La mafia del copyright
Da parecchio tempo ormai la protezione della proprietà intellettuale ha trasceso i limiti della criminalità ed è scaduta nel ridicolo. Come spesso accade in questi casi, l'indraconianizzarsi delle misure protezionistiche sortisce l'effetto opposto a quello originariamente inteso, portando ad una perdita totale del rispetto per i principî su cui si fondava l'idea originaria et ad una totale dissociazione tra lettera e spirito delle leggi da un lato e loro recezione del pubblico cui dovrebbero essere rivolte dall'altro.
In quanto segue partirò dal presupposto, peraltro non universalmente condiviso, che la proprietà intellettuale abbia un valore e che pertanto meriti una qualche forma di protezione.
La filosofia politico-economica moderna vuole che la protezione della proprietà intellettuale in tutte le sue forme abbia come obiettivo di stimolare la creatività intellettuale garantendo ai creatori di poter beneficiare del frutto del loro lavoro; in teoria, per evitare una stagnazione della produzione creativa, queste forme di protezione dovrebbero essere bilanciate e limitate per evitare da un lato che ‘riposando sugli allori’ il creatore non sia più stimolato a produrre ulteriormente e dall'altro che la protezione dell'originale impedisca la creazione di opere derivate, risultando in un freno invece che in uno stimolo.
Sulle varie forme di proprietà intellettuale, dal brevetto al marchio registrato, un discorso a sé stante merita sicuramente il diritto d'autore, che nella cultura anglosassone prende il nome (e le funzioni principali) di diritto di copia. In effetti, fin dall'inizio della sua non tanto breve storia, il copyright nasce principalmente come forma di controllo governativo sulle opere di stampa (lecite, controllate dalla censura) e sulla loro diffusione, sviluppandosi in seguito principalmente come meccanismo protettivo nei confronti di una corporazione (quella degli stampatori) i cui margini di profitto erano minacciati dal progressivo abbassarsi dei costi di produzione libraria. Solo in seguito, quando il giudizio negativo di larghe fette della popolazione nei confronti di questo tipo di attività diventa determinante si passa ad una prospettiva che sottolinei piuttosto il presunto aspetto di protezione della proprietà intellettuale, ovvero del contenuto ‘astratto’, artistico, letterario, musicale o quant'altro piuttosto che all'oggetto fisico che ne permette la fruizione (libro, musicassetta, compact disc o quant'altro).
Per comprendere quanto l'aspetto protezionistico corporativistico sia ancora un fondante pilastro del copyright e delle leggi sul diritto d'autore si potrebbe partire ad esempio della rapida escalation che esse hanno avuto negli Stati Uniti, uno degli ultimi Paesi occidentali a sottoscrivere la Convenzione di Berna, con oltre un secolo di ritardo rispetto ai primi firmatari.
Nel frattempo, i termini di 14 anni (rinnovabili per altri 14) della prima legge statunitense (1790) sul copyright per lavori registrati furono estesi a 28 (rinnovabili per altri 28) nel 1909. Il primo stravolgente cambiamento si ebbe 10 anni dopo la morte di Walt Disney, con l'estesione dei termini del copyright a 75 anni o la morte dell'autore più altri 50. All'approssimarsi dell'uscita dal copyright delle prime opere di Walt Disney i termini furono estesi a 95 anni dopo la pubblicazione, 120 dopo la creazione o 70 anni dopo la morte dell'autore.
(Il lobbying in realtà non è mancato anche nell'ambito della Comunità Europea, dove le leggi di estensione del copyright sono state rese retroattive per ripescare quei prodotti che, mancando il passaggio del '76, sarebbero dovuti ormai essere di pubblico dominio.)
È abbastanza evidente che nonostante le eccellenti intenzioni che si può immaginare avesse Victor Hugo quando fece pressione per una convezione internazionale (che poi si concretizzò nella già citata convenzione di Berna) per l'automatica e naturale protezione della proprietà intellettuale dell'autore dell'opera, gli effetti di quella proposta e delle sue successive modifiche si sono mosse in tutt'altra direzione.
Prendiamo in esempio il caso italiano, che coinvolge direttamente la Società Italiana degli Autori ed Editori, un'associazione nata anch'essa forse con le migliori intenzioni, ma la cui attività si è progressivamente trasformata assumendo forme che ricordano nemmeno tanto da lontano il taglieggio, il ‘pizzo’ mafioso ed altre forme ‘protettive’ da criminalità organizzata (nel caso della SIAE anche legalizzata) che beneficiano il protettore piuttosto che il protetto. A condimento della situazione italiana troviamo inoltre situazioni cui l'abitudine ha smesso di farci pensare.
Pensiamo ad esempio alla tassa SIAE imposta su tutti i supporti (audio e videocassette, CD, DVD) registrabili ma vergini (privi quindi di contenuto, ed in particolare di contenuto protetto dal diritto d'autore), nonché su tutte le apparecchiature atte alla registrazione (dai mangianastri col tasto REC ai masterizzatori), i cui proventi dovrebbero essere divisi, salvo una provvigione per la SIAE stessa e non si sa bene in base a quali criteri, tra gli autori e gli editori membri della SIAE le cui opere potrebbero essere soggette a copia illegale. La tassa assume quindi la forma di una multa preventiva. Che sarebbe un po' come mettere in carcere tutti quelli che comprano un coltello da cucina perché potrebbero usarlo per uccidere qualcuno, o tutti i preti perché potrebbero violentare qualche minorenne. La multa preventiva in questione è qualcosa che va ben oltre un processo alle intenzioni, e viola uno dei pilastri del diritto civile e penale italiano: la presunzione d'innocenza; in quanto tale è anche incostituzionale (art. 27 della Costituzione Italiana).
Ci si potrebbe poi chiedere perché la riproduzione di materiale protetto da copyright preveda non solo sanzioni amministrative, ma anche la reclusione da sei mesi a tre anni; per contro, il falso in bilancio mirato all'evasione fiscale è stato depenalizzato (coincidentalmente da quel Berlusconi che ritiene l'evasione fiscale un diritto se non addirittura un dovere morale laddove si ritenga la tassazione eccessiva): truffare 60 milioni di italiani è molto meno grave che scavalcare gli interessi di una corporazione che non ha (più, se mai l'ha avuto) motivo di esistere.
È pure inutile sperare che i recenti attriti con la FIMI possano portare finalmente ad un ben necessario ridimensionamento della parassitaggine della SIAE, ma anche con le migliori speranze il panorama governativo italiano non promette nulla di più che un eventuale adelchico rimanere del vecchio col nuovo.
Il vero cambiamento dovrà essere culturale e di massa, e nasce già da internet, formando involontariamente una generazione con una ben diversa percezione della fruibilità dei contenuti creativi. E le sempre nuove, sempre più draconiane regolamentazioni che tentino di sabotare i frutti della terza rivoluzione industriale per proteggere gli interessi di quelle corporazioni il cui strapotere economico e conseguentemente politico è vanificato dai progressi della tecnologia saranno sempre più inutili.
Dopo tutto, e mi perdoni Publio Cornelio Tacito, valgono molto più i buoni costumi che non le leggi ridicole.