Gita scolastica/1

L'autista accosta, grugnisce qualcosa nel suo solito incomprensibile linguaggio, scende dal pullman e sparisce tra i cespugli. I professori si guardano sorpresi, poi scherzano con gli studenti delle prime file: «mi sa che avremo una piccola pausa fuori programma.»

«Professore, possiamo scendere anche noi?» «No, ragazzi, ripartiremo subito. Se volete sgranchirvi le gambe, fatevi una passeggiatina in corridoio.»

Minuto dopo minuto, la pausa si prolunga, l'autista non torna, i ragazzi cominciano a manifestare la propria irrequietezza, i professori il loro nervosismo. «Non vorrei gli fosse successo qualcosa.» bisbiglia la professoressa.

Traccheggiando con i pulsanti sul cruscotto, il professore riesce ad aprire la bussola anteriore, ed entrambi si sporgono guardando verso i cespugli. L'autista, una macchia azzurra e blu nel verde, giace riverso su una mezza siepe naturale.

«Oh mio dio.» la professoressa si precipita giù dal pullman, ed incespicando sul terreno raggiunge il corpo, lo volta, prova a sentirne il polso, senza successo.

Il professore, in attesa del ritorno della collega, ha cercato di chiamare un'ambulanza, senza successo. Gli studenti si sono ammassati contro i finestrini a seguire la scena; ma la professoressa, tornando al pullman, scambia con il collega solo brevi cenni del capo, sufficienti a comunicare quello che c'è da dire.

Mentre la professoressa, scoraggiata, risale lentamente a bordo, il professore fende il chiacchiericcio degli studenti, prova a riportare ordine, ne approfitta per cercare un cellulare funzionante. Il pullman è tutto un rimpallarsi di «Professore, qui non c'è campo.» «Professore, non prende la linea.» «Ma che sta succedendo?» «Ma siamo rimasti fermi qui?» «Ma cosa facciamo adesso?»

Quando il professore ha finito il giro, raggiungendo nuovamente la testa del pullman, i ragazzi sono tutti tornati al loro posto, seppure irrequieti, colpiti dalla coscienza di essere isolati dal resto del mondo, fermi in mezzo al nulla.

I professori stessi sono sorpresi, sbigottiti. Scendono dal pullman, parlando a bassa voce, interrogandosi sul da farsi. La donna è visibilmente sconvolta, l'uomo cerca di tranquillizzarla, gli studenti seduti da quel lato del pullman si schiacciano nuovamente contro i finestrini, cercano di indovinarne le parole, di interpretarne i gesti.

«Fermiamo la prossima macchina che passa, chiediamo loro di avvisare il 118. Magari nel frattempo riusciamo a contattare qualcuno col cellulare, il campo va e viene, possiamo beccare il momento giusto.»

Il vento fischia e ulula loro intorno per qualche minuto, prima che la donna proponga: «E se prendessimo noi il pullman e lo portassimo al paese più vicino? Se la strada non è troppo brutta potremmo portarlo anche noi.» «E l'autista? Lo lasciamo qui così?» «Lasciamo un segno, qualcosa, per indicare il posto … mio dio che situazione assurda, surreale, ma come diamine succedono queste cose?»

«E siamo ancora stati fortunati. Immaginati che succedeva se succedeva mentre era ancora alla guida.» l'uomo accenna con il mento in direzione del corpo dell'autista. «Per favore, non mi ci fare pensare,» la donna si cinge la fronte tra indice e pollice della mano sinistra.

«Seriamente, te la sentiresti di provare a portare il pullman?» insiste, dopo qualche secondo. L'uomo fa varie smorfie prima di rispondere: «Sinceramente, con i ragazzi a bordo? Mi sembra un po' rischioso. Piuttosto vado io a piedi fino al paese.» «Non ti mettere in testa di lasciarmi qui con … con il corpo dell'autista e la classe in fermento. Guardali lì …»

Quando i professori alzano lo sguardo, gli studenti tornano a sedersi composti, pur continuando a rimanere rivolti nella loro direzione.

«Be', aspettiamo, allora, almeno finché non ci venga un'idea migliore.»

Gita scolastica/2

L'attesa si prolunga. Il tardo pomeriggio primaverile sfuma in una triste serata, mentre gli studenti accettano mesti la loro situazione, distraendosi tra musica e giochi improvvisati.

