Adele raccoglie infine il coraggio, inspira ed espira a fondo, lascia le posate, e —senza riuscire a guardare piú lontano del centro tavola— annuncia: «Ci sarà una manifestazione.»

Pausa.

«Penso di partecipare.»

Le donne a tavola si guardano l'un l'altra, come a cercare di mettersi tacitamente d'accordo sulla persona a cui scaricare la patata bollente. Poi si voltano tutte verso il gan'ka, che persiste nel finire il cibo che ha davanti senza dar segna di essersi accorto di nulla, o di aver sentito.

Adele si sporge in avanti, stavolta rivolta direttamente a lui. «Non hai niente da dire?»

Il gan'ka finisce di masticare, adagia le posate sul tavolo, si pulisce le labbra con il tovaglio, adagia il tovagliolo, raccolto, sulle posate. Deglutisce.

«Oh, avrei tante cose da dire. Ma vale la pena che le dica? Se sono io a dirle, non avrai da contestare per principio? Forse è meglio non dirle e lasciare che sia tu a scoprirle da sola.»

La ragazza lo guarda un po' con sospetto, un po' con dispetto. Si sente presa in giro, nonostante la serietà dell'espressione dell'uomo. L'uomo regge il suo sguardo, risponde con il proprio fisso su di lei, mettendola ancora piú a disagio. Riscuotendosi, lei gli risponde quasi con sfida:

«Sentiamo.»

Il gan'ka non distoglie lo sguardo, e nel silenzio Adele comincia a sentire un po' d'imbarazzo.

«Non qui, non ora.» conclude infine il gan'ka. È la sua ultima parola sull'argomento, riprende a mangiare.

Interdetta, la ragazza riprende lentamente in mano le posate, mentre la vita intorno alla tavola ha qualche problema a riprendere il corso che lei ha interrotto con il proprio annuncio.

Valentina, seduta di fronte, le fa l'occhiolino, arriccia le labbra in un bacio, come a tranquillizzarla, a dirle di non curarsi di quello che il gan'ka potrebbe volerle dire; ma il gesto non fa altro che attizzare la sorda rabbia che Adele sente crescere dentro in risposta all'arroganza, alla presunzione di onniscienza che ha letto nelle brevi parole del gan'ka. E cosa mai avrebbe da dirle che non possa essere discusso lí, davanti alle altre?

Il pranzo è finito, le Custodi riassettano la cucina, il gan'ka le si avvicina.

«Vieni con me»

La ragazza posa i piatti che ha in mano, lo segue, senza nascondere il proprio malcontento.

Quando finalmente sono in corridoio, il gan'ka le chiede:

«Chi organizza questa manifestazione?»

Adele ha appena cominciato a rispondere, organizzazione studentesca, a livello nazionale, che si accorge di cosa significhi veramente la domanda. Si interrompe, tira su col naso. L'uomo non annuisce, non sospira, non esprime in alcun modo di aver recepito l'implicazione di quella risposta interrotta. La ragazza si chiede se serva esplicitarla, ma il gan'ka riprende a parlare prima che lei abbia tempo di prendere una decisione.

«Di quelli che parteciperanno alla manifestazione, una buona parte sarà perfettamente integrata, tra dieci, vent'anni, nel sistema contro cui oggi protesta. Dei rimanenti, una buona parte è lí semplicemente perché si protesta: non hanno importanza i motivi, non hanno importanza gli obiettivi: protesta per protestare, uno sfogo senza pensare a cosa c'è dietro, o cosa c'è davanti. Non tutti sono cosí, ovviamente. Non mancheranno quelli che credono fermamente nelle idee propagandate come motivazioni della manifestazione,» ed è solo a questo punto che Adele si accorge che il gan'ka non ha chiesto nulla su quali questi motivi siano «ma non tutti questi “veri sostenitori” concordano, diciamo cosí, sui dettagli; e piú si andrà avanti, piú questi screzi emergeranno: ed i campioni del movimento finiranno con il fare a pungi gli uni con gli altri.»

Adele comincia a sospettare che non sia piú l'imminente manifestazione a cui lei parteciperà, ciò di cui si sta parlando il gan'ka. L'uomo continua:

«Nelle manifestazioni, come nei movimenti, vi sono quelli che guidano, e quelli che vengono guidati. Non esistono alternative, poiché è questa la fonte della loro forza: la loro forza sta nel numero, e tale numero c'è solo nel pensiero unico, senza dissidenti, senza voci fuori dal coro. Se le discussioni sono ammesse, lo sono solo in momenti privati, ed anche lí a prevalere non sarà il pensiero ragionevole, ma quello convincente, o peggio, quello dettato da chi guida.»

Una pausa, poi riprende:

«Una manifesazione del genere non nasce cosí, da un'alleanza spontanea di movimenti studenteschi sparsi per il territorio, indipendenti; una manifestazione del genere viene organizzata con cura, per tempo, da gente che sa quello che vuole, e sa come ottenerlo, e della quale né tu, né probabilmente il comitato locale, avete idea di chi siano. Eppure vi diranno cosa fare, cosa dire, esattamente come vi hanno detto cosa pensare.»

È qui che Adele sbotta.

«È questo che ti spaventa? Che io mi faccia plagiare a pensare cose che tu magari non condividi?»

Il gan'ka apre la porta della propria camera, incurante del tono alterato della ragazza, ma risponde:

«Nemmeno per idea. Non penso che chicchessia possa avere minimamente vita facile nel plagiarti, e sinceramente del fatto che tu possa essere in disaccordo con me difficilmente potrebbe importarmi di meno. Hai la tua testa, sei in grado di prendere le tue decisioni, mi basta che tu abbia l'onestà di mantenerti responsabile delle conseguenze.»

«E allora qual è il tuo problema.»

L'uomo comincia a rovistare in uno degli armadi. «Sinceramente, la tua incolumità. Fisica.»

Adele sbuffa. «Pfff, è solo una manifestazione. Che è il peggio che può accadere?»

