicazioni delle conoscenze ingegneristiche possono usufruire, spesso in maniera sorprendente ed inattesa, dei progressi delle conoscenze scientifiche; di ritorno, le nuove tecniche suggerite dai progressi della scienza agiscono come verifiche sperimentali della correttezza delle teorie scientifiche da cui sono derivate.
Dalla spinta reciproca che le due forme di sapere esercitano l'una sull'altra nasce la tecnologia: da un lato l'esigenza della scienza di andare sempre più a fondo richiede strumenti di osservazione e di analisi sempre più potenti, sempre più accurati; dall'altro, il progresso delle conoscenze scientifiche permette la costruzione di strumenti sempre più potenti, sempre più accurati.
Sui rapporti dei dominî del sapere
Vi sono almeno due abusi cui è sottoposta la scienza, sia come concetto che come soggetto. Entrambi derivano in maniera sostanziale dalla diversa percezione che della scienza ha “chi sa” e “chi non sa”, e sono egregiamente personificati nella figura dello scienziato pazzo tanto diffusa nel nostro immaginario collettivo. Questo personaggio incarna infatti quel paradossale miscuglio di entusiasmo e timore che i ‘profani’ coltivano nei confronti del progredire della scienza e dell'espandersi delle sue possibili applicazioni.
D'altro canto, lo scienziato pazzo è generalmente più interessato a piegare le leggi della natura al proprio volere che non semplicemente a conoscerle; più che di scienziato sarebbe quindi opportuno parlare di ingegnere pazzo: la conoscenza che egli persegue non è fine a sé stessa, ma ha obiettivi specifici. Già nel nome, lo scienziato pazzo mostra quindi la confusione fin troppo diffusa tra conoscenza scientifica e sapere di tipo ingegneristico; non a caso la sua figura si è andata diffondendo, ed (erroneamente) delineando, di pari passo con il progresso e la diffusione della tecnologia.
Tanto più la scienza ha svelato aspetti nascosti della natura che ci circonda, tanto più la tecnologia ha prodotto strumenti incredibili e portentosi, l'estrapolazione dell'applicazione dei quali viene identificato con un “giocare a fare Dio”; non tanto per la potenza intrinseca degli strumenti, quanto per la natura recondita degli aspetti della realtà fenomenica su cui operano o da cui derivano.
Il timore nei confronti dell'operato dello scienziato pazzo, ovvero dell'applicazionde della scienza, deriva quindi da una nostra (umana) (presunta) inadeguatezza a gestire queste conoscenze: inadeguatezza che viene talvolta espressa in una sua forma metafisica o spirituale (ad esempio, l'uomo non avrebbe la forza morale o la statura etica per operare sulle o con le forze della natura di cui è entrato a conoscenza), ed altre volte espressa invece in una sua forma più concreta, in termini della limitatezza della nostra conoscenza, e della conseguente impossibilità di prevedere fino in fondo le possibili conseguenze del nostro operato.
Ai sostenitori dell'inadeguatezza metafisica o spirituale si potrebbe chiedere qualcosa sul motivo di questa limitazione. Perché la spiritualità o la coscienza dell'uomo non ha seguito un processo di maturazione che andasse di pari passo con il progredire delle sue conoscenze scientifiche? È questo un limite intrinseco nella natura (metafisica) dell'uomo, ed in quanto tale invalicabile, o si è trattata invece di una incapacità, da parte di chi ha coltivato la spiritualità e lo studio della metafisica, di diffondere questa crescita, affinché il genere umano potesse guadagnare quella maturità che gli permettesse un uso corretto delle proprie nuove conoscenze scientifiche?
A voler rispondere a queste domande con qualche semplice considerazione sulla storia dei rapporti tra società e conoscenza, e tra i due tipi di conoscenza (fenomenica e trascendente), viene il sospetto che la trascendenza sia stata usata, più spesso che non, come strumento di potere e di controllo e soggiogamento delle grandi masse.
Anche i più rivoluzionari dei messaggi spirituali, raggiunta una diffusione sufficiente, sono stati piegati a meri strumenti politici. Laddove scienza e tecnologia sono (dapprima lentamente, poi sempre più rapidamente) trapelate fino a raggiungere grandi quantità di persone, la sapienza del trascendente ha sempre operato sulla separazione tra l'esoterico, riservato ad una élite, e l'essoterico, propinato come verità sedicente assoluta a masse talmente educate ad assorbire passivamente dogmi da rivolgersi con atteggiamenti fideistici anche alla scienza ed alla tecnologia, che prosperano invece su un approccio diametralmente opposto, sul pensiero critico, sull'analisi, sul dubbio.