Con l'affievolirsi della luce del sole, la loro collocazione isolata, sperduta si fa più manifesta: nessuna luce artificiale lungo la strada, i paesi più vicini invisibili oltre la cresta verso cui arrancava prima il pullman, da un lato, e dietro curve e tornanti alle loro spalle; nessun mezzo di trasporto oltre al loro pullman fermo sul ciglio della strada, nessun'anima viva intravistasi nelle ultime ore.

«Possibile che non sia passato nessuno in tutto questo tempo?» la professoressa è sgomenta. Il suo collega quasi nemmeno la sente, sprofondato com'è nelle proprie riflessioni. Si interroga sulla saggezza della scelta fatta, prova a figurarsi gli scenari, si chiede quanto avrebbe impiegato per raggiungere il paese più vicino, se fosse dovuto salire o scendere; si rende conto di non sapere esattamente nemmeno dove si trovano. Si morde nervoso il pollice, contempla la cartina, vecchia e vaga nelle indicazioni.

«Professore.» «Che c'è.» «Per la cena cosa facciamo?» Il professore annuisce. Certo. La cena. E dovranno —dovremmo— anche andare in bagno. Non siamo più bambini, ma a tutto c'è un limite. Saremmo dovuti tornare indietro; forse mi sarei dovuto mettere alla guida. Che stupido sono stato. Be', possiamo sempre farlo ora.

«Per ora dobbiamo accontentarci dello spuntino a sacco che ci siamo portati.» interveniene la collega, alzandosi con calma dal proprio posto. Avanzando lentamente lungo il corriodio, invitando gli studenti a tornare la loro posto, la donna controlla che tutti abbiano cibo e acqua; per chi è stato più distratto provvede lei, dal capiente borsone per le emergenze che occupa i due posti dietro il suo. «Se dovete andare in bagno, usate quello del pullman. Non scendete, l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un altro scherzetto.»

Il professore la guarda stupito e incredulo; si sistema meglio gli occhiali sul naso, come a capire se non sia un suo problema di vista, piuttosto che un'improvviso mutamento nell'atteggiamento di lei. Uscita dallo stato di shock, la donna passa ora a tranquillizzare e rasserenare tutti, con calma ed efficacia. “Scherzetto.” Bella parola per descrivere quello che è successo. Eppure la donna ora appare serena, arrivando persino ad abbozzare un sorriso quando, tornando al proprio posto, incrocia lo sguardo del collega.

«Mi sa che avevi ragione tu, avremmo dovuto provare a raggiungere il paese.» bisbiglia il professore alla collega, sporgendosi per coprire il corridoio che li separa. «Sì … forse …» la risposta della donna è lenta, quasi distratta. «Dopo questo spuntino,» insiste l'uomo «possiamo provare.»

«È buffo,» la donna commenta dopo qualche secondo «tu stai cambiando idea, ed io invece ho la netta sensazione che invece rimanere qui sia stata la scelta giusta. È così silenzioso, là fuori, così … privo di umanità, c'è solo la strada, il nostro pullman, quel pover'uomo …»

Ma non c'è paura, nelle sue parole; forse un po' di tristezza, ma quello che soprattutto colpisce il professore è la rassegnazione nella voce della donna.

Lo scambio di battute è durato poco, ma quel poco è bastato perché la sera si trasformasse in notte, una notte buia come la pece, coperta da un cielo rossastro e fosco che rapidamente sfuma in un nero sparsamente trapuntato.

Lo scendere quasi improvviso delle tenebre soffoca per qualche secondo anche il mormorio delle conversazioni degli studenti, lasciando spazio solo al sibilare del vento, allo scricchiolare dei sedili. Il professore torna al cruscotto, si guarda intorno con una lampadina tascabile, trova il pulsante delle luci per l'abitacolo, e l'intera classe sembra riprendere a respirare con un sospiro di sollievo.

L'uomo rimane seduto alla plancia, ricontrolla tutti i tasti, il freno di stazionamento, il cambio, i pedali. Sembra tutto a posto, molto simile alle automobili, solo più grande, o in posizioni leggermente diverse.

Le stelle fuori sono poche, fioche, tremolanti. Il professore si chiede com'è il resto del cielo, la parte che non si riesce a vedere da dentro. La collega gli si siede dietro, si sporge in avanti per potergli parlare a filo di voce. La sua voce, così aerea e distratta prima, è ora secca e decisa.

«Non scendere,» gli dice, come se avesse indovinato le sue intenzioni «non mi piace, non mi convince.» l'uomo si volta a guardarla, ma la donna non è spaventata; piuttosto, concentrata: come se cercasse di intravedere là fuori qualcosa di sfuggente alla vista.

