Fragile libertà
Uno dei concetti più ambigui eppur più ambìti e forse per questo più abusati dal genere umano è senza dubbio quello di libertà.
In effetti, in contesti molto diversi è anche sensato che il concetto assuma significati diversi; purtroppo però questa libertà (ahem) semantica degenera spesso in una sorta di paraculismo che finisce con lo sminuire un concetto altrimenti di indiscutibile potenza.
Nel ristretto ambito della fisica, si definiscono gradi di libertà i parametri indipendenti atti a determinare la configurazione di un sistema rispetto ad un dato riferimento. Ad esempio, una palla 8 nera su un tavolo da biliardo ha 5 gradi di libertà: due per determinarne la posizione rispetto al centro del tavolo da biliardo, e 3 per determinare com'è girata. Ovviamente, è possibile vincolare un sistema in modo che i gradi di libertà diminuiscano: ad esempio, costringere la palla a scorrere e rotolare dentro un tubo poggiato sul tavolo limita i suoi gradi di libertà a 4 (uno per la posizione nel tubo, e sempre 3 per la rotazione). Viceversa, si possono rimuovere vincoli facendo aumentare i gradi di libertà (se la palla può staccarsi dal tavolo, la sua altezza diventa un sesto grado di libertà).
Ovviamente, da un punto di vista diciamo così ‘spirituale’, questa definizione di libertà non è di particolare appeal, se non altro per il semplice fatto che materialmente le suddette libertà vengono stracciate dalla necessità delle leggi fisiche che governano l'andamento del sistema: benché la palla 8 lanciata in aria abbia 6 gradi di libertà, la sua (ri)caduta (libera!) è univoca, ben determinata ed imprescindibile (che noi la si possa prevedere con esattezza o meno, è ovviamente un altro paio di maniche). Non sorprende quindi che non si affermi comunemente che gli oggetti inanimati siano liberi, anzi Liberi.
Si potrebbe andare anche un po' più in là, osservando che per gli oggetti inanimati non ha nemmeno senso parlare di Libertà. E non pochi sarebbero d'accordo nel dire che persino per la maggior parte degli esseri viventi allo stato brado non si possa parlare di Libertà. Sembrerebbe quasi che quando si parla della Libertà, la libertà che interessa l'uomo, o gli uomini, o certi uomini, non si possa non presupporre che l'individuo, l'ente della cui Libertà si disquisisce, per la cui Libertà si lotta, la cui Libertà si assicura a gran voce abbia quel Qualcosa (autocoscienza? anima? spirito? libero arbitrio? volontà? intenzione?) che lo possa portare ad un attivo contrasto contro i vincoli cui è sottoposto.
Tuttavia, a ben guardare, non ci si sofferma poi più di tanto su quei vincoli a cui l'intero Cosmo (per quanto da noi conosciuto) sembra essere soggetto, come ad esempio le famose leggi fisiche di cui sopra: nel migliore dei casi, si cercano modi per raggiungere i limiti di certe leggi fisiche sfruttandone altre, come l'uso della fluidodinamica o dell'elettromagnetismo per vincere la forza di gravità (per qualche motivo, la legge di gravitazione universale sembra essere se non l'unica sicuramente una delle principali contro cui l'uomo ha cercato di combattere: dall'eterno sogno del volo alle moderne diete dimagranti). La loro ineluttabilità rende sensato il non considerarle quando si parla di Libertà.
Se a questo si aggiunge che si arriva tranquillamente a parlare di Libertà anche per gli animali che dall'uomo vengono vincolati (in spazi sufficientemente ristretti), non è difficile giungere alla conclusione che in realtà la Libertà di un ente ha come propria precondizione una costrizione imposta da un altro ente1, e che di quest'ultimo si suppone che sia dotato di quel Qualcosa (autocoscienza? anima? spirito? libero arbitrio? volontà? intenzione?) che lo possa portare ad un attivo e premeditato imporre vincoli ad altri enti, vincoli che chiamerò arbitrariamente ‘artificiali’ per distinguerli da quelli inescapabili dettati dalle leggi ‘naturali’. (S'intende quindi che per quanto precede e per quanto segue si debba supporre che l'attività umana —e forse non solo quella— non sia guidata esclusivamente da banali e deterministiche —per quanto ignote— reazioni biochimiche.)