Proprio su questo, peraltro, si gioca la seconda forma di inadeguatezza: la scienza, dopo tutto, è una forma di conoscenza superficiale, parziale e per di più fallibile; in quanto tale, essa è inaffidabile, soprattutto quando le forze in gioco sono talmente ‘fuori scala’ da mettere a rischio l'intero genere umano. Questo secondo atteggiamento di critica è forse il più paradossale. Si è infatti andato diffondendo con il crescere della capacità di scienza e tecnologia di dare risposte soddisfacenti e che pertanto davano alle masse meno motivo di rivolgersi alla sapienza trascendente.
È una critica che vorrebbe distogliere la gente da un approccio fideistico alla scienza (cosa che alla scienza farebbe solo bene), ma lo fa per proporre un approccio fideistico a qualcosa le cui risposte non sono più sentite come adeguate, vuoi per gli inevitabili dubbi sollevati dal loro effetto in millenni di storia, vuoi per le profonde manipolazioni cui sono state sottoposte.
Eppure, questo approccio fideistico alla scienza è proprio la seconda forma di abuso cui la conoscenza fenomenica è sottoposta; ‘scientifico’ diventa in tempi moderni parola chiave per indicare affidabilità e certezza, diventa sinonimo di ‘verità’ dimostrata (ed in quanto tale incontrovertibile): una violazione dell'essenza stessa della cultura scientifica più profonda.
E se ancora questo abuso di linguaggio potrebbe essere tollerato per quei rami della scienza le cui conoscenze sono maturate per molti secoli, ormai convalidate da innumerevoli solide esperienze ed applicazioni ed i cui limiti applicativi sono ben noti (ad esempio, la meccanica classica o, in misura minore, la chimica), molto più grave è l'applicazione del termine al di fuori del dominio della scienza vera e propria.
Succede infatti che lo stesso termine (‘scientifico’) venga applicato, con le stesse (erronee) implicazioni, a quelle forme di conoscenza che scientifiche non sono, ma che alla scienza si appoggiano. Da un punto di vista semantico, si potrebbe con una leggera forzatura parlare di ‘scientifico’ per qualcosa che si appoggia a conoscenze scientifiche, ma l'essenza della scienza, e ciò che la valida, sono il metodo ed il rigore.
Pertanto, se anche fosse lecito considerare ‘veri’ i risultati della ricerca scientifica più matura, la stessa certezza ed affidabilità non sono automaticamente ereditate dalle loro applicazioni (che per necessità non possono seguire gli stessi metodi). Né ci si può appoggiare con la stessa (peraltro discutibile) sicumera a quelle forme di conoscenza scientifica che, ferme ancora alle prime fasi, andrebbero meglio classificate come protoscienza; ed ancor meno si dovrebbe assumere un atteggiamento tanto appassionatamente fideistico nelle applicazioni che poggiano principalmente su queste forme così immature di conoscenza scientifica.
Beninteso, la critica qui non è rivolta al lavoro di ingegneri, medici, biologi, sociologi, psicologi, economisti e quant'altro, bensí piuttosto a chi (anche tra i loro ranghi) assume, nei confronti delle corrispettive branche della conoscenza, un atteggiamento che è già sbagliato per forme di conoscenza ben più mature, e tanto più lo è pertanto per quelle.
Perché la nostra conoscenza del fenomenico possa rendere il meglio è infatti essenziale riuscire a bilanciare, volta per volta, la possibilità (quando non la necessità) di sfruttare questa conoscenza nel suo presente, la coscienza dei suoi limiti e l'importanza del loro superamento.
paradossalmente, però, Keplero giunse alla propria formulazione commettendo almeno due errori, che tuttavia si compensavano a vicenda. ↩
nota ortografica: benché comunemente si preferisca nell'italiano scritto non accentare il sé quando rafforzato da ‘stesso’, varie considerazioni mi portano di questi tempi a preferire una certa omogeneità nell'ortografia; chi volesse approfondire può anche appoggiarsi alla relativa sezione di Wikipedia. ↩