L'importante è finire
Nel mio dialetto esiste un termine, scunchiurutu, che vale letteralmente inconcludente, o magari sconclusionato, e si usa ad indicare cose, atti o persone senza senso, inutili, talvolta anche non particolarmente capaci o non particolarmente brillanti. E giusto per mettere in chiaro che questo articolo è decisamente più personale di altre riflessioni, farò subito presente che l'argomento riguarda la non infrequente applicabilità di questo termine al sottoscritto.
Penso di aver sempre avuto non dico un'avversione, ma almeno una tendenza all'incompatibilità con la conclusione; caratteristica, questa mia, che si è manifestata nel corso degli anni in maniere talvolta antipodali.
Ricordo ad esempio che al liceo, nell'esercitarmi a fare le versioni di greco, smettevo spesso prima di aver tradotto l'ultima frase; dal punto di vista razionale e cosciente, l'atto dell'abbandono era accompagnato da un pensiero del tenore di “ok, sono arrivato fin qui, lo so fare, inutile finire”; ovviamente, è più facile che fosse una combinazione di pigrizia e stanchezza a farmi lasciar perdere.
Per contro, nella fruizione di opere (libri, film, serie televisive) molto coinvolgenti, giungere alla conclusione era sempre un grosso problema, poiché indicava la fine di un (più o meno) lungo percorso in compagnia dei personaggi e degli eventi dell'opera: la conclusione era quindi un momento di grande nostalgia.
(Anche per questo non ho mai volontariamente abbandonato un film o un libro, anche se mi è capitato di non portarne a conclusione qualcuno per una sorta di inerzia dopo interruzioni forzate; ad esempio, sono per questo da lungo tempo a metà della lettura de I fratelli Karamazov.)
Nonostante questa non troppo subconscia sensazione di cesura, abbandono al termine di un'opera, non ho mai visto di buon occhio le ‘serie infinite’, in cui una storia viene trascinata anno dopo anno cercando di cavalcarne l'onda del successo. Per questo ho sempre deciso di guardare serie televisive che fossero già concluse, e questo ho molto apprezzato tanto di Battlestar Galactica quanto di Babylon 5, nonché della serie animata The last airbender.
I problemi delle storie infinite sono molteplici, non ultimo l'inevitabile crisi di creatività che porta alla decadenza della qualità dell'opera: una frontiera che nello show business ha preso il nome di jumping the shark in memoria di quello che viene considerato il momento di crisi peggiore della famosa serie Happy Days.
Ma anche supponendo un'infinita riserva di creatività, vi sono altri limiti il cui superamento crea complicazioni nelle storie infinite: il numero di situazioni differenti in cui i personaggi possono trovarsi nell'arco della loro vita è limitato, se non altro dal fatto che limitata è la vita degli esseri umani: a meno di non seguire un personaggio fin dall'infanzia, difficilmente si potranno descrivere più di 60 anni di avventure; e 60 anni sono tanti: in un tale periodo si verificheranno cambiamenti epocali nella geopolitica del mondo in cui i personaggi si muovono, nelle correnti culturali dominanti, nella tecnica e tecnologia che li circonda. E quanti autori avranno la capacità di gestire un universo immaginario tanto complesso?
Creare e fruire
La necessità o l'opportunità di una conclusione hanno per autore e fruitore pesi e valenze diverse.
Per il fruitore, l'opera è come il famoso viaggio della metafora, in cui percorrere la strada è più importante del giungere a destinazione1: arrivare significa terminare il viaggio, è un “non esser più”, non godere più del paesaggio, della storia, della compagnia dei personaggi. Chi mai, godendo della lettura di un libro, vorrebbe che il libro finisse, quando già il sapere di essere alle ultime pagine altera la nostra esperienza dell'opera (al punto che { chi? dove? Eco in un diario minimo? } suggeriva un ‘doppio fondo’ di pagine dopo la fine del libro, per nasconderne la vera lunghezza al lettore)?
Per l'autore, sono altre le questioni che intervengono. Un'opera conclusa è immutabile, definitiva, ‘perfetta’. O tale almeno dovrebbe essere. Il compimento di un'opera è gratificante, dà soddisfazione, coronando lo sforzo creativo come il raggiungimento di una vetta corona la fatica dello scalatore. O così almeno dovrebbe essere. Se per il fruitore l'opera è un occasione di svago, intrattenimento, per l'autore è un lavoro, un impegno. E se il fruitore potrebbe gradire un'opera infinita di cui godere indefinitivamente, gli sforzi dell'autore saranno piuttosto mirate al suo perfezionamento.
