La mia casa

Tema

La casa in cui vivo non dorme mai. A qualunque ora del giorno e della notte c'è sempre qualcuna impegnata a fare qualcosa, per conto proprio o per tutte le altre, come pulire gli ambienti comuni, occuparsi della biancheria o preparare i pasti.

Forse per questo, quando mi capita di svegliarmi la notte posso quasi sentire un cuore pulsante, come se la casa stessa fosse viva. O forse la casa stessa è viva, a modo suo, e nel silenzio della notte si può sentire il suo respiro. Molte cose nella casa sono automatizzate, e anche questo fa pensare che la casa è viva. La casa sa dove siamo, sa cosa facciamo. Però non so se possiamo dire che una cosa, un oggetto, o un insieme di cose, come una casa, può considerarsi viva, come sono vive le persone, o gli animali, o le piante. Cosa significa essere vivi?

La casa è grande, perché deve ospitare comodamente tutte le persone che ci vivono. Ha anche un grande terreno attorno, con boschi, frutteti, un orto, un pozzo.

La casa è molto pulita, grazie al lavoro delle Custodi (non nel senso che ci lavorano, ma delle cose che fanno), e molto tranquilla. Si respira aria pulita, e si mangia cibo saporito come non ne avevo mai mangiato: anche questo credo sia merito delle Custodi, e anche del fatto che molte delle cose che mangiamo vengono dal terreno attorno alla casa. Magari non sono belle e grosse e colorate come le cose che si comprano al super, ma sono molto più buone e più profumate. (Tranne quando la frutta è abitata, perché a me fa schifo vedere i vermi che si muovono.)

La casa in cui vivo è grande, pulita, tranquilla, e si mangia bene, ma non è la mia casa. Però forse mi piace viverci, anche se non è la mia casa.

«Lei è?»

«Il mentore di Adele.»

La donna annuisce, rimane molto seria, il suo sguardo perplesso mi osserva da sopra la montatura degli occhiali. Mi vengono in mente citazioni da Tom Sawyer.

«Mi dispiace averLa …» comincia. «Non importa.» la interrompo. Vorrei che andasse al sodo.

«… dicevo, vorrei farLe leggere questo.» La donna continua, come se le due mezze frasi si potessero incollare in una di senso compiuto.

Mi porge il foglio con il tema svolto da Adele sulla ‘sua’ casa. Aspetta pazientemente che io lo legga. Ammetto di essere tentato dal ridere un paio di volte, forse più per il modo in cui mi guarda la professoressa che per il contenuto del tema.

Annuisco porgendole il foglio, e lei socchiude gli occhi, inquisitiva, per chiedermi: «ha notato qualcosa?»

Più d'una, direi. Posso rispondere più d'una? Indago. «Si riferisce a qualcosa in particolare?» che potrebbe significare che ho notato varie cose, o anche che non ho notato niente e che ho bisogno di un suo consiglio. Sospetto di aver notato cose diverse da quelle che ha notato lei.

Ho notato che Adele non scrive bene come mi aspetterei che scrivesse. C'è qualcosa ancora di immaturo, infantile nel suo modo di scrivere. Mi sorprende, perché mi sembra più immaturo del suo modo di parlare. O forse non mi ricordo bene come parla, visto che con me non parla poi così tanto.

Ho notato uno spunto per uno dei più complessi temi della filosofia, un tema cui sono ovviamente molto vicino. Un tema per cercare risposta al quale, dopo tutto, sono quello che sono. Mi piacerebbe fosse questo quello di cui vuole parlare la professoressa. Penso che la mia opinione di questa donna possa cambiare drasticamente, in positivo o in negativo, secondo la sua opinione sul fatto che Adele abbia sfiorato in una composizione così semplice un tema tanto complesso.

Ho notato una certa ambiguità nelle cose che scrive. Mi chiedo se quel foglio potrebbe essere usato come documento per indagare sul mondo delle mie Custodi. Questo pensiero non mi rende felice. Quanto della mia futura serenità dipende da questo colloquio con questa donna? La sensazione di dipendere dalla buona fede di sconosciuti per la mia serenità mi è piuttosto sgradevole, e direi fortunatamente aliena da troppo tempo.