Quando infine il professore prova a mettere in moto, l'avviamento singhiozza e boccheggia disperato. Al secondo tentativo, dopo aver spento tutte le luci, il motore riesce finalmente a prendere vita, per reggere qualche secondo prima di tornare a morire. Al terzo, il professore sta molto attento a mantenere sull'acceleratore l'attenzione dovuta ogni volta che il motore prova a spegnersi.

«C'è qualcosa che non va. O il motore non regge il minimo o …» «Lascia perdere,» la professoressa gli poggia una mano sulla spalla «mi sento molto più sicura a rimanere qui dentro, sinceramente. Chiudi tutto, lascia accese solo le lucine della corsia, per non inciampare se ci si alza di notte per andare in bagno. Dormiamo qui, domattina pensermo al da farsi.»

Il professore spegne il motore, controlla la chiusura delle bussole e la sicura dello sportello alla sua sinistra, torna ad accendere le luci interne; la collega ripercorre l'autobus, informa gli studenti della decisione, li invita a prendersi una coppia di posti ciasuno per poter dormire più comodi, e ricorda loro che l'indomani verranno svegliati dalle prime luci dell'alba, e che quindi sarebbe meglio se cercassero di dormire quanto prima.

Non si sentono proteste né lamentele. I ragazzi si ridistribuiscono sui trenta posti disponibili, la professoressa ne approfitta per contarli un'ultima volta, ed infine torna alla testa del pullman. «Oh be', per lo meno siamo ancora tutti.»

Gita scolastica/3

La notte passa scomoda e fastidiosa. Il vento fuori sibila continuo, e nelle folate più violente scuote l'intero pullman, ululando. Nello sgradevole dormiveglia, il professore sente rumore di sabbia, percepisce un'oscurità ancora più greve, come se qualcuno avesse spento anche le ultime stelle. Ogni tanto qualche studente va al bagno, poi torna a stendersi al proprio posto accucciandosi, in posizioni a volte improbabili, sotto la propria giacca.

Nell'ora più fredda, il vento si placa, ed è poco dopo che il cielo comincia a schiarire, sebbene il professore non sia sicuro dello scorrere del tempo; non sa nemmeno se ha dormito, o quanto. Passeranno ancora ore prima che il sole sorga dietro le creste delle montagne, ma la maggior parte degli studenti è già sveglia, anche se non li si potrebbe definire attenti: all'assurdità della loro situazione si va aggiungendo la spettralità dei volti nel risveglio da una scomoda notte povera di sonno.

Al professore viene da ridere: un pullman di zombie in un mondo senza più vita. È troppo facile lasciar correre la fantasia agli scenari catastrofisti, in una situazione del genere, tanto appetitosa per troppa letteratura post-apocalittica.

La professoressa sembra aver dormito meglio di molti, e dalla sua infinita borsa per le emergenze tira fuori un thermos; mormorando un “temo che abbia perso molto del suo calore” ne versa un bicchiere al collega, quindi uno per sé. Il té al limone, non più caldo ma non ancora freddo, li aiuta a riprendere voglia di affrontare la giornata.

Il professore accenna a quegli studenti che, nonostante la luce ed il sordo trambusto che comincia a crearsi al risveglio dei compagni, sono ancora immersi nel più placido dei sonni. «Invidiabili. Mi sa che gli daremo ancora qualche ora per svegliarsi.»

«Progetti per oggi?» «Ci muoviamo. Da questa strada non passa nessuno, a quanto pare. Non possiamo rimanere qui in eterno. E visto che il pullman non ne vuole sapere, ci dovremo muovere a piedi.» «Quanti chilometri?» «Bella domanda. Questa cartina è la cosa più farlocca che mi sia mai capitata tra le mani. Dovremmo essere circa qui, ma a questa scala non è facile capire dove, esattamente. E se non sappiamo dove non sappiamo qual è più vicino,» indica i due paesi tra cui si stavano spostando ieri «e dove convenga andare.»

«Professore.» «Che c'è, Sacchinelli.» lo studente gli porge il proprio smartphone, gli occhi del professore si illuminano, ma il suo entusiasmo è presto smorzato «Il cellulare non prende la linea, ma il GPS sì. Dovremmo essere circa qui.»

Il professore prende in mano lo smartphone, controlla la mappa. È piuttosto diversa dalla cartina su cui ha cercato di raccapezzarsi fino ad allora, e molto più verosimile. Se la posizione è corretta, il pullman si trova circa a metà strada —ovviamente, pensa l'uomo, che gusto c'era altrimenti?