«Che ci scappi il morto.»

«Mica stiamo andando a fare la rivoluzione.»

«Non ancora.»

«No, non ancora.» e Adele si scopre a sorridere. Non sa se per il gan'ka quelle parole siano solo una battuta, o un sincero “ci arriverete”, augurale o meno; ma il semplice fatto che l'uomo prenda in considerazione l'idea che le cose possano diventare piú serie, e che per lei possano esserlo, le dà sollievo.

Il gan'ka sembra aver finalmente trovato quello che cercava. Tira fuori indumenti vari, li solleva, li stiracchia un po', li adagia sul letto. «Prova un po' su questa roba.» e torna a rovistare nell'armadio.

Scettica, Adele prende un po' di cose a caso, un paio di pantaloni, una maglietta, una felpina con cappuccio, comincia ad indossarle. Le piace il tessuto, è morbido, comodo, le veste bene. Ha appena finito di tirar su la cerniera della felpa quando un colpo sordo le raggiunge il braccio. Si volta stupita, a fronteggiare il gan'ka ed il manganello che questi tiene in mano.

«Ma sei pazzo?!»

Con noncuranza, e senza degnarla di una risposta, il gan'ka butta il manganello nell'armadio, poi il suo sguardo cade sul letto.

«Non ti scordare il body.»

«Avaja.»

Il gan'ka la guarda fisso. Adele sbuffa. Si toglie la felpa, la maglietta; con i pantaloni abbassati a mezza gamba prende il body, lo guarda in tutte le direzioni, ed infine indossa. Non ha nulla di sexy: le copre completamente le anche, le spalle, persino la base del collo.

«Ok, questa cosa è ridicola.» conclude, mentre finisce di rivestirsi. Sarà ridicola, pensa, ma è comoda; le fascia il corpo senza stringere, senza ostacolarle i movimenti. Prova qualche torsione del busto, a toccarsi le punte dei piedi a gambe tese, un calcio alto.

«Le calze.» indica il gan'ka, con la sua solita espressione neutra.

«Noioso.» risponde la ragazza. Si siede sul letto, prende le calze, le indossa. L'uomo le si inginocchia davanti, afferra il risvolto dei pantaloni, lo tira, lo chiude con il bordo superiore delle calze. Adele guarda giú, perplessa; no, è lo stesso meccanismo della tasca inferiore del body.

È un'armatura.

«Immagino ci sia anche un paio di guanti.» «Ovviamente.»

«Visiera niente?» scherza lei. Per tutta risposta, il gan'ka le solleva il cappuccio della felpa, e nuovamente tira giú il risvolto interno, fino a coprirle completamente il viso.

«No, dài.» la ragazza è esterrefatta. «Questo è davvero ridicolo.» La ‘visiera’ è come una sottilissima garza, una zanzariera, che le offusca appena la vista. Adele vi passa le mani sopra. «E immagino sia indistruttibile.»

«Nulla è indistruttibile.»

«Cosa servirebbe per farmi del male? Un proiettile anticarro?»

«Forse.»

Esasperante. La laconicità di quelle risposte è esasperante, ma la ragazza ha troppe difficoltà a nascondere il proprio entusiasmo per quella ridicola armatura dissimulata per potersi fare esasperare. La sua fantasia sta già correndo per mille avventure, e quella laconicità serve solo a farla tornare con i piedi per terra.

«Tutto questo è assolutamente inutile.» ricorda al gan'ka, che per tutta risposta le porge i guanti, rispondendole:

«Come la manifestazione a cui andrai a partecipare.»

Adele si solleva la visiera, che torna a sparire nel cappuccio. «Con un atteggiamento come il tuo, non si potrà cambiare mai nulla a questo modo.»

«Che purtroppo non implica che con il vostro cambierà mai alcunché.»

«Sei insopportabile quando fai cosí. Ok, lasci che io vada alla manifestazione, a patto che sia adeguatamente equipaggiata. Cos'altro mi devo portare? Una spada? Una pistola?»

«Un coltello a serramanico non sarebbe male, ma no, se la manifestazione dev'essere pacifica, meglio non dare scuse. No, lo stretto indispensabile, acqua potabile, qualcosa da sgranocchiare, disinfettante, cerotti.»

«Seriamente.»

Il gan'ka non risponde. Evidentemente è serio.

«E dove dovrei mettere tutta questa roba?»

«Nelle tasche, e nella tartaruga.»

«La che?»

Il gan'ka le mostra quello che sembra uno zainetto senza spallacci. Lei lo prende, lo guarda da tutti i lati.

«E che ci faccio con questo?»

Per tutta risposta, il gan'ka glielo toglie di mano, glielo poggia sulla schiena, lo lascia. Lo zainetto aderisce.

«E per toglierlo?»

«Come faresti con uno zaino normale.»

Adele prova i gesti usuali, e si trova la tartaruga in mano.

«Fico. Ma seriamente, perché tutto questo?»

«Megghiu diri ‘cchi sacciu’ ca ‘cchi sapía’»

Ora Adele comincia ad essere esasperata. Si passa una mano nei capelli.

«Non è solo per la manifestazione, vero? A prescindere da qualunque cosa tu pensi possa succedere, tutto questo non è solo per la manifestazione.»

«No, non lo è. Penso che ti potrebbe piacere andare al parco.»

Adele è nuovamente interdetta. «Davvero?» Sente l'entusiasmo crescerle dentro.

«Perché no? Penso sia il caso di prendere maggiore confidenza con i tuoi compagni di ventura.»

«Tu non credi minimamente nel movimento.»

«Per nulla.»

«Cos'è, pensi che sia una ragazzata e mi appoggi perché queste ragazzate sono comunque educative?»

«Non penso che sia una ragazzata. Ma penso che non sia quello che tu pensi che sia.»

La macchina si allontana, Adele rimane ferma a guardare il parco, deserto cosí vicino alla strada; piú in là, lontano dalla fredda ma rassicurante luce dei lampioni, oscurità e rumori di vita.