Ho anche notato l'insistenza, alla fine, sul fatto che non sia la sua casa. Sono sicuro che ci si possa fare abbondante psicologia spicciola sopra, ma per me significa poco più che il fatto che per quanto bene si possa trovare Adele non considera la mia casa come casa sua. La cosa mi lascia alquanto indifferente, ma sospetto che sia proprio quello su cui vorrebbe premere la professoressa. O forse lo spero, ché preferirei questo alla storia delle Custodi.

La prendo alla larga, prima che lei abbia il tempo di rispondere alla mia domanda.

«Perché la prima cosa che ho notato è che non scrive bene come avrei immaginato che scrivesse, visto come parla. Adele, dico, ovviamente.»

La professoressa mi guarda di sbieco, non capisco se offesa dal commento finale, o se con l'intenzione di rimproverarmi per le aspettative sul modo di scrivere di Adele.

«La bambina scrive bene,» commenta infine «per una della sua età. Lei non ha idea delle cose che mi ritrovo a correggere, anche per temi più liberi e personali come questo.» si ferma un attimo, come a ponderare la gravità della situazione circa le capacità espositive dei suoi studenti. Poi riprendere, scacciando quel discorso con un gesto: «Era piuttosto del contenuto che volevo parlare.» mi guarda negli occhi, ne reggo lo sguardo con aria indifferente. A quale parte del contenuto si riferisce? Ci sono almeno tre cose di cui si potrebbe discutere, e dalla serietà senza entusiasmo della sua espressione posso immaginare che non è di quella su cui piacerebbe soffermarmi che vuole parlare.

«Avrà notato la conclusione,» si spiega infine la donna; annuisco rapidamente «avrà notato quindi quella insistenza sulla nota che non definirei allegra,» annuisco ancora «sul fatto che non sente la casa in cui vive come casa propria.»

Oh be', poteva andare peggio, poteva chiedere maggiori dettagli sulla storia delle Custodi. Per ulteriore fortuna, non ho bisogno di intervenire, perché è lei stessa a continuare.

«Sa, io sarò forse un'insegnante un po' all'antica, ma proprio per questo penso che il ruolo della scuola non sia solo didascalico, nozionistico; penso che la scuola abbia un ruolo educativo più generale, e che sia anche un luogo di confronto, un luogo dove i ragazzi possano trovare modo di esprimersi.»

Non ho nulla da commentare.

«Per questo non è strano, né inusuale, che i ragazzi manifestino anche qualche disagio, a volte interiore, spesso per i più grandicelli, a volte anche causati dalla situazione da cui provengono, o dall'ambiente in cui vivono.»

So benissimo dove vuoi andare a parare, ma voglio sentirtelo dire.

«Qual è allora il ruolo della scuola in casi come questi? Spero che Lei sia d'accordo sul fatto che non possiamo esimerci dal tenere presente la situazione, e se ci sta a cuore il benessere di questi benedetti ragazzi, un confronto con …» si ferma, immagino stesse per dire i genitori, e che si sia fermata per cercare una parola più adatta «… i tutori sia opportuno. È opportuno che questi siano a conoscenza del disagio dei ragazzi il cui destino è in fin dei conti nelle loro mani.»

Il silenzio che segue indica che l'arringa è finita, o che quanto meno non può proseguire senza un mio intervento. Mi schiarisco la voce. Ci sono parecchie cose da dire, una più pericolosa dell'altra. Rimpiango non essermi portata Nana, o la Prima, saprebbero certamente gestire meglio la questione. Mi dovrò sforzare per cercare di non essere antagonista. O per resistere alla tentazione di prendere a sberle la signora. O di darle della cretina.

Vorrei mi venisse semplice osservare che sono a conoscenza del fatto che la bambina non sente il posto dove vive come casa sua, che la cosa non mi sorprende —anzi, mi sembra alquanto naturale— e soprattutto che non penso che la cosa sia preoccupante, fintanto che Adele si trovi bene dove si trova; ma anche che in fin dei conti trovo sia meglio che Adele non senta quel luogo come casa sua, sicché abbia la mente più libera, più obiettiva, quando avrà la possibilità di scegliere se rimanere o meno.