Con un sospiro, il professore passa lo smartphone alla collega. «Mi sa che torneremo indietro. Se non altro è di discesa, e se le distanze sono giuste dovremmo sbrigarci in tre, quattro ore.» «Con zaini e borsoni?» Oh vero. «Sempre dell'idea che non sia il caso che io vada da solo?» «Non esiste.» «Arriveremo in paese per pranzo, se va bene.» «Andrà bene.» «Com'è andata finora?» I professori ridono amaro.

L'organizzazione non è difficile: il professore è il primo a scendere dal pullman, si posiziona in modo da dirigere facilmente gli studenti verso la coda, li conta ad uno ad uno mentre scendono, ripetendo le istruzioni ogni due o tre teste: non lasciate nulla sull'autobus, prendete i vostri borsoni, scendete fino alla coda.

Qui avrebbe fatto comodo essere in tre, pensa il professore, mentre gli ultimi studenti defluiscono dal pullman; la sua collega si prende cura di chiudere tutto, scende dal lato dell'autista, raggiunge il resto della classe dietro il pullman, e sono finalmente pronti a partire. Sembrano sereni, i professori, ma guardandosi negli occhi sanno di aver notato entrambi la stessa cosa: l'autista è sparito, la macchia blu in mezzo al verde non c'è più. Cani randagi? Lupi?

Gli studenti sembrano aver preso gusto all'avventura fuori programma, marciano spensierati sull'asfalto, scherzano, cantano. Il professore è lieto che siano così pochi, sette a testa da tenere a bada, e nemmeno particolarmente ‘irrequieti’. Sacchinelli ogni tanto getta un occhio al proprio smartphone, come a controllare di essere sulla strada giusta; il professore se lo tiene vicino, ma è piuttosto sereno, la strada non ha biforcazioni, e scende, curva dopo curva, fino al paese.

La passione iniziale dei ragazzi si va spegnendo con il passare del tempo e il sopraggiungere della stanchezza, ma nonostante tutto riescono a tenere un buon passo, ingegnandosi per alternarsi nel portare i borsoni, poggiandoli su quelli di chi ha trolley con le ruote, lasciando che la discesa li aiuti; ed i primi segni della civiltà, intravisti che ormai è passato mezzogiorno, infondono loro nuova energia.

L'entusiasmo dei ragazzi muore però velocemente quando il paese li accoglie con un freddo, spettrale silenzio che sarebbe più adatto ad una domenica dopopranzo che prima di pranzo in mezzo alla settimana. Non una persona per le strade, non una saracinesca aperta.

L'avanguardia del gruppo degli studenti rallenta, si lascia raggiungere dagli altri; i professori si guardano intorno, stupiti non meno dei ragazzi.

«Professore.» «Eh.» «Non c'è nessuno.» «Parrebbe.» «Però all'andata c'erano.» «Mi ricordo anch'io qualcosa del genere.»

«Proviamo a suonare a qualche campanello?» propone uno dei ragazzi. In qualunque altro momento, il professore avrebbe osservato che non era il caso di mettersi a fare scherzi stupidi, ma adesso l'idea non pare tanto male. Lasciando collega e studenti sulla strada, l'uomo si avvicina ad uno dei palazzi, suona un campanello, aspetta, prova il successivo, aspetta ancora, e così fino a coprire l'intera bottoniera. Quando torna a raggiungere i ragazzi, il suo sguardo stranito si riflette su quello ansioso degli studenti, della collega. «Deserto.» si limita a dire l'uomo.

La classe continua ad avanzare, guardandosi intorno stupita. Nessun segno di vita, come se l'intero paese avesse fatto i bagagli e se ne fosse andato, lasciandosi dietro solo le case; non ci sono panni stesi alle finestre, non ci sono motorini parcheggiati sui marciapiedi; l'unica automobile, parcheggiata seminascosta in una traversa, è vecchia, polverosa, con gli pneumatici sgonfi, abbandonata lì da chissà quando.

Il gruppetto si tiene ora compatto, marciando lentamente in formazione pressoché quadrata, con i professori in seconda e quarta fila non meno confusi dei loro studenti, soggetti non meno di loro alla sensazione di pericolo e minaccia stimolata da quell'innaturale assenza di vita che li circonda. Ogni tanto si fermano, il professore si stacca da loro per provare qualche citofono, torna a raggiungere il gruppo, ed insieme ripartono.

