Darwinismo, giudizi, qualità e trascendenza
Uno dei più grandi mutamenti filosofici indotti dalle teorie
evoluzionistiche (spesso riduttivamente esemplificate con il darwinismo,
a cui va comunque il merito del ‘salto concettuale’ dal
microevoluzionismo al macroevoluzionismo ed alla speciazione, benché
Darwin stesso non avesse un'approfondita comprensione di quest'ultimo
meccanismo) è quello di aprire la strada ad una concezione della qualità
(nel senso comparativo di migliore/
Il risultato dell'evoluzione è sempre, in un certo senso per definizione, migliore di ciò che l'ha preceduta: il rigidissimo (benché statistico) criterio selettivo della sopravvivenza del più adatto non lascia spazio (sul lungo periodo) ad eccezioni di sorta. Ovviamente la più alta qualità globale di una specie lascia spazio ad interessanti contraddizioni rispetto ad una valutazione aprioristica: ad esempio, gli esseri umani sono meccanicamente poco adatti al bipedalismo, ma poiché proprio questo ci ha liberato gli arti superiori rendendoli disponibili per l'uso e la creazione di strumenti (in nostro punto di forza, come ho già detto), ci ritroviamo in condizioni meccanicamente non ideali, ma in cui il bilancio di vantaggio e svantaggi è comunque positivo.
Un altro aspetto non indifferente dei meccanismi evolutivi è che essi conducono tendenzialmente verso un aumento della complessità, probabilmente perché maggiore complessità dà maggiori speranze di sopravvivenza, almento entro certi limiti di bilanciamento (ovvero finché la complessità sia in grado di mantenersi e non si sgretoli schiacciata dal proprio metaforico peso): se consideriamo ad esempio che i nostri mitocondri hanno un loro codice genetico che è ben distinto dal nostro, verrebbe da sospettare che essi fossero in origine una specie a sé stante (e se lo fossero ancora? non si potrebbe persino mettere in dubbio l'idea della nostra individualità, come se fossimo (e con noi quante altre specie animali?) qualcosa come un formicaio, ma talmente più complesso da prendere coscienza?) sopravvissuta facendosi assorbire in qualcosa di ben più complesso.
L'uomo, per contro, soprattutto per quanto riguarda le proprie attività (fisiche o sprituali che siano) ha una forte tendenza ad intendere la qualità in senso molto più aprioristico, nonché frequentemente pregiudiziale, seguendo meccanismi psicologici che si manifestano talvolta paradossali, quando non addirittura perversi. Inoltre, soprattutto in certi campi, tende a prediligere una certa semplicità, o quanto meno un certo ordine, ad una caotica complessità.
In matematica, per dire, si preferisce cercare di ridurre il numero di ipotesi necessarie ad enunciare una certa tesi; e nel valutare la qualità di una dimostrazione si preferisce l'eleganza della semplicità piuttosto che dispendiosi barocchismi. Leggendo ad esempio i primi cinque postulati di Euclide (e ricordando che ciò che l'autore greco chiamava ‘retta’ la geometria moderna chiama ‘segmento’):
- Tra due punti qualsiasi è possibile tracciare una ed una sola retta.
- Si può prolungare una retta oltre i due punti indefinitamente.
- Dato un punto e una lunghezza, è possibile descrivere un cerchio.
- Tutti gli angoli retti sono uguali.
- Se una retta che taglia due rette determina dallo stesso lato angoli interni minori di due angoli retti, prolungando le due rette, esse si incontreranno dalla parte dove i due angoli sono minori di due retti.
si capisce subito perché ad Euclide quel quinto postulato non piacesse, e perché egli cercò di usarlo soltanto quando ne fu costretto, sviluppando le prime 28 proposizioni della sua Geometria1 tenendosene ben lontano.
In effetti, anche la ricerca della semplicità e dell'ordine sono funzionali. In matematica ad esempio più è semplice una dimostrazione più è difficile che nasconda subdoli errori; e più è semplice un enunciato più è facile che sia applicabile. In una società, regole e strutture ben definite e possibilmente semplici permettono a ciascun individuo che vi appartiene di conoscere con precisione il proprio ruolo e quindi (in teoria) di comportarsi di conseguenza facendo funzionare la società stessa senza inceppamenti.
Almeno in teoria.
Guardando la storia delle società umane non è difficile notare un andamento in un certo senso darwinistico, ad esempio nell'aumento della complessità, ovvero nella prevalenza di quelle società che hanno avuto una maggiore capacità di acquisire risorse, se non sempre di sfruttarle al meglio. E poiché da un punto di vista prettamente evoluzionistico ogni mutamento che si impone è un miglioramento2, le società contemporanee sono a posteriori “migliori” di quelle passate.