La ragazza sospira, incamminandosi. Le ultime parole del gan'ka sono state «stai lontana dal centro». Nessun augurio, nessuna «buona fortuna», nemmeno un semplice «ciao», solo «stai lontana dal centro».

Adele si addentra nel parco. C'è gente sparsa sotto gli alberi, ai confini dell'oscurità; fumano, la guardano passare, forse qualcuno le fa un gesto di saluto, lei risponde appena, con uno di quei gesti che potrebbero essere un saluto, o semplicemente un movimento casuale del braccio.

L'oscurità non è tale; è un accampamento, sparso, disordinato, tende qui e là, sacchi a pelo altrove, piccoli falò. C'è qualche faccia conosciuta, pur senza confidenza; Adele si avvicina ad uno dei fuochi. «Ehi.» «Ehi.»

Le fanno posto, lei si siede, inconsciamente pronta ad alzarsi, come le ha insegnato Hiromi. Sono tutti ragazzi piú grandi, di almeno un paio di anni. La cosa non la mette a disagio, ma non la fa sentire serena. Ha la sensazione di essere l'unica che per essere lí ha dovuto chiedere il permesso; per un momento torna a sentirsi una bambina tra gli adulti.

Qualcuno fa una battuta, chi gli siede accanto gli dà una gomitata, gli dà dello scemo. «Non gli dare retta, è un cretino, hai fatto bene a venire. E se hai l'appoggio dei tuoi, tanto meglio. Ti hanno accompagnato loro?» Adele annuisce «Genitori progressisti. Viva!» il giovane alza la bottiglia che ha in mano come in un brindisi, beve. «Birra?» chiede, offrendo.

«No, grazie.»

«Dài, rilassati, pari sul punto di scappare via.» Adele prova ad intervenire con un «sono comoda cosí» che viene coperta dall'arringa del giovane «Tranquilla, qui non hai nulla da temere, nessuno andrà a dire ai tuoi se hai bevuto.» le strizza l'occhio «Siamo tutti amici qui. E poi caspita, ce li hai sedici anni, no?»

«Ne faccio diciotto a marzo.»

Il giovane torna ad alzare la bottiglia, stavolta stendendo il braccio completamente, e annuncia: «Ragazzi, abbiamo una mascotte.»

«Cara mia,» continua dopo aver bevuto «tu ci porterai fortuna! È importante che il movimento coinvolga anche voi giovani.»

«Minchia, ha parlato l'uomo vissuto.» chiosa qualcuno; la discussione degenera sull'importanza del movimento, sull'importanza dei giovani nel movimento, sull'importanza della manifestazione, sull'importanza della partecipazione di tutti.

Adele perde presto interesse, la discussione le sembra sterile, un litigio sul nulla; si guarda intorno: ci saranno una dozzina di persone sedute lí, e di queste solo quattro sono femmine —lei inclusa. La cosa le dà un senso di orgoglio personale, ma allo stesso tempo la lascia un po' delusa.

Il suo sguardo si è soffermato troppo a lungo sugli abbondanti piercing di una delle altre. Questa improvvisamente si alza, si avvicina, fa scorrere gli altri per prendere posto accanto a lei.

«Ehi.» «Ehi.» «Non gli dar conto,» Ms Piercing fa un cenno verso i giovani dall'altra parte «sono dei buffoni. Ma di buon cuore, ed affidabili quando conta.» «Non c'è problema.»

Passano uno spinello ad Adele, e senza nemmeno guardarlo lei lo passa accanto. Ms Piercing lo prende, fa un tiro, torna a passarlo.

«Non bevi, non fumi; le dici le parolacce?» «Quando la situazione chiama.» Ms Piercing sorride. «Vanessa.» «Adele.» «Sei nervosa?» «Perché dovrei?» «È la prima volta?» «Sí.» «Hai dove dormire?» «Ho un sacco a pelo.» «Se vuoi, c'è posto nella mia tenda.» «Grazie, perché no?»

Il giovane seduto alla sinistra di Adele interviene: «Perché è una lupa mannara.» (risate, ma Vanessa lo fulmina con uno sguardo)

«A quest'ora della notte dovrebbe già essersi trasformata.» osserva Adele.

«Magari è cosí quando è trasformata, e ora è in caccia.» l'uomo solleva le braccia, curva le mani come a simulare artigli.

Adele sta voltando le spalle a Vanessa, non ne vede la reazione «Oh, sono tranquilla,» risponde «faccio Van Helsing di cognome.»

Risate di nuovo, Vanessa stavolta ride pure, forse in maniera un po' forzata. «Vieni,» si alza «ti faccio vedere dove stiamo.»

«Ma cos'era questa storia della lupa mannara?»

«Ma niente, lascia perdere, buffoni, come ti dicevo.»

Però un po' te la sei presa, pensa Adele, seguendo Vanessa tra piccoli falò e saccopelisti già andati a dormire. L'accompagnatrice ha già cambiato discorso, le spiega che il parco normalmente sarebbe illuminato fino al sorgere del sole, ma che l'amministrazione ha deciso di staccare la luce come risposta all'occupazione.

«Nella speranza che al buio succeda qualche incidente, sai. Basterebbe poco, un principio d'incendio da uno dei falò, qualcuno che si fa male … Per questo è importante avere un buon servizio d'ordine, essere attrezzati per coprire ogni evenienza.»

«Chi organizza tutto questo?» non riesce ad evitare di chiedere Adele, e subito si rivolta contro sé stessa, rimproverandosi di aver lasciato che il gan'ka le seminasse il dubbio. Ma Vanessa risponde senza turbamento:

«Noi, tutti. Sai, non è il primo movimento studentesco della storia. Sappiamo imparare dalle esperienze del passato. Possiamo dimostrare al mondo che noi giovani siamo perfettamente in grado di organizzarci da soli.»