«Professore, lì c'è una cosa aperta.» tutto il gruppo si volta, si spostano compatti addentrandosi nel vicolo segnalato, attratti dall'ingresso della trattoria che si trova all'altro estremo.

È il professore ad entrare per primo, nella grande sala deserta. «C'è nessuno?» la sua voce rimbomba, nessuno risponde. Con un sospiro che ha più del rassegnato che del sollievo, l'uomo torna all'ingresso, la collega risponde con spallucce al suo sguardo interrogativo. «Forza ragazzi,» l'uomo fa cenno agli studenti «almeno ne possiamo approfittare per riposarci un po'.»

La proposta viene accolta con un grido d'entusiasmo, ed il professore si ritrova a doverli nuovamente imbrigliare, per evitare che sfondino le porte cercando di entrare tutti insieme.

«Uno per volta, ragazzi, c'è posto per tutti, posate i borsoni di lato all'ingresso, andatevi a sedere, non fate caciara, con calma, ragazzi.»

«Professore, posso andare in bagno?» giunge la domanda da dentro la sala. «Aspetta che facciamo la conta.» «È urgente.» «Vai, ma torna subito.» «Professore, sto andando pure io.» «Ragazzi, un momento, uno per volta.»

Il caos si placa con il terminare dell'afflusso degli studenti. Il professore getta un ultimo sguardo all'esterno, per assicurarsi che nessuno sia rimasto fuori, forse anche nella speranza di intravedere qualcuno, chiunque, al di fuori della classe, quindi chiude la porta.

I bagagli sono stati accatastati confusamente accanto a lui, i ragazzi si sono distribuiti ai tavoli. C'è meno gente del previsto, e l'uomo, pur pensando a livello cosciente che assenti sono gli studenti andati in bagno, non riesce a scrollarsi di dosso l'idea che ci sia qualcosa che non vada.

«Professore, manca la professoressa.»

Gita scolastica/4

Mentre gli studenti che sono andati al bagno cominciano a tornare, il professore si guarda intorno perplesso. Forse anche la collega era in bagno? Ma prima ancora, è entrata affatto in trattoria?

L'uomo riesce a ricordare chiaramente lo sguardo che si sono scambiati mentre lui si affacciava dalla trattoria per invitare gli studenti a entrare, e riesce a ricordare con uguale precisione di non averla più vista fuori, prima di chiudere la porta.

È successo qualcosa in quel fatidico momento di distrazione in cui ha cercato di raccomandare agli studenti di aspettare; o la collega gli è passata sotto il naso senza che lui se ne accorgesse, o è sparita in quel momento. Sparita dove?

«C'è qualcun altro in bagno?» «No, professore.» L'uomo tira fuori il foglio per le presenze. «Augusto.» chiama; si guarda intorno, gli studenti si guardano intorno; «Non c'è.» dice qualcuno. «Cominciamo bene,» mormora l'uomo, annotando il foglio «Bertaglia.» «Presente.» Un sospiro di sollievo.

  • Augusto ✗
  • Bertaglia ✓
  • Bertone ✓
  • Bolani ✓
  • Faenza ✓
  • Gargani ✓
  • Gorigno ✓
  • Lomatto ✓
  • Licitra ✓
  • Malloni ✓
  • Sacchinelli ✓
  • Stefani ✓
  • Torre ✗
  • Veneziano ✗

Abbassando il foglio delle presenze, ritrovandosi sotto gli sguardi tra lo spaventato e il curioso degli studenti, il professore si sente prendere dal panico. Manca un terzo dei ragazzi che gli erano stati affidati, è sparita la collega; l'unico, magro appiglio è la speranza che i tre studenti mancanti siano con la collega —sì, ma dove?

Il peso dell'assurda situazione, la responsabilità della cura di quella decina di ragazzi seduti in giro sui tavoli, la mancanza di un appoggio, di un aiuto, di qualsivoglia consiglio lo colpiscono in pieno. Sgomento, si guarda intorno sperduto, incurante del fatto che i suoi studenti possano vedere il suo smarrimento.

Accanto al registratore di cassa, dietro il bancone, c'è un telefono. Sarebbe una di quelle cose quotidiane a cui, in giorni normali, non si presterebbe minimamente attenzione, ma per il professore è come se qualcuno gli avesse tirato un salvagente.