Ma non riesco a liberarmi dell'impressione che un tale discorso non prenderebbe bene con la professoressa, e non vorrei dovermi trovare nelle condizioni di dover resistere alla tentazione di prenderla a pugni dopo una velata o esplicita considerazione sulla mia presunta —da lei— incoscienza, o sul fatto che non mi prendo cura di Adele.

Mi sento stranamente violento. Ogni volta che mi ritrovo ad avere a che fare con persone al di fuori della selezionata cerchia delle mie Custodi mi sento più violento della volta precedente, come se stessi migrando dal “non ne vale la pena” a qualcosa di attivamente negativo. Tipo “non meritate di vivere”. Poi mi ricordo che non ne valgono la pena, nemmeno di tanto odio.

Mi sono distratto. La professoressa mi guarda con attenzione, in paziente attesa. O forse impaziente, attende. Non è il momento dei giochi di parole. Mi chiedo quante e quali smorfie io abbia fatto mentre pensavo; so che mi capita, ma la professoressa non ne sembra colpita: forse è abituata con i ragazzi.

«Ha già avuto in altre occasioni» chiedo infine «dei ragazzi in mentoraggio?» ed appena concludo la domanda mi rendo conto della sua possibile ambiguità.

«Le dirò,» risponde lei, quasi istantaneamente «non sono mai stata coinvolta direttamente in contratti di questo tipo, ed effettivamente Adele è la prima ragazza che mi capita di cui io sia a conoscenza della situazione. Se anche altri miei studenti lo siano stati, non saprei dirlo, poiché la cosa non è comunque mai emersa.»

Che bel modo di dire “se altri mentori ci sono stati, è evidente che hanno fatto un lavoro migliore del suo”. Cioè del mio. Tutto sommato trovo quasi gradevole la sottigliezza e l'acume della persona che mi trovo davanti. Anche se diretto verso di me.

Ma la donna non ha finito; continua: «Vorrei farLe presente, peraltro, che sono comunque a conoscenza sia del valore formale di questo tipo di contratto, sia dell'uso, o dovrei dire l'abuso che troppo spesso se ne fa.» brutto pedofilo schiavista; non lo dice, ma sono sicuro che lo pensi. «Personalmente,» continua invece «trovo sorprendente che possa esserci la necessità di formalizzare così un affidamento, o dovrei piuttosto chiamarla adozione, quando la famiglia di origine è ancora in vita. Non che il disagio sociale non possa concretizzarsi in condizioni tali da rendere difficile se non impossibile per una famiglia prendersi adeguatamente cura dei bambini: questo non è sorprendete, purtroppo, ma triste, tragico. Sorprendete è piuttosto il fatto che l'affidamento debba assumere una connotazione così formale; dopo tutto, se qualcuno avesse a cura il benessere di questi bambini, ed avesse i mezzi per aiutarli, certamente potrebbe farlo anche senza ricorrere a queste … forme.»

Ben detto, molto ben detto.

«Si potrebbe pensare» si avvia così a concludere dopo una breve pausa apparentemente motivata più dalla necessità di studiare la mia reazione che da quella di riprendere fiato «che la necessità di rivolgersi a queste forme contrattuali abbia più spesso secondi fini anziché no.»

«Queste,» commento infine «mi sembra di capire siano riflessioni generali sul mentoraggio, piuttosto che su questa o quella situazione specifica.»

«Indubbiamente.» risponde, impassibile. Probabilmente è vero, anche se dubito che l'esternazione di queste riflessioni non sia legata ad una qualche situazione specifica, anzi specificamente a quella di Adele.

«Ed ovviamente,» decido di concludere per lei, visto che la signora sembra prediligere l'arte della simulazione, dell'allusione, dell'implicito «è difficile credere che qualcuno che abbia secondi fini possa davvero volersi prendere cura della persona che gli viene affidata.»

Non risponde, mi guarda intensamente. Non so bene perché, alla fine decido di dire le cose come stanno.

«Sa, condivido molto la sua opinione sul mentoraggio. Se fossi minimamente meno disilluso sulla natura umana, sulla società in cui ci ritroviamo a vivere, sarei scandalizzato dal fatto che si sia deciso infine per formalizzare quello che è null'altro che la compravendita dei bambini, piuttosto che eliminarne le cause, o la possibilità.»

Lo sguardo della donna si fa più attento, gli occhi le si socchiudono nella concentrazione; credo stia cercando di capire quanto quello che dico sia sincere, quanto sia captatio benevolentiæ.