Tuttavia, non per questo giungere ad una conclusione è facile per un autore. Se avere la conclusione in mente è essenziale per evitare che l'opera si gonfi di inutile nulla, non per questo è sufficiente anche solo arrivarvi per dire “ecco, l'opera è finita”.
Anche quando l'intero progetto è ben chiaro e definito nella mente dell'autore, infatti, non sempre la sua realizzazione potrà dallo stesso essere vista come definitiva. Perfezionismo, insoddisfazione, la ricerca di una realizzazione ancora più vicina all'opera ideale che l'autore ha in mente, sono stati grandi nemici di opere immense (come l'Horcynus Orca di D'Arrigo), ma anche la causa di molteplici creazioni che si rispecchiano l'un l'altra, mentre l'autore cerca di creare la sua opera definitiva.
La scrittura ed io
Personalmente, ho sempre avuto un grande gusto nella creazione di storie. Ricordo che fin dai tempi delle medie, per lo meno, mi raccontavo spesso delle storie andando a scuola, o tornando a casa: un'abitudine che è perdurata negli anni del liceo, e poi ancora all'università, ed anche dopo, se pure dopo aver perso l'abitudine dei primi tempi di gesticolare come un pazzo per strada seguendo il mio racconto2.
Non ricordo bene quando ho cominciato a scrivere, mettendo finalmente ‘nero su bianco’ (anzi verde su nero, giacché scrivevo su un vecchio M24 con monitor a fosfori verdi) le mie idee, anche se ricordo bene di aver esaurito la pazienza della mia sorella maggiore, tenuta sveglia dal ticchettare dei tasti, nonché di aver avuto nella mia seconda sorella un'appassionata lettrice.
Ho preso nel tempo un grande gusto per la scrittura, ed ho sempre scritto con passione, sperimentando, rileggendomi, criticandomi stili e contenuti, apprezzandomi idee ed accorgimenti. Non so nemmeno se ho più tutto ciò su cui ho lavorato finora, e di alcune cose mi dispiace davvero, perché le ricordo con gran soddisfazione.
E c'è una cosa che posso dire con certezza di quasi tutto quello che ho creato e scritto, qualcosa che ho imparato su me e le mie creazioni, e riguarda proprio il problema della conclusione.
La maggior parte delle mie idee sono solo frammenti. Sono scene singole, senza una vera, completa storia di contorno. Sono momenti, spesso monchi di un prima, di un dopo. Eppure spesso sono scene, momenti, che riguardano gli stessi personaggi, e potrebbero —dovrebbero— essere parte di storie che spesso mi piacerebbe raccontare per intero. Ma quante cose mai ho davvero finito?
Ho concepito e lavorato a lungo ad almeno tre grandi storie: la prima, abbandonata da tempo, era quella della quale la mia seconda sorella consumava con gusto le prove, ed è ormai abbandonata da tempo, incompleta; la seconda è persa in chissà quale vecchio disco fisso, in attesa che la recuperi, e che provi almeno a finirne una bozza completa; la terza è il Gan'ka, attivamente in fieri.
Ad altre potenziali grandi opere, come Postapocalittica ed i precedenti Sopravvissuti (anche questi da recuperare) non ho invece ancora dedicato la stessa quantità di tempo.
Ho concepito e lavorato saltuariamente ad una quantità esorbitante di racconti tutti sullo stesso tema, Incontri. Non uno finito, se ricordo bene. Da almeno uno di questi ho anche tratto spunto per un'altra grande storia. Incompleta.
Sembra essere così per tutto. Vogliamo parlare de La Strega? O della Gita scolastica? E non va meglio nemmeno in altre lingue.
Eppure, qualcosa l'ho finita. Il primo racconto che ho finito, ricordo, nasce da una storia sviluppata insieme alla mia sorella maggiore, e poi messa per iscritto dal sottoscritto. Sono anche riuscito a finire altri brevi racconti, molto incisivi, in cui la singola scena era autosufficiente. Quattro di questi (Non ciò che ero, Momento sbagliato, Georg e il divertissement La stufa) sono anche presenti qui.
Ma un racconto finito non è necessariamente perfetto.
Georg
L'esempio perfetto a questo proposito è proprio il già citato Georg. Concludere Georg è stato per me tutt'altro che semplice, e il lettore curioso potrà notare l'invisibile nota che segue la conclusione, e che esprime proprio la mia insoddisfazione, pur in mancanza di alternative migliori.