Con movimenti controllati, per evitare di precipitarcisi sopra come un assatanato, il professore fa il giro del bancone, alza la cornetta, ascolta il familiare suono del telefono in attesa, e finalmente compone il numero per le emergenze.

Il problema del crearsi aspettative, del nutrire speranza è quanto più doloroso diventa il crollo quando la realtà ci ricorda il nostro posto nella crudele realtà.

I ragazzi non hanno nessun problema ad indovinare quanto (poco) successo abbia avuto il tentativo del professore di mettersi in contatto con qualcuno: basta loro vedere la fiamma dell'entusiasmo che si era brevemente accesa sul suo volto morire rapidamente, la pesantezza con cui l'uomo abbassa la cornetta, la rialza, tenta un nuovo numero.

Sulla sala scende il silenzio della preoccupazione, mentre ciascuno di loro si rende conto che il fuori programma non è più qualcosa da affrontare spensieratamente, non è più solo il fastidio di una notte scomoda passata cercando di dormire in pullman; la mancanza di connettività non è più soltanto l'incapacità di aggiornare il proprio stato sui social network; qualcosa di molto più grande, e di molto più grave, sta succedendo intorno a loro, e nessuno di loro ha idea di cosa.

«Professore.» «Hm.» «Cosa … cosa sta succedendo?» la voce della ragazza è timida, trattenuta dalla paura di infrangere quel silenzio, provocare chissà quale reazione.

Il professore annuisce. «Siamo …» cerca le parole più giuste «… siamo isolati dal resto del mondo.» conclude. Non sono le parole giuste, ma lui non sa trovare le parole giuste; la collega era brava, sì, sapeva calmare, tranquillizzare, pacificare. Lui ha con sé solo la forza bruta della realtà, dura spigolosa sconsolata.

Ma non sembra esserci bisogno di tranquillizzare. Forse perché ancora troppo sconvolti dalla loro presa di coscienza della situazione, nessuno dei ragazzi esplode in uno scatto di rabbia o di frustrazione, in una crisi isterica. Esteriormente calmi, aspettano.

Anche il professore aspetta. Aspetta di aver raccolto abbastanza forza di volontà per prendere in mano la situazione, per poterla valutare con serenità, senza panico, valutando gli eventi e scegliendo il corso che loro, professore e studenti, dovranno tenere per il futuro.

Adesso, l'atteggiamento che l'aveva sorpreso nella collega, quella calma rassegnata, assume un nuovo colore, un nuovo significato. Sei in una situazione che ha dell'assurdo, ogni cosa sembra andare per il verso sbagliato; c'è una soluzione? se no, allora di che ti preoccupi? se sì, allora di che ti preoccupi?

Respirare. Se c'è una soluzione, non è nell'angoscia che la potremo trovare. Se non c'è una soluzione, non sarà con l'angoscia che tireremo avanti. Abbiamo un tetto sopra la testa a proteggerci dalla pioggia, quattro solide mura a proteggerci dal vento. Abbiamo acqua corrente in bagno, elettricità (va bene, quanto dureranno? non lo sappiamo, non importa; ma avremo il buon senso di non abusare dell'ospitalità di questo luogo).

Siamo in una trattoria. Potrebbero persino esserci da mangiare.

Gita scolastica/5

L'uomo trova una rinnovata tranquillità —forse più una distrazione— nel dirigere le azioni per il pranzo, assegnare i compiti ai ragazzi che si propongono, dare un occhio o qualche consiglio durante l'opera: chi alla dispensa, chi alla cucina, chi a preparare i tavoli, i ragazzi si mettono all'opera; sotto tono, ma già rasserenati dalla determinazione del professore.

Quando finalmente tutto si ferma, e rimane solo da aspettare che sia pronto, l'uomo sente tornare le domande sul destino della collega, degli studenti spariti nel nulla. Si ritrova davanti la grande porta a vetri —chiusa— del locale, a guardare fuori le strade vuote, un debole riflesso della propria immagine contro il vetro.

Mosso dal desiderio di affacciarsi un attimo, guardare fuori, cercare indizi sulla sparizione della collega, l'uomo afferra la maniglia, e nel momento preciso in cui la sua mano vi si serra intorno, la voce della collega riecheggia chiara, nitida: Non aprite!

L'uomo si ferma, interdetto. Si guarda intorno, ma nessuno degli studenti sembra aver sentito nulla: continuano nelle loro chiacchiere a bassa voce; qualcuno, annoiato, chiede a che punto sia la pasta. Nessuno sembra nemmeno prestare attenzione al professore, al suo sguardo nuovamente sbigottito.