I pensieri di Adele partono per la tangente. Si immagina un movimento di aggregazione spontanea giovanile che supera la massa critica, acquista potere politico, raggiunge la maggioranza e finalmente realizza gli obiettivi che prima doveva limitarsi a chiedere al potere di turno con comizi, manifestazioni, sit-in.

C'è forse il problema della rappresentanza parlamentare, la scelta, le età. Ci sono dei limiti di età non solo per il voto, ma anche per le candidature. Saranno messi apposta per impedire ai giovani di prendere il potere? E perché mai dovrebbe essere cosí? Cosa succede ai giovani quando crescono? Smettono di inseguire le proprie idee, superati i quarant'anni? È cosí volatile la loro convinzione?

(I giovani, loro, come se lei ne fosse estranea.)

I suoi pensieri vengono interrotti dall'arrivo alla tenda, assolutamente anonima, forse un po' piccola per due persone. Adele non riesce a nascondere la propria perplessità:

«Sei sicura che non ti dia fastidio? Posso tranquillamente dormire all'aperto. Non minaccia nemmeno brutto tempo.»

«Ah, tranquilla, è piú comoda e spaziosa di quanto non sembri. E poi dobbiamo dormici, mica giocarci a pallone.» le strizza l'occhiolino. «E a proposito di dormire, per me è ora.» Si china sulla stuoia stesa davanti alla tenda, fa scorrere la cerniera fino ad aprire l'ingresso. «Tu che fai?»

Adele si guarda intorno «In realtà, vorrei prima andare in bagno. Dove …»

«Oh, eh.» Vanessa torna a chiudere la cerniera, si rialza «Se ne hai il coraggio, puoi provare i bagni pubblici, che sono di là.» indica «Ma sinceramente mi sa che è meglio se ti cerchi un cespuglio.»

«Penso che proverò i bagni pubblici.»

«Ti accompagno.»

La strada è breve, ma da percorrere con la solita cautela, per non inciampare, per non calpestare nessuno. I bagni sono, a quanto pare, l'unica area del parco fornita ancora di energia elettrica, ma ad Adele basta affacciarsi dall'ingresso di quello femminile per capire perché Vanessa parlasse di coraggio.

«Oddio che schifo. Mi sa che avevi ragione.»

«Te l'avevo detto.» Vanessa sorride, senza cattiveria.

Mentre si allontanano in cerca di un angolo del parco meno frequentato, piú protetto, Adele non può fare a meno di chiedersi se il famoso servizio d'ordine, la famosa organizzazione, non dovrebbe prevedere anche la questione igiene, ma si trattiene dal lamentarsi con la giovane che l'accompagna.

«Ti serve qualcosa?» le chiede Vanessa, appostandosi a fare il palo mentre Adele si addentra tra i cespugli.

«Grazie, ho tutto quello che mi serve.»

Mentre tornano alla tenda, Vanessa osserva: «E quindi sei alla tua prima occupazione, ma ti sei attrezzata come si deve.»

«Ho … dato retta alla voce dell'esperienza.»

«Oho, i tuoi non solo ti hanno lasciato venire, ma hanno fatto le loro marachelle ai tempi, eh?» Vanessa le strizza l'occhiolino «Niente di strano che ti appoggino ora.»

«Qualcosa del genere.»

È tentata di chiarire la questione, Adele: non tanto sul supporto dei ‘suoi’, quanto proprio sulla loro natura. Sentire quell'espressione, sapere cosa si figurano coloro che la pronunciano, le dà una fitta, breve, non particolarmente intensa, ma la sua ripetizione le fa stringere il cuore. Non mi passerà mai, pensa. Ho perso un'occasione per menzionarlo, pensa. Forse dovrei dirlo e basta, pensa.

Sono tornati alla tenda, Vanessa ripete i gesti di prima, finalmente entra, rimane seduta con le gambe fuori il tempo di togliersi le scarpe, infine si ritira. Adele la segue, ed è stupita dalla capienza della tenda, ed ancor piú dalla sofficità del fondo.

Mentre si toglie la tartaruga e srotola il sacco a pelo stendendolo accanto a quello di Vanessa, l'ospite le chiede:

«È la prima volta che dormi in tenda?»

«In una tenda cosí, sí.»

«Hai visto che è spaziosa? Da fuori non si nota.»

«Sono stupita. Ed è … è morbida.»

«È questo modello. Comfort. Soldi spesi bene. D'altra parte non sta scritto da nessuna parte che per protestare uno debba soffrire, no?»

Adele le indovina un sorriso nell'oscurità. Si prepara per la notte, spogliandosi con cautela, piegando i vestiti perché occupino meno spazio possibile, posandoli ordinati vicino a dove poggerà la testa. Rimane con il solo body, si infila nel sacco a pelo.

È Vanessa ora a prepararsi, e Adele non può fare a meno di guardarla.

«Io dormo nuda, spero non ti dia fastidio.» le dice Vanessa, togliendosi il reggiseno. Adele scuote il capo, ma non trova da rispondere. Nella scarsa luce che trapela dal telo della tenda, non può fare a meno di notare i piercing ai capezzoli della sua ospite.

«Hai piercing dappertutto.» e si pente subito di averlo detto, ma Vanessa ride: «Dappertutto.» conferma. Finisce di spogliarsi, continua: «Vuoi vedere?» e senza lasciarle il tempo di accettare o rifiutare, prende una lampadina tascabile, la accende, e la punta al proprio sesso.

Adele nota l'attenta rasatura, il piercing anulare, ma ancor piú, e non capisce se è un effetto dell'illuminazione o la dotazione naturale della sua ospite, le dimensioni del clitoride.

Si distrae dal pensiero chiedendo: «Ma non ti dà fastidio?»