A questo punto è d'uopo una piccola digressione. Volendo immaginare un
mondo privo dell'uomo (e di qualunque altra specie si possa supporre
dotata del suddetto ed iterato Qualcosa che la ‘liberi’ dall'essere una
semplice componente ‘paesaggistica’), si vedrebbe probabilmente un mondo
in cui le leggi ‘armoniose’ ma non per questo incruente della natura
regnino sovrane: un mondo in cui l'ordine del giorno è dettato dalla
legge comunemente detta “della giungla”, con gerarchie e (vincolanti?)
prevaricazioni dettate dai rapporti di forza tra i singoli esseri
viventi, eventualmente nelle loro (spontanee e naturali) associazioni in
greggi/
Verrebbe da chiedersi se le cose sono poi tanto diverse nel momento in cui entra in gioco l'uomo, ovvero un agente che grazie all'ormai troppo citato Qualcosa si suppone agisca al di fuori di criteri prettamente ‘naturalistici’. Da un lato, la spiccata capacità creativa (che in realtà con il progredire degli studi sugli animali sembrerebbe essere limitata alla creazione di strumenti per creare altri strumenti) altro non è che il punto di forza su cui poggia la sua prevaricazione sul resto degli esseri viventi, che potrebbe quindi rientrare nei criteri ‘naturali’ di dominio. Dall'altro, le strutture sociali su cui si fondano le comunità in cui questa specie si riunisce portano al loro interno il marchio del Qualcosa, e quindi dell'‘artificiale’.
Si notano così alcuni fenomeni interessanti. Si assiste alla stipulazione (più o meno formale, più o meno metaforica) di contratti sociali (più o meno rispettati) che alterano i rapporti di forza all'interno della società, a volte ad esempio concedendo autorità a figure che per le proprie doti non sarebbe ‘naturalmente’ portata al dominio, ed il contadino la cui figlia viene stuprata dal nobile rampollo si ritrova privato della possibilità di reagire, benché non avrebbe in condizioni naturali alcun problema a staccare la testa del suddetto pargolo dal collo dello stesso. E l'aspetto più interessante è la base quasi (ed a volte nemmeno tanto quasi) sovrannaturale, mistica e/o religiosa su cui certe forme di autorità fonda(va)no il proprio dominio: ed è interessante in quanto tentativo di rendere inattaccabile una data struttura ‘artificiale’ spacciandola per ‘naturale’ e quindi imprescindibile.
Veniamo quindi ad un primo possibile punto di diatriba: cosa si può dire di un individuo che, sottoposto a vincoli artificiali (basta con le virgolette, eh?), non ne sia cosciente? Da un lato, un osservatore esterno potrebbe affermare che l'individuo in questione non è libero, poiché egli (l'osservatore) sa che costui (l'individuo) potrebbe trovarsi in una condizione in cui il vincolo imposto artificialmente non fosse presente. D'altra parte, l'individuo, non avendo coscienza dell'artificialità del vincolo, non lo vivrebbe diversamente da quei vincoli naturali che, come già discusso sopra, non vengono normalmente presi di mira nella ricerca di Libertà: dal suo punto di vista non avrebbe quindi neanche senso parlare di Libertà (almeno riguardo a quello specifico vincolo) nella maniera in cui ne parlerebbe l'osservatore esterno.
Un secondo importante punto di diatriba, strettamente collegato al primo: è opportuno far sì che un individuo prenda coscienza di essere sottoposto a vincoli artificiali? Ed ancora: è opportuno liberarlo da quei vincoli? È meglio morire liberi o vivere senza avere coscienza del proprio non esserlo? Domande tutt'altro che retoriche ed oziose (si rifletta ad esempio sulle difficoltà di sopravvivenza degli animali nati e cresciuti in cattività, nel caso vengano liberati, o al senso di frustrazione ed alla conseguente degradazione della qualità della vita che si potrebbe provare nello scoprire di essere sottoposti ad un vincolo artificiale contro il quale non si può far nulla). Questo secondo punto meriterebbe una lunga ed approfondita discussione, ma la già eccessiva verbosità di questo articolo mi spinge ad accantonare queste interessanti domande per tornare al punto chiave che le accomuna e le lega alla precedente.