«Da un lato è tragico che ci sia gente disposta a giocare la propria figlia a carte, in un disperato tutto per tutto; dall'altro è forse ancora più tragico che questo sia legalmente possibile, di fatto, con il mentoraggio; un atto formale che, diciamolo, è ben poco più che una forma molto più definiva di …» i miei occhi vagano in cerca dell'espressione giusta «… prostituzione minorile.»

I miei occhi incontrano tranquillamente quelli della professoressa, e per lunghi secondi rimaniamo a guardarci in silenzio, impassibili, come a dirci: stiamo parlando della stessa cosa, pensiamo davvero nello stesso modo; o almeno, vorrei che fosse questo il segnale: spero non venga letto come un semplice “guarda con quale faccia tosta ti prendo in giro”.

È lei, infine, a rompere la il silenzio, con una semplice constatazione: «E nonostante questo, lei si ritrova mentore di questa bambina.» respira a fondo «Come mai?»

Perché mi sono lasciato trascinare dagli eventi, potrei dire. Ma sarebbe tutto tranne che una risposta soddisfacente, ed aprirebbe le porte a chissà quali reazioni. Sono stanco, ho voglia di tornare a casa. Rispondo con la razionalizzazione che io stesso mi sono dato a posteriori. «Perché so come vanno queste cose. Perché so che se non avessi accettato suo padre avrebbe cercato qualcun altro a cui fare la stessa proposta. Ed allora era meglio che ad accettare fosse qualcuno che la pensasse come me, piuttosto che l'alternativa.» Nel silenzio che segue, lei mi fissa intensamente, come a valutare la sincerità delle mie parole. Infine, per la prima volta da quando sono lì, la vedo annuire. «Per la ragazza dev'essere stata un'esperienza molto traumatica.» commenta infine; poi solleva nuovamente lo sguardo verso di me «Anche se forse non quanto avrebbe potuto esserlo.» sospira, ed in un mormorìo che mi è difficile capire se sia inteso per me, o solo per sé stessa, aggiunge «Chissà se sa quanto è stata fortunata.» Vorrei essere orgoglioso di questo commento. Potrei esserlo, se fossi tipo da emozionarsi per cose come questa, se c'è da essere fieri di non aver abusato della bambina. «Credo che lo sappia,» rispondo invece «ma dubito che questo basti a farle accettare come ‘sua’ una casa che non lo è.» La professoressa sorride, si alza, la discussione è finita. Mi porge la mano. «Sono lieta di averLa conosciuta.» mi dice. Non si scusa del fatto che le sue parole, in vista della situazione, avrebbero potuto essere valutate come un insulto, accuse piuttosto gravi, ma la cosa non mi turba minimamente; sento anzi una certa affinità con il modo di fare di questa donna, quasi brusco, ma non malevolo. «Sono lieto di sapere che Adele ha un'insegnante come Lei.» rispondo, stringendole la mano. È anche vero. Sembra una persona intelligente, genuinamente preoccupata per il globale benessere dei suoi studenti, ma con la saggezza di non saltare a conclusioni. O almeno così sembrerebbe. Mi ritrovo a dover sperare che non sia tutto un discorso di facciata, in attesa di sporgere denuncia. Ed allo stesso tempo la cosa non mi preoccupa. C'è ben poco che mi si possa rimproverare sulla faccenda; ma ben più grave, se anche ci fosse, se anche io fossi stato una persona diversa, non sarebbe cambiato nulla: se le denunce per casi come queste avessero mai avuto l'esito che dovrebbero avere, il mentoraggio sarebbe già stato abolito.

Quando finalmente arrivo a casa sono già oltre il limite di uno dei cicli. Lascio la macchina di fretta, mi tolgo le scarpe in un gesto automatico, e salendo verso la camera incrocio la Prima, a cui con semplici gesti segnalo che è andato tutto bene, che sto andando a dormire. Sembra pronta a dirmi qualcosa, ma si limite ad annuire. Appena entro in camera capisco a cosa stava per riferirsi: la bambina è lì, ad aspettarmi.