«Tutt'altro.» Vanessa spegne la luce, si infila nel sacco a pelo. Finiscono a parlare dei piercing, e per ciascuno di quelli che sfoggia la giovane presenta i motivi: quando estetici, quando provocatori, quando votivi, quando memento, quando semplicemente erotici; per ciascuno accenna una storia, e Adele ascolta, affascinata dalla ricchezza della vita della sua ospite, invidiosa quasi: la paragona alla propria, dapprima rinchiusa nei libri per sfuggire alla realtà che la circondava, poi circondata da una realtà che la tiene fuori dal mondo. Una vita non vissuta, quando sembra che Vanessa ne abbia già vissute tre, e non certo solo per la differenza d'età.

«Che c'è?» le chiede improvvisamente l'ospite, notando il suo sguardo intento.

«Niente.» Adele si volta, si sdraia sulla schiena, rivolgendo lo sguardo al soffitto.

«Su, non essere timida.» insiste Vanessa.

Adele si prende qualche respiro prima di rispondere:

«Invidio la tua vita. Già solo sentendo dei tuoi piercing, ognuno con la sua storia, una storia diversa. Il tuo corpo è un romanzo in attesa di essere scritto. Forse piú d'uno.»

Vanessa la guarda stupita, poi si mette a ridere.

«Sei una persona dolcissima, ma la mia vita non è mai stata chissà quale avventura. La verità è molto piú noiosa e banale di qualunque racconto; ma se davvero ti prende cosí, mi piacerebbe vederti a cimentarti con la scrittura, ti trovi bene con le parole.»

«Lettrice, sono una gran lettrice, non una scrittrice. Leggo perché leggere mi fa vivere le vite degli altri, vite ricche, vite … libere, vite interessanti

Vorrebbe aggiungere “come la tua”, ma non fa in tempo:

«Non mi venire a dire che nella tua vita non è mai successo nulla degno di nota.» sbuffa Vanessa «Non saresti qui ora, altrimenti. Non si coltiva un interesse per una rivoluzione sociale venendo da una vita anonima. Davvero non avresti niente da raccontare, della tua vita?»

Adele inspira a fondo, trattiene il respiro: potrebbe dirle di come nella sua vita non è mai successo nulla che dipendesse dalle sue decisioni, potrebbe dirle di come la sua vita sia stata scandita dagli stravolgimenti che altri hanno deciso per lei, ma no, non si sente ancora abbastanza sicura, sicura di sé, sicura di Vanessa, per aprirsi cosí. Espira fino a svuotarsi i polmoni, quindi aspetta di regolarizzare il respiro prima di rispondere:

«Davvero, non saprei cosa valga la pena raccontare.»

Non si sente di aver mentito, benché lo sguardo intento con cui l'ospite la fissa non lasci dubbi sulla trasparenza della dissimulazione.

«Va bene, non insisto.» conclude Vanessa, tornando a sdraiarsi «Se cambi idea, sono pronta ad ascoltarti.» volta il capo verso di lei, ne incontra nuovamente lo sguardo, entrambe tacciono come ad aspettare che l'altra trovi il coraggio o la voglia di dire la prossima parola, compiere il prossimo gesto.

È ancora Adele a distogliere lo sguardo per prima, tornando a contemplare la tenda sopra di sé; c'è qualcos'altro nell'aria, un sospetto che aspetta di concretizzarsi, ma sul quale lei non sa come intervenire. Ed è Vanessa infine a rompere il silenzio; si solleva su un gomito, per meglio voltarsi verso di lei: «Posso dirti una cosa io, allora?»

Adele ruota appena il capo: «Dimmi.»

«Ma promettimi che non te la prendi; non voglio offenderti, o metterti in imbarazzo.»

Adele si chiede cosa mai possa dirle di cosí sconvolgente: «Prometto.» la rassicura.

«Quel …» Vanessa si carezza la base del collo, il petto «… coso che hai indosso, è davvero … buffo

Adele guarda il proprio petto, coperto dal body che il gan'ka le ha dato da indossare. Si solleva a sedere: «È ridicolo,» conferma «ma è piú comodo di quanto non sembri.» sospira «La funzione prima della forma.» Con gesti distratti, sotto lo sguardo sorpreso ma attento di Vanessa, si sfila il body, lo piega, lo aggiunge alla piccola catasta dei propri vestiti, torna a voltarsi verso la giovane. Ha appena il tempo di notare lo sguardo di lei, che subito si solleva ad incrociare il suo, e la ragazza sospetta che, ci fosse piú luce, potrebbe vedere la propria ospite arrossire.

«Non era questo che intendevo …» comincia a scusarsi la giovane, ma la voce rimane in sospeso. Nel silenzio che segue, gli sguardi fissi l'uno nell'altro, Adele si chiarisce ogni dubbio sulle preferenze di Vanessa, e si spiega con queste le battute sulla lupa mannara. Sorride, e con un mezzo ammiccamento completa le parole in sospeso della compagna di tenda:

«Ma non ti dispiace.»

Torna a sdraiarsi, sentendosi gonfiare il petto dai prodromi di un'euforia che le è nuova. Non si sente sessualmente eccitata, eppure sa che, se Vanesse le proponesse qualcosa, non le direbbe di no, attirata dalla curiosità, dalla novità della cosa, dallo scoprirsi attraente, piú che da un vero desiderio.

«Non so di che parli,» è la mite risposta di Vanessa, ed entrambe sanno di sapere esattamente di cosa si sta parlando «mi ha solo sorpreso il tuo gesto, la sua … naturalezza.»

«Sono abituata.»

«Sei cresciuta in una comunità di nudisti?»

«Eeeh … boh, forse la potresti definire cosí.»

«Vedi che hai qualcosa da raccontare?» Vanessa si solleva nuovamente su un gomito, pronta ad uno scherzoso j'accuse.

«Ma per favore,» la rintuzza subito Adele «Forse che per te essere nuda non è altrettanto naturale?»

«Touché.» Vanessa torna a sdraiarsi.

Adele scivola fuori dal proprio sacco a pelo, avvicina il proprio viso a quello della compagna di tenda, abbassa la voce ad un mormorío che le suona profondo, di petto.