“Non sto uscendo pazzo,” si dice il l'uomo “ho solo ricordato l'avviso che ci aveva già dato sul pullman, non aprire, non uscire: dentro, siamo al sicuro; fuori, l'incognita.”

In quel mondo che sembra aver abbandonate il familiare per immergerli nell'inatteso, nell'inspiegabile, nel misterioso, la modesta rassegnazione della collega, il suo buon senso, diventano un'àncora, un caposaldo cui legarsi per non perdere la ragione. È per questo, si dice il professore, che ne sento ancora la voce; nessuna telepatia, nessuna comunicazione con i defunti, nessuna magia, nulla di soprannaturale: è solo il mio modo di mantenere il contatto con la realtà.

A distoglierlo da quei pensieri è l'entusiasmo dei ragazzi quando finalmente cominciano ad arrivare i primi piatti. Li guarda mentre gridano avanti e indietro, si passano i piatti, si alzano per aiutare, ed il suo ruolo gli appare ora chiaro ed evidente: dirigerli, guidarli attraverso quell'impossibile situazione.

Ed improvvisamente la sua mente è piena di pensieri sulla logistica, sull'organizzazione: un inventario delle risorse disponibili, l'organizzazione dei pasti, del sonno, dei tempi, i turni per la cucina, per la pulizia, per l'igiene personale.

Immerso in quelle riflessioni, vede a stento il piatto che gli viene servito, ed è solo quando si sente chiamare dagli studenti, preoccupati dalla sua distrazione, che comincia a mangiare; ma approfitta del richiamo per anticipare ai ragazzi la piccola riunione a cui dovranno partecipare dopo il pasto: non sono più una classe in gita, ma è come per un campo che si dovranno organizzare.

La reazione degli studenti lo sorprende, nuovamente: prendono la cosa con entusiasmo, passione. Hanno appena finito di mangiare, e già si sono spontaneamente divisi i compiti: c'è chi sparecchia, chi prepara la lavastoviglie, chi ridispone i tavoli, preparando un quadrato attorno a cui si possano sedere tutti. Bravi ragazzi. Brave ragazze. Il professore si scopre sorpreso a notare il maschilismo della lingua; è questo il momento di pensare a queste cose?

Le decisioni sul cosa fare e come farlo è breve, indolore; i turni vengono stabiliti in ordine alfabetico, con una semplice distribuzione ciclica di oneri e onori. L'uomo ha la sensazione che le cose stiano andando troppo lisce, e si chiede cosa succederà quando l'emozione dell'avventurosa novità sarà scemata, quando gli attriti della vita comune in quel piccolo spazio cominceranno a mostrare i primi effetti; ma per il momento, la più grande preoccupazione sono le domande che inevitabilmente emergono: cosa sta succedendo? per quanto tempo dovremo restare qui? per quanto tempo potremo?

È il momento di fare l'inventario. L'uomo prende con sé due studenti, e lascia gli altri liberi di passare il tempo come preferiscono, confidando che la lunga camminata ed il soddisfacente pranzo abbiano la meglio sui loro entusiasmi, e che li porti ad un pomeriggio di riposo: ed è proprio così che li ritrova tornando infine nella sala principale, completata la lista dei viveri, delle risorse. E loro, il professore conta rapidamente le teste, sono ancora tutti lì.

Ci sono quelle che si sono appisolate sedute dov'erano, chinate sul tavolo; c'è chi ha trovato una soluzione più comoda accostando delle sedie; c'è chi usa lo zaino come cuscino. E il professore fa ora mente locale sul fatto che dovranno, per la seconda notte consecutiva, dormire accampati. E già il pensiero gli corre all'indomani: che cosa li aspetta ancora?

Il cielo si rabbuia, ma è troppo presto perché faccia notte. Grossi nuvoloni cupi si vanno addensando, spinti da un vento che si fa sempre più violento, finché non lo si sente fischiare nelle strade, tra gli edifici; il suo ululato distrae gli studenti che chiacchieravano a mezza voce in un angolo, ne sveglia qualcuno di quelli appisolati.

Gli sguardi di tutti si volgono alla grande porta a vetri, alle finestre; si aspettano che accada qualcosa di spaventoso, forse solo lo scatenarsi di una bufera di potenza inaudita, forse lo spalancarsi improvviso di quella porta, di quelle finestre, a lasciare che la violenza del vento possa invadere quegli spazi.

