Gan'ka/La Prima
La Prima/1
«Ehi bello, ti va un po' di compagnia?»
L'uomo si ferma, mi fissa con attenzione; so che sta guardando i segni che ho dipinti sul volto; è talmente vicino che posso quasi vedere le sue narici vibrare, come se mi stesse annusando. Inclina la testa di lato, rimane con quella sua espressione seria, concentrata, ma sta guardando oltre me, nel vicolo. Mi chiede qual è il mio, e so che sta parlando degli uomini che ci stanno sorvegliando. Non mi va di rispondere, spero che il mio cenno sia sufficiente.
L'uomo mi passa accanto, trova la persona che cerca, li sento parlare a bassa voce, distinguo appena le parole.
«È tua la j'thur?» ha riconosciuto i tratti «Quanto per tutta la notte?»
Il mio protettore tira sul prezzo, finge un mercato che non ho. «Lo sai quanto ci faccio in una notte con quella?» La risposta dell'uomo è monotòna. «Tre, tre e cinque. Se va bene.» solleva la mano, le dita aperte a ventaglio «Te ne do cinque.» Tira fuori i soldi senza aspettare risposta, li porge al mio protettore «Piena libertà, niente storie.»
Il verme finge di starci perdendo, di fare il buono per la “faccia simpatica” dell'uomo, prende i soldi, e mentre l'uomo si volta gli grida dietro «E trattamela bene, la voglio tornata in forma come te la sto lasciando!». Ma l'uomo non dà segno nemmeno di aver sentito. Mi raggiunge, mi dice un «seguimi» che sento appena, e io mi trovo quasi a corrergli dietro, dopo essermi scambiato uno sguardo sorpreso con le colleghe. È pazzo?
Cammina veloce, sembra quasi non si volti nemmeno a controllare se lo sto seguendo, ma se rimango indietro si ferma, aspetta che lo raggiunga. Quando finalmente ci fermiamo, comincio persino a sentirmi stanca. È un palazzo anonimo, insulso, direi quasi penoso, se potessi avere il diritto di usare questa parola per le abitazioni degli altri. Finto legno a perlinare le pareti dell'atrio, un ascensore che sembra avere un paio di secoli, una tromba di scale dal marmo consunto e scheggiato che gli si inerpica attorno.
Seguo l'uomo su per le scale, ed alla settima rampa non posso fare a meno di chiede «Ma non potevamo prendere l'ascensore?» Non mi risponde nemmeno. «Persa la lingua?» insisto, sperando che almeno reagisca con la risposta più infantile e vecchia del mondo, una linguaccia. Niente.
Arriviamo al piano giusto, fermandoci davanti ad una porta anonima, senza nemmeno un nome sul campanello, proprio quando avevo deciso di rinunciare. Mi fermo poggiando la schiena al muro, a riprendere fiato senza darne troppo l'impressione; lo spio di soppiatto mentre tira fuori le chiavi, cerca la toppa con gesti che riescono ad essere al contempo goffi e sicuri.
Tiene la porta aperta per farmi entrare, ma senza nessuna galanteria. La richiude con un colpo del piede mentre si leva il giubbotto, lo appende. Mi ferma giusto prima che io abbia il tempo di montare lo scalino che separa l'angusto spazio in cui ci troviamo dal resto del corridoio. «Le scarpe.»
Sul corridoio, lungo e poco illuminato, si affacciano sette porte; la prima sulla sinistra, piccola, chiusa; poco più avanti, sulla destra, una seconda, più grande, anch'essa chiusa; a metà del corridoio si affacciano due porte, l'una di fronte all'altra, e stavolta quella di destra è aperta, su un ambiente non illuminato; in fondo al corridoio, coprendo tutti e tre i lati, altre porte, aperte; da quella di destra, a due ante, filtra luce artificiale.
Mi tolgo le scarpe, avviandomi lentamente lungo il corridoio. L'uomo schiocca le ditta, facendomi sobbalzare; apre la prima porta sulla sinistra, rivelando la sala da bagno.
«Fatti una doccia,» dice «e levati quel trucco j'thur dalla faccia.»
«Non ti piace?» gli sorrido. Mi fissa come se stesse cercando una risposta, poi reitera: «Doccia. Come si deve. E levati quel trucco.»
«Uh, sono una persona pulita, che ti pare.» rispondo sdegnosa, passandogli davanti. Comincio a spogliarmi, per dargli un po' di spettacolo, ma quando mi volto lui è già andato via.
Il bagno, come il corridoio, danno un'aria di semplicità e pulizia. C'è un gradevole tepore. Persino le mattonelle sotto i miei piedi sono tiepide. È una sensazione meravigliosa. Il pianale della doccia è antiscivolo, ma non pizzica, non dà fastidio. Piccoli piacevoli lussi. Acqua calda, quasi scottante, a cancellare una giornata passata in strada, tra fischi, commenti, clienti, padroni. Ed ora finalmente solo quell'acqua, sul viso, sul corpo, tra i capelli.