E finché Georg fosse rimasto un semplice contributo al Wok, sarebbe andato bene così. Ma dietro suggerimento della moglie (senza dimenticare quello strisciante desiderio esibizionista che non manca a chi si pubblica in rete), ho anche deciso di proporlo per l'inclusione de L'ennesimo libro della fantascienza, raggiungendo improvvisamente una quantità di pubblico di parecchi ordini di grandezza più numeroso di quello del Wok.
Ed è così che finalmente ho potuto leggere, curioso, giudizi di gente totalmente estranea alla mia cerchia usuale. Giudizi che hanno puntualmente e spietatamente evidenziato la caratteristica mancanza del racconto.
"Georg": premessa interessante e costruzione scorrevole (non facile con un tema astratto), ma manca di una conclusione che richiuda la narrazione. 4/10
Sulla stessa linea .mau, che dedica a Georg il premio alla Migliore Idea Sprecata. Se non altro, nei commenti a quella premiazione ci si può anche divertire a leggere le interpretazioni che alcuni lettori hanno dato di Georg (qui una piccola esegesi fatta dal sottoscritto, per quanto abbia senso una cosa del genere).
L'importante è finire?
Se avessi voluto imparare qualcosa dall'esperienza di Georg, avrei imparato probabilmente questa semplice realtà: che l'importante non è finire, ma finire bene; finire tanto per finire non è, per l'opera, meno dannoso che gonfiarla di nulla, allungarne il brodo per non finirla.
E come già accennato, il problema non è che finire ‘bene’ è difficile ‘in sé’: se è vero che ci sono casi in cui l'insoddisfazione dell'autore per il finale raggiunto può essere ben motivato, è anche vero che un autore può trovarsi a non essere mai soddisfatto dai proprî finali, o di qualche parte di un'opera altrimenti conclusa, anche quando chiunque altro li accetterebbe, magari con entusiasmo, perché l'autore ‘vede’ qualcosa che i fruitori non vedono, e ‘sa’ quanto l'opera creata differisce da quella ideale.
No, l'importante non è finire, ma capire cosa questo significhi, esattamente. Anche senza arrivare al problema della terminazione umoristicamente citato da uno dei lettori di Georg nei commenti al .mau., è evidente che il ‘modo giusto’ di finire dipende molto dall'opera che si sta creando.
Se per un testo scientifico o filosofico la ‘giusta’ terminazione ha un'unica modalità (trarre le fila del discorso fatto, giungere ad una Hegeliana sintesi), per le opere di fantasia le possibilità sono molteplici.
Il metodo classico: la crisi è risolta, l'eroe giunge al termine del proprio compito, torna a casa o muore in un estremo sacrificio. A tesi esplicita (che io odio): come prima, ma si aggiungono pagine, inessenziali alla narrazione, in cui si ‘spiega’ quale fosse il punto dell'avventura. Shakespeariano: muoiono tutti, e non c'è più nulla da dire. Circolare: l'inizio è la fine è l'inizio. Aperto: se vende abbastanza ci faccio un seguito per vendere ancora.
Ed infine, ovviamente, il mio: mi viene un'altra idea su cui lavorare, mi ci butto fino a dimenticare come andava la storia dall'altra parte, e finisco con il non finire quello che comincio.
Ma è questa la chiave per finire bene? Tempo, immersione totale? Benché sia innegabile che i più grandi progressi nell'evoluzione delle mie storie li abbia avuti in queste circostanze, posso dire che se potessi dedicare alla scrittura la mia vita per intero riuscirei a terminare anche solo una delle mie idee ‘maggiori’? O saper finire è proprio quel quid individuale, naturale, che non si può imparare, che distingue il ‘vero autore’ dall'anche capace3 hobbista?
fanno eccezione alcune classi di opere, come i classici ‘gialli’ alla whodunnit, in cui alla fine capire chi è l'assassino è più importante di ciò che porta alla sua scoperta —con il risultato che questi gialli sono spesso producibili in serie, con scarsa qualità letteraria. ↩
Sono sicuro che si possono trovare ragioni fisiologiche a spiegare l'impulso creativo che accompagna le mie camminate, con una migliore circolazione del sangue, o chissà che (dopo tutto, mi metto a camminare per i corridoi quando devo scrivere qualcosa e sono a casa, o al lavoro). ↩
ed ovviamente qui mi riferisco al sottoscritto: senza false modestie, e con una forse eccessiva coscienza di me, mi ritengo personalmente piuttosto bravino nello scrivere, e con delle ottime idee; e sì, nei momenti migliori penso davvero che se solo sapessi finire potrei anche diventare uno scrittore di un certo successo. ↩