«Ho visto come mi guardavi, sai.» forse non aspetterà che sia Vanessa a prendere l'iniziativa, dopo tutto «E la tua piccola esibizione di prima, non è passata inosservata.»

Gli occhi di Vanessa sono grandi e lucidi, le sue labbra si schiudono per permettere alla lingua di umettarle. «Non era …» «Shh.» due dita sulle labbra di Vanessa, Adele la fa tacere. Le dita scivolano giú per il mento, sfiorano il collo, sfiorano appena un seno mentre la mano viene ritirata, prima di tornare alla carica piú in basso, scoprendo aperta la cerniera del sacco a pelo, accessibile il corpo di Vanessa.

«È un bel corpo, il tuo,» le dita di Adele sfiorano appena la pelle della compagna di tenda, risalgono lungo la coscia, scatenano un fremito al superare l'anca «ma temo di essere immune a certe esibizioni.» I suoi occhi cercano una reazione, ma Vanessa regge lo sguardo, in attesa, senza risposta «E penso di aver capito perché ti chiamano la lupa mannara,» ancora nulla «e forse davvero stavolta la cacciatrice diventerà preda.»

«Van Helsing cacciava vampiri.»

«Oh, ma magari alcuni dei suoi discendenti hanno trovato altre specializzazioni …» Adele comincia a intrufolarsi sotto il sacco a pelo di Vanessa, spinge il proprio corpo contro quello della compagna. La mano esploratrice torna a scendere, trova il piccolo anello di acciaio, lo titilla, torna a scivolare distrattamente verso il basso, sfiorando quasi casualmente la vulva della compagna, ne scopre gli umori, scivola morbidamente verso l'alto, per distribuirli verso il punto piú sensibile.

Con un sussulto, Vanessa chiude gli occhi, stringe appena le gambe prima di tornare ad aprire, allargandole per rendere piú facile l'accesso, ma Adele sposta bruscamente la mano, porta completamente il proprio corpo su quello della compagna, le sfiora le labbra con le proprie, scorre verso il basso fino a farsi schiudere la vulva dal tumido clitoride di lei. Vanessa le poggia le mani sui fianchi, ma Adele le scosta bruscamente.

«No.» poi piú dolce, un bisbiglio all'orecchio «Non ancora.» scivola ulteriormente verso il basso, la sua bocca trova un capezzolo della compagna, l'altro, li solletica appena prima di tornare a risalire «Stanotte, il tuo corpo appartiene a me.»

Sono un voyeur, lo riconosco; forse non nel senso stretto della parafilía, ma certamente nell'essere attratto dalla possibilità di osservare la vita delle mie Custodi in qualunque momento, direttamente o indirettamente. È un privilegio di cui non faccio normalmente uso, in verità, ma vi sono momenti, circostanze in cui la possibilità mi è irrinunciabile.

E questo è uno di quei momenti, una di quelle circostanze, benché l'ignara vittima del mio voyeurismo non sia, in senso stretto, una Custode, e benché di voyeurismo non si potrebbe parlare, strettamente, giacché non è visuale il monitoraggio.

«Stai guardando quello che penso tu stia guardando?»

È la dottoressa; aggrappata con una mano allo stipite, una gamba libera, l'altra a fare da perno, oscilla verso l'interno del mio studio, in cerca di una risposta.

«Immagino di sí.» le rispondo, distratto appena dal suo arrivo.

Entra, mi raggiunge, si poggia sulle mie spalle, la testa affiancata alla mia a guardare lo schermo su cui tengo il monitoraggio dei parametri di Adele. Sappiamo entrambi cosa stiamo vedendo; il mio unico dubbio è:

«Maschio o femmina?»

«Femmina.»

«Come fai ad esserne sicura?»

«A quest'ora avrebbero già finito.»

È una battuta cattiva, ma mi fa sogghignare.

«Comunque, non lo so,» continua con maggiore serietà, mentre cerca una sedia; si piazza accanto a me, mettendosi comoda «ma battute a parte sospetto di non avere torto, visto come stanno andando le cose.»

Forse leggo troppo nella sua risposta, ma vi sento l'idea che la dottoressa condivida con me questo gusto, vi sento un'implicita confessione che quella sia ben lontana dall'essere la prima volta che ella si ritrovi a studiare, non certo per motivi clinici, l'andamento dei parametri di una Custode in ‘amichevoli circostanze’.

L'irrequietezza delle sue gambe stese, poggiate contro la mia sedia, il nervoso mordicchiarsi l'indice della mano destra, la tensione manifesta in tutto di suo corpo mi confermano che l'invisibile spettacolo a cui stiamo assistendo le sta piacendo piú di quanto non voglia dare a vedere. Stendo un braccio a carezzarle un polpaccio, quasi distrattamente, ed infine le suggerisco:

«Se ti vuoi masturbare, fai pure.»

Scosta le gambe, ma è solo per potersi avvicinare. «Ho un'idea migliore.» la sua mano cerca il mio sesso «Vuoi tenerle compagnia?»

Il suo sguardo è fisso nel mio, ma non ha bisogno di cercare conferme che l'idea mi piaccia. E tuttavia mi sento in dovere di enunciare il mio timore:

«Non penso che ci si possa comodamente godere lo spettacolo mentre …» mi poggia un dito sulle labbra, ad interrompermi; monta cavalcioni sulle mie gambe, dandomi le spalle, scivola indietro lasciandomi entrare con estrema facilità, quindi si volta appena, quel tanto che basta per potersi poggiare al mio braccio, al bracciolo della poltroncina; mi circonda le spalle con un braccio, ed è sistemata.

«Va bene cosí?» mi chiede, pur conoscendo la risposta. Possiamo a stento muoverci senza rompere l'incantesimo, ma non ha importanza: è solo un modo per intrattenerci in piacevole compagnia mentre condividiamo questo comune interesse per il benessere di Adele, che possiamo entrambi seguire con il dovuto interesse, interesse che la dottoressa dimostra subito essere primario nei piccoli movimenti con cui si stimola contro di me.