C'è una spugna per me, bianca, intonsa, accanto a quella —evidentemente usata— dell'uomo. Mi strofino con ferocia, dappertutto, usando la parte ruvida della spugna, seppur nascosta sotto un'immensa montagna di schiuma, come se volessi togliermi di dosso uno sporco accumulato da secoli. Mi dispiace per la faccia: sono i segni a cui mi aggrappo per astrarmi dal lavoro, e cancellarli sotto ordine dell'uomo è come concedere che alla fine è sempre il lavoro a vincere.
Quando esco dal vano doccia trovo un accappatoio bianco, un asciugamano bianco, piegati sul lavabo. Mi immagino la scena di lui che entra silenzioso, le mani piene, le libera sul lavabo, forse si ferma a guardare la mia sagoma attraverso il vetro smerigliato che circonda la doccia, e poi se ne va.
Mi guardo allo specchio, inspiro con soddisfazione e fierezza: sono ancora piacente; cancello le ultime tracce dei disegni dal viso, me lo ritrovo scipito, insulso. Sospiro, provo a spruzzarmi un po' di deodorante, indosso l'accappatoio, avvolgo i capelli nell'asciugamani, chiudendolo a turbante. Torno in corridoio, e seguo gli unici rumori che si sentono in quella casa, un soffuso, a volte crepitante, brusío che proviene dalla porta centrale in fondo al corridoio.
La stanza, immersa nella semioscurità, ospita una grande scrivania sepolta sotto ogni sorta di apparecchiature elettroniche: un cerchio quasi completo, dal quale manca solo un spicchio per permettere il passaggio dall'esterno all'interno. Al centro, seduto su una poltroncina anatomica, l'uomo, il viso illuminato dalla luce prevalentemente bluastra proveniente dagli schermi che lo circondano. Solleva lo sguardo appena mi ritrovo sulla soglia della stanza, ma non so se arriva a vedere l'espressione sul mio volto.
«Sei un gan'ka?» non faccio in tempo a dirlo che già me ne pento. So che la mia voce ha tradito il mio stupore, ma non riesco a pensare ad altro che agli stereotipi che li circondano.
L'uomo si alza, fa il giro della scrivania fino a piazzarsi di fronte a me, si poggia con le spalle ad uno degli apparecchi che gravano sulla scrivania —mi sorprende che riesca a reggerlo— incrocia le braccia, passa una gamba sopra l'altra, mi fissa.
«Scusa.» chiedo infine, abbassando gli occhi.
Mi si avvicina. «Almeno mi risparmi la fatica di chiederti “sei una puttana?”» Mi sorpassa, ma continua a tenermi gli occhi addosso. «Vieni più alla luce.» mi invita. La porta sulla destra dà su una sala da pranzo, l'unica stanza illuminata. Mi prende il mento tra le mani; ha una presa ferma eppure delicata. Mi volta la testa da un lato, dall'altro, fa un breve cenno di assenso.
Mi sento confusa, spiazzata. Capisco il senso della sua osservazione, ma il resto della situazione mi continua a sfuggire. So quello che sarebbe dovuto essere il mio ruolo, quello che mi sarebbe stato chiesto normalmente per una notte di compagnia, ma non c'è nulla del genere nell'aria, nulla del genere che emani dall'uomo: mi studia, ma senza un vero interesse erotico; estetico, forse, ma nulla di più.
Mi conduce nuovamente fino in fondo al corridoio, ed apre la porta a sinistra, che si affaccia su una cucina. «Ci sono piatti da lavare.» dice, con nonchalance. Non so bene cosa mi prenda, mi trovo a rispondere con un sorriso: «Sai, esistono anche le cameriere. Io sono solo una puttana.»
Anche lui abbozza un mezzo sorriso, e mi illudo per un attimo che la situazione cominci a sciogliersi. Mi colpisce improvvisamente, un manrovescio subito seguito da uno schiaffo, guancia sinistra, guancia destra, abbastanza violenti da farmi voltare la testa. Le sue dita sono asciutte, nodose, il dolore mi manda le guance in fiamme, ma non ho nemmeno il tempo di stupirmi: le sue dita mi afferrano la gola, mi spingono contro il muro, mi bloccano il respiro, ed io mi sento prendere dal panico.
«Forse non ci siamo capiti, stella.» parla con calma, senza manifestare nessuna emozione, nemmeno un briciolo di rabbia. «Ho pagato per i tuoi servizi stanotte, e qualunque cosa io chieda tu la farai. Senza obiezioni. Senza discussioni.» Mi libera la gola, ed io scivolo a terra in ginocchio; mi piego in avanti, puntellandomi con le braccia, annaspo per riprendere fiato, e subito la sua presa torna, da dietro, solida; mi spinge la faccia contro il pavimento «E se ti chiedo di pulirmi il pavimento, cosa fai?» mi si inginocchia accanto, ma la presa non molla: sta solo osservando la mia reazione. «Cosa fai?» insiste, un tono più aspro ora, quasi stridulo. Sono presa dal panico, sento le lacrime che montano; chiudo gli occhi, ho una sola cosa da fare: tiro fuori la lingua.