I vetri tintinnano sotto le raffiche più feroci, ma resistono. Il vento persiste, con rabbia crescente, finché improvvisamente cede, lasciando che la polvere in strada ricada, che le cartacce si fermino. Nella trattoria, in un sospiro collettivo, ciascuno riconosce il placarsi dei timori che hanno condiviso, trattenendo il fiato.

I nuvoloni permangono, cupi, gonfi, oscurando il cielo; ma la loro minaccia pare distante, vuota. I ragazzi si intrattengono in chiacchiere, in giochi, forse senza più l'entusiasmo di prima, ma comunque con una distratta allegria, salvo soffocare le voci, fermarsi timorosi in attesa, in ascolto, ogni qualvolta il vento riprende forza, con raffiche improvvise o lenti crescendo. E verso sera anche il vento ha perso la sua minaccia, è diventata quasi un'abitudine, una breve pausa senza più vera paura al tintinnare dei vetri, prima del riprendere delle attività.

Quando infine si ritrovano a cena, il vento che ha ripreso foga, diventa un semplice argomento di conversazione; ma se si commenta la sua violenza quasi con nonchalance, rimane una sottile vena di nervosismo: non sorprende più, non lascia più con il fiato sospeso, ma la sua rinnovata, e stavolta perdurante, ferocia lascia a tutti un'ombra di disagio.

L'intero pasto viene accompagnato dall'ululare del vento, dal tintinnare dei vetri, e quando infine studenti e professori si alzano da tavola è la tempesta stessa che si è andata accumulando sopra le loro teste che trova improvvisamente sfogo, con il secco schioccare di un fulmine nelle vicinanze subito seguito dall'improvviso scrosciare della pioggia, preludendo ad una notte senza pace.

I ragazzi di turno sparecchiano precipitosamente, per tornare in fretta nella sala comune. Il professore vede ora, per la prima volta dall'inizio di quella assurda situazione, la paura crescere negli occhi dei suoi studenti, nel modo in cui questi si scambiano sguardi come a cercare aiuto, supporto, per trovarvi invece soltanto riflessa la paura dei compagni.

I commenti sono mesti, sul tono di “mammamia che brutto tempo” o “stanotte non si dorme”; mesti sono i movimenti con cui i tavoli vengono messi da parte per lasciare uno spazio centrare in cui dormire. Nessuno degli studenti sembra prendere l'idea di usarli come letti; piuttosto, non si capisce se consciamente o meno, i tavoli vengono spostati verso la porta, come a creare una barriera contro qualunque cosa possa riuscire ad entrare durante la notte.

Giacigli di fortuna vengono preparati sul pavimento, abiti e giubbotti per avere qualcosa di morbido su cui poggiarsi, zaini e borsoni a fungere da cuscini. Nessuno propone argomenti per una chiacchiera, nessuno propone un gioco; la stanchezza per la lunga giornata e la precedente scomoda notte, la paura per la tempesta la fuori, tutto invoglia solo alla pace, al silenzio, in attesa del sonno.

A luci spente, il professore non riesce a prendere sonno. Nell'oscurità che li circonda, saltuariamente interrotta dall'azzurra luce di un lampo, non può fare a meno di pensare quanto possa essere facile, lontani dal mondo, ricadere vittima di ancestrali paure, come i bambini. Sono soli, senza nulla che possa proteggerli dalla furia della natura. Si immagina la collega, là fuori, un Gandalf al femminile che li difende, urlando alla bufera il suo You shall not pass! È un pensiero che, nella sua infantile semplicità, gli dà sollievo, forza.

Si guarda intorno; nessuno dei ragazzi dorme, ed un passo per volta hanno spostato i giacigli, dapprima sparsi in giro per il pavimento, raccogliendoli intorno a lui. Circondato da quei visi impauriti, nervosi, il professore si commuove; vorrebbe abbracciarli, tutti insieme, per consolarli, tranquillizzarli; vorrebbe cantare loro una ninna nanna, per farli scivolare in un sonno sereno.

E invece rimane lì, immobile, a contemplare l'oscurità della sala, i bagliori alle finestre, ad ascoltare il tamburellare della pioggia contro i vetri; ed è così che lentamente si accorge di come il suono sia cambiato, non è più secco, scrosciante, ma ha qualcosa di molle, viscido, come è viscido il colare della scura pioggia sui vetri. E alla luce dei lampi che seguono, non è più di azzurra, bensí di rosso che si tinge la stanza.

«Professore,» mormora Sacchinelli «sta piovendo sangue.»