«Sono venuta per scusarmi.» comincia. Non è il momento. La fermo con un gesto, finisco di spogliarmi, buttandomi sul letto. Stendo il braccio, facendo un gesto a mulinello con la mano per indicare ‘dopo’, e scivolo nel sonno, sperando che abbia il buon senso di capire.

Quando mi risveglio, la bambina è sempre lì. Ha assunto una posizione inginocchiata, seduta sui talloni. Mi chiedo se sia rimasta lì per tutto il tempo, se sia appena tornata. Propendo per la prima ipotesi. Nota che mi sono svegliato, ma non dice nulla; torna a chinare il capo, ed io immagino che stia aspettando che io le indichi che può finalmente dirmi quello che voleva dirmi. Sospiro.

«Dimmi.»

Non alza lo sguardo, ma comincia a parlare, e per un momento tutto, il suo atteggiamento, la sua postura, persino il tono di voce, mi fa pensare ad Hiromi. «Sono venuta a scusarmi,» dice «per quello che ho scritto sul tema.» «Mi è molto piaciuto.» È abbastanza vero, ma il mio intervento la lascia interdetta. Ha un attimo di agitazione, come se avesse perso il filo. «Sono stata avventata nello scrivere. È solo dopo aver consegnato che mi sono accorta che quello che avevo scritto era … pericoloso. Che poteva essere frainteso.»

«Non penso sia stato frainteso.»

«Ma ti ha … messo in difficoltà, ti ha fatto convocare.»

«Non mi ha messo in difficoltà.» mi trovo a dover esercitare pazienza; da un lato, la sua preoccupazione mi dà quasi un senso di soddisfazione, sono lieto del fatto che si renda conto che le logiche, gli impliciti di questo posto siano diverse da quelle, da quelli di fuori; dall'altro, trovo che la reazione sia esagerata. Sospiro. «Abbiamo scambiato due chiacchiere con la tua professoressa, ci siamo conosciuti. È una donna intelligente, e genuinamente preoccupata per il tuo benessere. Voleva solo essere sicura che la frase con cui hai chiuso il tema non fosse indice di qualcosa di grave.»

Annuisce brevemente.

«È indice di qualcosa di grave?»

Scuole il capo con la stessa solerzia.

«Qual è il problema allora?»

Il suo nervosismo si manifesta nel soliti piccoli gesti, le torture alle dita di una mano con l'altra. Quando finalmente parla, mi stupisce:

«Avevo paura che … che decidessero di …» la sua voce si spezza un attimo, poi torna in un rapidissimo torrente «di portarmi via di qua.»

Sbuffo. Mi inginocchio di fronte a lei, e lei si contrae, come a cercare di farsi più piccola.

«Ho una notizia da darti.» mi chiedo se cominciare così sia la cosa migliore. «Nessuno, che tu voglia o non voglia, potrà tirarti fuori di qui, a meno che non sia io a deciderlo, finché tu non raggiunga la maggiore età. Dopo di allora, sarai tu a decidere se rimanere o andartene, e nessun altro per te.»

Stavo per fare un altro tipo di discorso. Stavo per dirle che se anche avessi abusato di lei e lei l'avesse raccontato, se anche i sospetti della professoressa fossero stati fondati, anche in quel caso non sarebbe potuta andar via, nemmeno se fossero venuti a prenderla. Ma tutto sommato sono contento del fatto che mi sia uscito un commento più neutro.

Annuisce nuovamente, quasi con nervosismo. «Grazie» mormora, e finalmente si alza, pur senza sollevare lo sguardo, e scappa via.

È una prigione non per me, per tutte voi; una prigione da cui non potete evadere perché vi priva in primis della voglia di farlo. La vostra è il peggior tipo di prigionia, perché è una prigionia volontaria.

{ forse la discute direttamente con il gan'ka; la sua risposta sarebbe qualcosa sul tipo: benvenuta alla vita; la vita è una prigione; l'intero pianeta su cui viviamo non è altro che una prigione: immensa, di cui non vediamo le mura, ma pur sempre una prigione da cui non c'è evasione se non, forse, con la morte (cfr. Druuna, anche); la nostra scelta è come vivere la nostra vita da carcerati }

La bambina rimane ferma sulla porta, come ipnotizzata da quel corpo nudo, dalle forme femminili appena accennate, che passa da una figura alla successiva senza soluzione di continuità, con movimenti morbidi, calmi, fluidi, in una sorta di lenta danza in cui ogni gesto sembra nascondere una grande energia, dominata ma non sopita.