Tutto ciò ovviamente contrasta smaccatamente con la diffusa valutazione dettata dai criteri del giudizio umano, che invece propende frequentemente verso un nostalgico rimpianto di un passato raramente reale, più spesso fittizio o quanto meno idealizzato e/o mitizzato (probabilmente proprio per renderlo più appetibile), “età dell'oro” in cui si era vecchi a quarant'anni, si moriva generalmente nel primo anno di vita, le strade erano fogne e la Biblioteca di Babele era
solitaria, infinita, perfectamente inmóvil, armada de volúmenes preciosos, inútil, incorruptible, secreta
solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta
nonché immaginaria: nostalgie che prendono varie forme, dal «voglio andare a vivere in campagna» alla celebrazione di tradizioni varie nonché non più tali3 (se mai lo sono state).
Sarà sicuramente una coincidenza che molte delle nostalgie che rientrano della seconda esemplificazione mirino più che altro ad un periodo in cui il nostalgico sarebbe appartenuto —almeno secondo la sua opinione— ad una classe che godeva di certi privilegi di cui egli ormai non gode (più): generalmente quello di potersi dedicare alla coltivazione dei propri interessi perché altri provvedevano ai suoi bisogni, ovvero la possibilità di agire in maniera sostanzialmente arbitraria senza doversi preoccupare di significative reazioni sociali. Dopo tutto, queste pigrizie e velleità che hanno qualcosa di immaturo non sono l'unica possibile causa: si potrebbe anche supporre che semplicemente la maggior parte dei peones non abbia quella finezza spirituale necessaria per cogliere e prendere coscienza del prezioso valore perduto nella progressiva decadenza di tempora e mores.
Resta il fatto che i “bei tempi andati” sono, per l'appunto, andati: per quanto fossero grandiosi e/o gloriosi e/o valorosi e/o altrimenti migliori, hanno ceduto a ciò che li ha seguiti. Hanno fallito. Così, se qualcuno scrive:
Per inciso, è chiarissima in Evola l’eco di una polemica anticristiana di origine romantico-nietzscheana: il cristianesimo, religione corrotta, tarda e inguaribilmente “semitica”, avrebbe svilito e fiaccato l’anima dei popoli ariani privandoli dell’iniziazione regale-guerriera, e con ciò consegnandoli al vampiresco dominio di vuoti preti spacciatori di un’innaturale mitezza.
a me viene l'impressione che i popoli ariani ci facciano una figura piuttosto misera, ché nonostante la critica sia incentrata sulla religione cristiana, i perdenti sono coloro che da essa si sono fatti corrompere, svilire, fiaccare: verrebbe da pensare che un certo complesso di superiorità sia per loro inevitabile, visto il loro fallimento (banali e ben noti meccanismi di compensazione psicologica).
Ora, se il realizzarsi dei Destini è inesorabile, e tutto ciò che inesorabilmente si compie è Destino, è evidente che il subentrare, più o meno subdolo o per contro più o meno violento, del nuovo al vecchio è destino, del vecchio come del nuovo: il che non trattiene (né dovrebbe né potrebbe trattenere) i paladini del vecchio dall'auspicare un ritorno dell'oggetto della loro nostalgia; e benché non è da escludere che per loro il sentirsi richiamare al (da loro ritenuto) superiore (ma nonostante ciò, sconfitto) passato abbia già un forte valore, nel momento in cui da questo loro sentire deriva un agire non più interno e spirituale, ma esterno e concreto viene da chiedersi quanto possano essere proficui (o vani) (oltre che vanesi) i loro sforzi restauratori.
Dopo tutto, finché si parla di tutto ciò che è spirituale ed astratto non è difficile esprimere il proprio sentire senza tema di contrasto se non dall'eventualmente dissimile sentire di qualcun altro, essendo di dubbie fondazioni e soprattutto scarsa validabilità sia l'una sia l'altra tesi, come tutto ciò che è remoto tanto dal mondo sensibile quanto da quello della logica, dominî dai quali non si può più prescindere scendendo nel reale, dove sarà quindi più opportuna un'analisi più concreta, e pertanto evoluzionistica, dei processi che hanno portato il nuovo a prevalere sul vecchio: perché il nuovo manterrà il proprio dominio fintanto che le condizioni resteranno quelle che gli hanno dato il vantaggio sul vecchio, o finché non emerga qualcosa di ancora più nuovo (e che dal vecchio sarà ancora più remoto) che nel medesimo o in un nuovo contesto abbia maggiori possibilità.
Ovviamente, il sottoscritto è tutto tranne che uno storico delle religioni, quindi se mi si chiedesse ad esempio quali possano essere state le possibili cause dell'affermazione del cristianesimo, potrei farmi guidare solo dalle mie modestissime conoscenze di storia e del cristianesimo stesso, cucendo il tutto con le mie tendenze alla pragmatizzazione (detrascendentalizzazione) delle vicende umane.
A mio parere si possono identificare almeno tre possibili motivazioni dietro la forte presa che ebbe il cristianesimo delle origini: il suo avere sostanzialmente un unico, semplice precetto (“amatevi l'un l'altro”, con un exemplum più o meno mitizzato); la rivalutazione dell'underdog, in senso sia spirituale (poiché loro è il regno dei cieli) sia più terreno (appartenenza comunitaria); una filosofia che negava al potere dell'uomo sull'uomo ogni giustificazione trascendente (le prime comunità cristiane erano democratiche e comuniste). La forte valenza rivoluzionaria, se non addirittura sovversiva, di questi ultimi due aspetti spiega anche le persecuzioni subite dai cristiani, ed in particolare il loro inasprirsi proprio con l'approssimarsi di uno dei più gravi momenti di crisi dell'impero romano, che invece favorì notevolmente la diffusione del cristianesimo.