È in questa stramba ma funzionale posizione che ci trova la Prima; si affaccia, bussando allo stipite, chiedendo «Disturbo?», ma non si fa problemi a raggiungerci. «Che fate di bello?» si china a depositare un bacio sulle labbra della dottoressa, e non ricevendo risposta, si concentra anche lei sui grafici a schermo. Dapprima perplessa, arriva finalmente a formulare la propria idea:

«È quello che penso che sia?» chiede. Sinceramente, né io né la dottoressa abbiamo particolarmente voglia di risponderle, anche perché è abbastanza evidente che non ce ne sarà bisogno: «Seriamente vi state … trastullando con il monitoraggio di … Adele che …» pausa «Siete dei maniaci pervertiti.»

Il tono con cui conclude vorrebbe essere di condanna, ma il suo rimanere lí in piedi alle nostre spalle, lo sguardo fisso sullo schermo, non depone a suo favore, per quanto possa essere solo quella naturale, morbosa curiosità che spesso ci impedisce di distogliere lo sguardo da qualcosa a cui in realtà non vorremmo assistere, o peggio, vorremmo non assistere.

E trastullarsi non è forse il termine giusto, giacché è evidente che sulla dottoressa la situazione ha avuto, sta avendo l'effetto probabilmente cercato: scende improvvisamente da me, dalla sedia, solo per risalirvi immediatamente, cavalcandomi naturalmente per portarsi rapidamente all'orgasmo.

«Cribbio.» sbuffa, accasciandosi tra le mie braccia; riprende fiato, ansimante, ma non riesce a non commentare «Non ho idea di cosa stia facendo, la ragazza, ma è bene che si prepari al piú esplosivo orgasmo della sua vita.»

«E mi sa che ci siamo quasi.» Posso cercare di sembrare il piú distaccato possibile, ma la dottoressa sa bene quanto la cosa mi stia coinvolgendo.

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Il risveglio è immediato, come ormai da anni. Adele si volta verso Vanessa, che ronfa sommessamente dandole le spalle; si solleva lentamente, cercando di evitare di produrre alcun rumore, e sta già tirando giú la cerniera per aprire la tenda quando si ricorda di essere completamente nuda, in un campo abusivo in mezzo al parco.

Ridendo internamente della propria distrazione, torna a sedersi, e ricordandosi delle condizioni dei bagni pubblici tira fuori con cautela le salviette dallo zaino, per dare al proprio corpo una parvenza di igiene, e detergendosi con particolare attenzione pube e ascelle. Viene poi il delicatissimo momento della vestizione, ed è con grandissima soddisfazione che Adele emerge infine dalla tenda, lasciando la propria notturna compagna ancora addormentata.

L'alba, luminosa, è immersa nel silenzio. La città non ha ancora ripreso vita, ed il parco stesso è ancora immerso nel sonno, benché sia facile immaginare che non lo sarà per molto; approfittando della momentanea pace, Adele trova un posto dove svuotarsi la vescica, temendo che il risveglio del campo non lasci piú un angolo tranquillo dove appartarsi.

La notte appena trascorsa la insegue come una tensione irrisolta, forse un'attesa per qualcosa di imprevedibile eppure incombente, e la quiete che la circonda ancora, quando torna alla tenda, non fa che amplificare questa sensazione.

Non si è mai posta il problema, Adele, del proprio orientamento sessuale. Dalla convivenza con il gan'ka e le sue Custodi ha assimilato una coscienza della possibilità dell'attrazione sessuale per il proprio come per l'altro sesso, il tutto senza qualificazioni, senza necessità di collocazioni specifiche. Conosce il significato delle parole, eterosessuale, omosessuale, ma non ne apprezza il valore, non ne ha mai capito il senso, l'opportunità.

Non è ciò che è successo la causa del suo turbamento, quanto il modo. La novità della situazione, la novità dell'attrazione, scoprirsi capace di prendere l'iniziativa, e come: tutto le dà la sensazione di aver agito fuori dalla propria persona. Senza aver bevuto, senza aver fumato, senza avere “circostanze esterne” a cui attribuire il proprio comportamento —comportamento, peraltro, del quale non si dispiace— si è lasciata prendere dalla situazione; e tuttavia ha agito non come sarebbe stato ‘naturale’ che lei agisse (come ci si sarebbe potuti aspettare viste le età, le circostanze, ma anche come lei, ora, a mente fredda, sente che avrebbe agito piuttosto), bensí come mirando al controllo, forzando le cose contro il loro naturale svolgimento.

Non le sfugge il paradossale contrasto tra le due sensazioni, da un lato quella di essere stata trascinata dagli eventi, dall'altra quella di averne forzata la mano; e dietro questo contrasto, un sottotono che non riesce a definire, un subdolo dubbio, un timore non manifesto.

E adesso, la mattina dopo, le domande: perché? come? E adesso, la mattina dopo, i dubbi, che vi possa essere un significato negli eventi della notte prima, che li si debba definire, classificare. E su tutto, inevitabilmente, l'ombra del gan'ka, della sua possibile reazione.

La ragazza si volge a oriente, dove si comincia ad intravedere il sole tra gli alberi; chiude gli occhi, inspirando, espirando a fondo, a placare la marea prima che la travolga. Sorride, all'affiorare di pensieri e ricordi che le danno sollievo: intraprende il Saluto al Sole, concentrandosi sui movimenti, sulla respirazione, con un'attenzione che potrebbe rendere Priyā orgogliosa; o almeno cosí si trova a pensare Adele, ripetendo il saluto tre volte, sentendosi progressivamente piú libera, piú serena, piú pronta ad affrontare a mente chiara l'incipiente giornata.