Il primo, fondamentale passo per guadagnare la propria Libertà è il prendere coscienza di avere una scelta: anche quando alcune delle scelte possano essere poco raccomandabili per via delle potenzialmente dannose se non letali conseguenze. Sarà forse una forzatura parlare di ‘scelta’ in questo caso, ma è comunque un aspetto molto importante da tener presente: un uomo sul ciglio di un burrone può scegliere se buttarsi o meno, benché probabilmente in condizioni normali la stragrande maggioranza degli individui che si trovassero in questa condizione sceglierebbe di non buttarsi. (Nel caso si buttasse, non potrebbe scegliere se precipitare o meno).
Con questa prospettiva, chi non ha coscienza di avere una scelta non è libero. Ad esempio, un individuo che segua le tradizioni assimilate dal contesto in cui è nato e cresciuto, senza mai porsi un interrogativo, senza mai chiedersi «ma perché così? perché non … invece …», costui certamente non è libero. Ma si può dire che chi ha coscienza di avere una scelta lo sia?
Si potrebbe ad esempio osservare che in certi contesti le alternative tra cui si può teoricamente ‘scegliere’ non offrano poi una gran varietà di scelte materialmente praticabili, vuoi perché si tratta di scegliere tra cose non realmente diverse da loro, vuoi perché tutte le alternative tranne una sono ‘insensate’. Chi non si è mai trovato in un contesto in cui il ventaglio di possibilità non nascondeva altro che scelte obbligate (almeno nella prospettiva del soggetto al momento della scelta)? Difficile dire che in questi casi la coscienza di avere una scelta sia sufficiente a dare la libertà.
A volte, però, anche scelte non obbligate degenerano. Un fenomeno non troppo difficile da constatare, ad esempio è la ‘ricerca dei limiti’ che caratterizza solitamente la preadolescenza e l'adolescenza degli esseri umani, un periodo in cui la progressiva scoperta della possibilità di disubbidire scivola non infrequentemente nella ricerca della disubbidienza. Quali che siano i meccanismi psicoemotivi che soggiacciono a questa reazione, il risultato è un imperativo ad agire in contrasto al vincolo artificiale: qualcosa che superficialmente potrebbe apparire come il semplice esercizio di una guadagnata libertà nasconde nella propria natura imperativa un nuovo vincolo, dove si arrende la propria libertà alla propria necessità di agire contro.
Con riferimento al precedente esempio, un individuo che agisca volontariamente ed intenzionalmente in contrasto alle tradizioni assimilate dal contesto in cui è nato e cresciuto, senza mai porsi un interrogativo, senza mai chiedersi «ma perché non così?», costui certamente non è più libero del precedente individuo: come le azioni ed i pensieri del primo erano dettate in maniera sostanzialmente deterministica dall'assenza di coscienza, quelle del secondo sono dettate in maniera non diversamente deterministica dalla coscienza stessa: fare le cose solo perché sono proibite non è meno vincolante che il non farle per lo stesso motivo.
Da questo punto di vista, le motivazioni che stanno dietro l'agire, o il non agire, in un certo modo, sono importanti tanto quanto, se non più delle azioni stesse, nel definire la libertà dell'individuo: cosa in sé non sorprendente, se l'idea di libertà implica il libero arbitrio. Inoltre, il prendere coscienza dell'artificialità di un vincolo non è quindi condizione sufficiente per la conquista della libertà, a meno di non ridurre la stessa all'infantile percezione di libertà come il “fare cose proibite”. Ma chi mai d'altra parte si ferma a questo livello?