Arrivo appena a sfiorare le mattonelle, e già mi ha tirata su, di peso. «Vedo che ci capiamo.» il suo tono è tornato normale, sebbene ancora brusco «Sei una donna intelligente.» mi sfila l'accappatoio «Ora da brava, indossa il grembiule e lava i piatti. Sono due cose, ti sbrigherai subito.»
Se ne va portandosi l'accappatoio, ed io mi sento improvvisamente sola. Ho ancora il cuore che mi batte follemente in petto, la vista annebbiata. Trovo il grembiule appeso accanto al lavabo, e devo forzarmi per prenderlo, passare la testa nel collare, avvolgere il doppio filo laterale attorno al corpo, annodare i capi sul davanti: gesti misurati, attenti, concentrata per riprendere il controllo di me stessa.
Questo aveva un senso, il grembiule senza nulla sotto: non era la prima volta che mi ritrovavo vestita così per un cliente, ma la tenuta era sempre stata un gioco, una finzione: questa volta invece è concreta, reale; spaventosamente reale.
Comincio ad insaponare con calma i piatti, le posate, i bicchieri. Dodici ore, un po' meno adesso, in balía di quest'uomo. Dodici ore di obbedienza, di servitú, nella speranza che non sia a rischio la mia incolumità. Potrei difendermi? Piatti, forchette, coltelli. Potrei armarmi.
Le mani di lui sui miei fianchi sono calde, ma mi fanno trasalire. Non mi volto nemmeno, continuo nel mio lavoro, e le mani cominciano a scivolare sulla mia pelle sotto il grembiule, e la sua voce torna, stavolta più bassa, più profonda.
«Non voglio essere violento. Detesto essere violento. Sei una donna bella, calda, intelligente. E saggia.» Ho esitato sul coltello, prima di lasciarlo scivolare nello scolaposate? «Sono sicuro che andremo d'accordo, noi due.» le sue mani raggiungono il mio seno «I disegni sul tuo viso non erano le banalità degli emuli, non erano superficiale moda. Erano il segno di una ricerca.» si concentra sui capezzoli, mi distrae, non riesco nemmeno a comprendere subito di cosa stia parlando. Mi sorprende: quanto sa del j'thur? «E il tuo odore» naso e labbra poggiate al mio collo, inspira. Fremo, torna il gioco che conosco «è un odore sano, caparbio, pulito.»
Grazie, ho appena fatto la doccia. Eppure è in quel momento che mi rendo conto di come tutto, shampoo, schiuma, deodorante, tutto in quella sala da bagno era essenziale, elementare, volatile; non erano i classici prodotti carichi di aromi e profumi, forti, coprenti, celanti, dissimulanti. Mi passo il dorso della mano, poi del polso, sul naso, come a grattar via un prurito: nessun odore; nemmeno il sapone per i piatti lascia traccia di sé. Ed improvvisamente prendo coscienza del mio odore, come se non l'avessi mai sentito prima; e del suo, ora che mi abbraccia da dietro. Poso l'ultimo piatto, passo le mani sul grembiule per asciugarle, e lui le cattura nelle proprie, tornate giù fin quasi al pube.
Rimaniamo immobili per qualche secondo; siamo tornati al gioco classico, quello che conosco: «Qual è ora il tuo desiderio, mio signore?» Sento le sue labbra che si scompongono; sorride, forse ghigna. Libera le mie mani, le sue scorrono attorno al grembiule, sciolgono il nodo che lo lega alla mia vita, risalgono fino al colletto e lo sfilano via, sopra il turbante in cui sono avvolti i miei capelli.
Mi volto, premendo il mio corpo nudo contro i suoi vestiti. Lo fisso negli occhi, socchiudendo i miei; poggio le braccia sulle sue spalle, affondo le dita nei molli riccioli dei suoi capelli; la gamba destra risale languida scivolando sul pantalone dell'uomo, arrivo a cingergli la vita: sono nel mio dominio, sono regina.
Indietreggia, passi sicuri e decisi, ed io rimango appesa, la gamba sinistra tesa indietro, l'altra che scivola giù fino a raggiungere terra. Movimenti sicuri del busto, mi fa girare intorno a sé, poi indietreggiare, in un morbido tango senza musica, fino in camera da letto, la porta sulla destra in mezzo al corridoio.
Sorrido, mormoro al suo orecchio: «A letto come nella danza? Mi sa che dovrei essere io a pagare per godere della tua compagnia …» Nell'oscurità posso solo indovinare il suo sorriso di risposta, ed improvvisamente, con mosse decise, l'uomo mi affera le braccia, le forza dietro la schiena, e sento il metallo delle manette che mi serrano i polsi.
Sono nuovamente sorpresa, sconvolta. Sento che si allontana un momento, e poco dopo la luce soffusa di un'abat-jour rischiara la penombra. Sono ammanettata ai piedi del letto, costretta all'impiedi. L'uomo mi si piazza davanti, e quel suo sguardo indagatore, corrucciato mi fa sentire nuda, impotente.