Cinicamente ritengo però che il vero punto di forza del cristianesimo fu il suo mutarsi paradossale ed ipocrita nel più astuto strumento di potere: da un lato rimanendo allettante con le sue promesse per la popolazione, dall'altro diventando incontrastata giustificazione per quel potere (spirituale e temporale) dell'uomo sull'uomo cui si opponeva il messaggio originale; congiunto all'assorbimento di miti e riti di altre religioni che in quello stesso periodo trovavano il loro spazio tra militari e governanti, questo fece di fatto del cristianesimo la religione più adatta per ogni livello sociale, una forza che la rende tutt'oggi pressoché impossibile da scalzare, nonostante (se non ormai proprio per) la chiara ipocrisia dei suoi sostenitori socialmente più visibili (dalle gerarchie ecclesiastiche a larghe fette della politica).
(Per inciso, proprio questo allontanamento del cristianesimo ‘ecclesiastico’ dal messaggio originario dovrebbe rendere quanto meno problematico criticarlo: ci si riferisce al suo valore primitivo, o a quello ben diverso che effettivamente ne garantì la predominante diffusione nel mondo occidentale?)
Se i preludi al crollo dell'impero romano furono terreno fertile per lo sviluppo del cristianesimo, ci si potrebbe chiedere cosa emergerà dalla crisi del mondo occidentale (crisi che immagino pochi ormai non si siano resi conto di stare vivendo). Personalmente, dubito che il troppo impegantivo razionalismo (in una qualunque sua forma) possa essere mai più che dominio di (relativamente) pochi, quindi mi resterà la curiosità.
In effetti, l'imprevedibilità dell'evoluzione (da cui per l'appunto la prevalenza del giudizio di qualità a posteriori piuttosto che a priori) ovvero più in generale del cambiamento è probabilmente uno dei principali motivi per cui molte filosofie che includono il trascendente hanno capisaldi che pescano invece in punti fermi assoluti, cercando origine o riferimento in qualcosa di aprioristico, universale, fisso, immutabile, eterno, possibilmente unico, che va a contrapporsi all'esperienza sensibile che illustra un universo in continuo mutamento, persino in ciò che le scarse conoscenze dell'antichità portavano a ritenere fisso ed immutabile (dalle montagne al pianeta stesso, dal sole alle stelle più remote).
E se si considera che ogni mutamento è non solo la nascita del nuovo ma anche la morte del vecchio, tanto più da vicino esso ci riguarda tanto più ci ricorda, consciamente o inconsciamente, la più grande minaccia alla nostra esistenza (ovvero la sua fine). Questo spiegherebbe l'inerzia non solo dei confronti dei mutamenti percepiti come peggioramenti, ma anche nei confronti di quelli nei quali non si riesce a vedere un vantaggio che compensi la perdita del vecchio: un egoismo generico con picchi nella sua manifestazione suprema che è la difesa della propria vita.
Le filosofie che si concentrano su assoluti spirituali esprimerebbero allora nient'altro che il bisgono dell'uomo di avere un centro di gravità permanente, un punto di riferimento fisso, reale o fittizio che sia, trascendente laddove l'immanente ne neghi uno: un bisogno che avrebbe come radice anche la paura della morte, nonché la possibilità di scogliere i propri dubbi, di trovare quelle certezze di base di cui la nostra capacità di esprimere giudizi a priori (indipendentemente dalla validità dei giudizi stessi) ha bisogno.
Forse, tutt'altro che eterno e modello astratto ed irragiungibile dell'universo sensibile, il mondo dello spirito è nato con la necessità (e la capacità) dell'uomo di nascondersi dalle proprie paure: un inganno necessario per vivere e sopravvivere in una realtà per la quale non siamo nulla di speciale, in attesa sola di un nuovo che ci soppianti.
Per inciso, la didattica moderna utilizza spesso al posto dell'enuncianto suesposto l'alternativo postulato di Playfair «data una retta ed un punto esterno ad essa, esiste una ed una sola retta passante per quel punto e parallela alla retta data» che a rigore non è strettamente equivalente a quello di Euclide, ma tiene conto di alcuni impliciti assunti che Euclide fece nelle proprie dimostrazioni. ↩
In realtà l'evoluzionismo concepisce anche i cosiddetti mutamenti indifferenti, ovvero che non dànno alcun beneficio, ma nemmeno fanno da ostacolo per la sopravvivenza, ed anche a questi può anche capitare di diffondersi sotto opportune condizioni. ↩
Ricordiamo che tradizione è (o dovrebbe essere) ciò che viene tramandato oralmente, e quindi per estensione gli usi, costumi e precetti appresi nella frequenza quotidiana del proprio nucleo familiare nonché nelle interazioni sociali con gli altri membri di più estesi gruppi sociali a cui si ritiene di o si è costretti ad appartenere. ↩