Uno sketch del grande Giorgio Gaber procedeva secondo queste linee:
Un uomo in catene sa benissimo quello che vuole: vuole togliersi le catene. E allora si dibatte, lotta, ringhia, tende i suoi nervi, tira fuori tutta la sua energia. E finalmente: ‘SPRAAACK!’ «Libero! Sono libero, sono libero, sono libero … Oddio come sono libero …» E piano piano tutti i muscoli della sua faccia si rilassano, si afflosciano, lasciando intravedere i chiari sintomi una tristezza infinita e progressiva. Dopo un po' ingrassa, anche.
In realtà, ciò che si verifica in quei contesti sociopolitici dove certe libertà comunemente ritenute fondamentali sono almeno formalmente garantite (ovvero certi vincoli comunemente ritenuti un'universalmente ingiusta prevaricazione non sono ufficialmente imposti), è un rivolgercisi ad altre ‘lotte per la libertà’: ma per che tipo, che forma di libertà?
La libertà di parcheggiare in mezzo alla strada per minimizzare il percorso dallo sportello alla tabaccheria, la libertà di avere rapporti sessuali con chi si vuole quando si vuole, la libertà di truffare, la libertà di possedere l'automobile che si desidera guidare, la libertà di dire ciò che si vuole quando si vuole a chi si vuole, la libertà di consumare i cibi le bevande e le sostanze che si desidera consumare, la libertà di non far sapere ciò che si fa a chi non lo si vuole far sapere, la libertà di non essere giudicati, la libertà di non pagare per le conseguenze delle proprie azioni.
Una lettura del concetto di libertà che quindi altro non è che deresponsabilizzazione.
Per inciso, è interessante vedere le differenze tra la chiave pubblica e quella privata di questa lettura. Nel privato sembra infatti che si orienti spesso verso sogni che potrebbero essere estremizzati nell'irrealistica (e ridicola) inversione della ricerca di riconoscimento: «vorrei che mi amassero tutti, lasciando però che io li tratti sempre e solo a pesci in faccia», non meno irrealistico, in effetti, del sogno del volo. Nel pubblico si cerca invece una singolarità nel contratto sociale verso la propria persona, che è in genere quella di un individuo di una certa rilevanza politica e/o sociale: si cerca la possibilità di agire a discapito degli altri, chiedendo garanzie a protezione da quegli stessi altri, con la ben precisa intenzione di privarli della libertà di esigere un compenso per il danno subito.
In fondo, quello che si cerca in entrambi casi è un ritorno ad uno stato ‘naturale’, un po' verso l'infantilmente ingenuo (ed anche per questo non certo non crudele) nel caso privato, più verso un'amplificazione (piuttosto che un riequilibrio) di una legge ‘della giungla’ che valorizzi potere e prestigio piuttosto che altre meno demologiche capacità. In entrambi casi, andando più a fondo, quello che si cerca non è quindi una semplice liberazione del sé, ma una libertà individuale la cui altra faccia è pura e semplice prevaricazione, la cancellazione della libertà altrui.
Una siffatta libertà per sua stessa natura non può essere raggiunta da tutti. Viene allora da pensare che si debba cercare altrove il seme di una libertà individuale più universale.
Forse la risposta va ricercata proprio in quel Qualcosa che, distinguendo il genere umano dagli altri esseri viventi, sarebbe alla base della necessità stessa della ricerca di Libertà, poiché senza di essa non si potrebbe nemmeno parlare di intenzionale prevaricazione. Ed allora alla coscienza dell'artificialità dei vincoli si dovrà affiancare un'analisi critica delle conseguenze della nostra azione, presa in considerazione a prescindere dai vincoli stessi, valutando pertanto l'opportunità di seguire i vincoli o andarvi contro, a patto di accettare, responsabilmente, le conseguenze di ogni nostra scelta. Senza di ciò non si potrà mai veramente togliere ogni rilevanza etica al vincolo artificiale più insormontabile: il giudizio degli altri.
Con meno foga e secondo regole meno generali si parla anche di libertà per coloro che rimangono vincolati da eventi ‘naturali’ o comunque prescindenti da una volontà umana esterna a quella del vincolato, ma questo non disturba molto il resto del discorso. ↩