La donna non dà segno di accorgersi della presenza della bambina nemmeno quando le due si ritrovano l'una di fronte all'altra, nemmeno quando i loro sguardi si incrociano. È solo quando la sua strana danza giunge all'attesa conclusione che ella si ferma, torna a voltarsi verso la bambina e la saluta con un sorriso, un piccolo inchino, gambe unite, busto in avanti, la mano sinistra a coprire il pungo della destra.

Rimangono in silenzio, la donna senza abbandonare il sorriso, la bambina, combattuta tra la curiosità ed il timore, con uno sguardo che manifesta la sua indecisione, la sua paura.

«Cos'era?» riesce infine a chiedere la bambina, in un mormorio. «太極拳» risponde la donna, ed allo sguardo perplesso della sua interlocutrice, continua: «voi dite ‘arte marziare’, sì? Questa è una.»

Alla bambina viene ora da ridere, per la buffa voce della donna, per il suo buffo accento. Ed ora è ancora più curiosa, e si aggrappa forte allo stipite mentre chiede: «sei cinese?»

«No, vengo da Giappone.»

«Perché sei qui?»

«Sono guardia del corpo, sì?, di 御主人様 … domine.» risponde la donna

«Sei venuta fino a qui per fare la guardia del corpo?»

«Io ero guardia del corpo anche in Giappone.» la donna torna al centro della propria stanza «Ho avuto … problemi, sì?, per mio padrone di prima.» continua, mentre riprende gli esercizi, stavolta più semplici, ginnastica quasi familiare «Quindi domine ha fatto venire me qui.»

La bambina entra infine nella stanza, si accoscia di fronte alla donna. «Sei scappata

La donna sorride, siede con le gambe tese e leggermente divaricate, poggia le braccia e spinge fino a sollevarsi dal pavimento. «In Giappone era facile trovare me, difficile nascondere. Domine ha fatto … trucco, sì?, io venuta qui, ma nessuno sa ciò.»

La bambina esita, prima di proporre una nuova domanda. «Tu non sei … prigioniera qui? Rimani per … ricambiare? O perché non hai dove altro andare?»

La donna non risponde subito. Solleva lentamente il corpo fino a stenderlo completamente verticale, rimanendo in bilico sulle mani.

«Io resto perché è posto migliore per me.» Piega le braccia finché anche i gomiti toccano terra. «Ho lavoro, vivo bene, _domine_ è uomo … buono, sì?» Con un movimento improvviso che spaventa la bambina, la donna si mette seduta a gambe incrociate. «Perché dici prigioniera? Nessuno è prigioniera. Regola è: se stai, accetti regole. Se voi, vai. Se vai, non torni. Non ti hanno detto?» La bambina scoppia a piangere «Io … io non posso. Mi… mio padre mi ha … ha perso tutto con …» il suo braccio indica “quello” con un paio di gesti convulsi «ed ora è … è come se sono diventata sua … di sua proprietà.» Il silenzio cade tra loro, interrotto solo dai singhiozzi della bambina. Poi la donna dice «Tu hai visto Prima Custode, sì? _Domine_ ha comprato rei da ヒモ, uomo di prostitute, sì?, come sua schiava. Suo modo di fare è strano così, sì?» La bambina ora non singhiozza, ma non torna serena. «È così … con tutte? È per questo che le cerca? Come … come le prostitute? Per questo sono tutte donne?» «Noi siamo qui per cose diverse. Arcune siamo qui per corpo» la donna carezza il proprio «sì, anche per sesso. Io sono qui per corpo pure, sì?, ma prima di tutto per difendere _domine_.» sorride «Altre qui per voce,» si carezza la gola «tu hai sentito Eva, sì? Altre per testa,» si tocca la fronte «tu hai visto Nana, sì? Rei sa tante cose, ha buone idee.»

Di ciascuna delle Custodi conosco debolezze e forza, la profondità del loro cuore e la cattiveria del loro odio. Ciascuna di loro è una persona a sé stante, ed è anche questo che fa di loro, di ciascuna di loro, le Custodi; non le mie Custodi, ma le Custodi della loro storia, del loro futuro.