Emerge la coscienza della discrepanza tra l'immobilità che la circonda e la perenne vita della Casa: il gan'ka, con il suo sonno frazionato, sveglio praticamente ad ogni ora; le Custodi che prima delle cinque sono già in attività per organizzare, preparare i pasti della giornata; la gigantessa in giro per l'orto alle sei; Hiromi che a quest'ora sarà già alla radura a fare i suoi esercizi prima di colazione. E qui si cominciano appena a vedere i primi sbadigli.

Torna la sensazione della sera prima, all'arrivo al parco, di essere un'aliena, fuori posto, dissimile; una sensazione che —tuttavia— non le dà piú quell'angoscioso senso di non appartenenza che l'aspettava dietro l'angolo ad ogni occasione, torturandola fin oltre i tredici anni; non piú, non qui, non ora: a che pro essere come gli altri se si trova maggiore soddisfazione nell'essere come si è?

I miei tempi, i miei spazi, i miei modi. Adele si sposta verso il centro dell'aiuola, e comincia a praticare le forme che Hiromi le ha insegnato. L'assenza della Custode, il silenzio intorno, la ritrovata serenità le offrono una concentrazione fino ad allora solo auspicata: non c'è lo sguardo severo della maestra, dal quale sentirsi giudicati anche senza commento; non c'è forza esterna che disturbi, né turbamento interno che distrugga l'equilibrio. Sente i proprî movimenti fluire con naturalezza da una forma alla successiva, percepisce la completezza con cui il proprio corpo controlla lo spazio che la circonda; è lei, è sé stessa, è artefice della propria vita.

Completa i proprio esercizi nella piú profonda calma, noncurante della piccola folla che nei minuti che si susseguono infiniti le si raccoglie attorno curiosa; non le sfugge l'attenzione che sta attirando su di sé, ma ciò non la turba: non la spaventa, non la entusiasma. Le torna in mente la prima volta che ha visto Hiromi praticare quelle forme, l'assoluta indifferenza con cui la Custode aveva incontrato, e poi passato, il suo sguardo.

Sono padrona della mia vita, qualunque cosa gli altri possano pensare di me non mi impedirà di fare ciò che faccio.

È il primo pezzo a trovare posto nel rompicapo che, a volte preponderante, a volte nascosto, la perseguita da quando ha imparato a pensare: essere liberi è una condizione interna prima che esterna.

Nemmeno lo sguardo sorpreso di Vanessa, emersa nel frattempo dalla tenda ed ora alla ricerca della sua mattiniera compagna, riesce a distogliere Adele dai suoi esercizi. Le perplessità della notte non hanno piú alcuna importanza, e meno che mai in quel momento. Persino quando, conclusa la serie, vede Vanessa venirle incontro, tra il brusío del piccolo pubblico ed il raro applauso, Adele non ha risposte da cercare, perché non ha piú domande da porsi.

L'unico pensiero che prende forma è: non importa. La novità, i modi, le cause, le prospettive, l'eventuale senso di ciò che è successo: nulla di tuttto ciò ha importanza, se non per il valore interno che il vissuto ha per colei che lo vive, per coloro che lo vivono.

E quando Vanessa la raggiunge, ancora avvolta dallo stupore, «Ma guarda cosa abbiamo qui, i grandi segreti della piccola Adele.» è con sincera ingenuità che la ragazza si trova a chiedere «Che segreti?»

«Fai arti marziali.» «Faccio taiji.» «E non è un'arte marziale?» Adele fa spallucce. «Chissà quali altre sorprese ci nascondi.»

Adele risponde ancora facendo spallucce, ma la frase non le passa inosservata. Si rende conto improvvisamente che la sensazione che l'aveva colta la sera prima, nei racconti dei piercing di Vanessa, non era motivata da una oggettiva banalità della propria vita, quanto piuttosto dalla soggettiva percezione della stessa. Non hai nulla da raccontare di te se consideri la tua vita “normale”, o se gli unici eventi che senti come eccezionali sono le crisi, private, segrete; ma come puoi sapere che ciò che per te è quotidiano non sia eccezionale, straordinario per gli altri?

«Sei piena di sorprese.» insiste Vanessa, ed improvvisamente Adele si rende conto che per quanto lei possa essere scesa a patti con la notte prima, la sua compagna potrebbe ancora essere in cerca di risposte; è sul momento di dire “non importa”, ma si ferma per tempo, temendo un facile fraintendimento.

«Parliamone a colazione.» propone invece. È l'ora, comunque, la fame e la sete cominciano a farsi sentire, e certe discussioni vanno meglio affrontate senza pressioni fisiologiche.

«Bar?»

Adele annuisce, scolandosi il fondo della bottiglia d'acqua che si è portata da casa. Seguendo Vanessa, si guarda in giro cercando dove poterla riempire; quando passano davanti a una fontana si ferma, per accorgersi immediatamente della mancanza d'acqua.

«Niente acqua,» rimarca Vanessa «come per la luce. Perché credi che i bagni siano in quelle condizioni? Non è certo la buona volontà di tenere le cose in ordine, a mancare.»

Adele annuisce; le rimane qualche perplessità sulle priorità degli organizzatori, ma preferisce non commentare. Vanessa riprende a camminare verso l'uscita, Adele le si affianca rapidamente, e non può fare a meno di notare le occhiate che le scocca la compagna.

«Dillo.» le fa infine.

«Nulla.» temporeggia Vanessa, poi riprende «Sto cercando di … di capirti. Sei … non sei quello che sembri, sei molto di piú.»

«Quello che sembro?»

«Una ragazzina alle prime armi, un po' allo sbaraglio. Sei molto piú … matura della tua età.»

«Me lo dicono spesso.» Adele non riesce a nascondere una nota di disappunto.

«Non ne sembri contenta.»

«Non lo capisco. C'è sempre qualcosa. Quando ero piú piccola, era il modo in cui parlavo, quello che dicevo. Ora, a quanto pare, quello che faccio. Va bene, sono sempre sembrata piú piccola di quello che sono, fisicamente, lo so, sono cosí, non posso …»

«Scusami, non intendevo in tal senso,» la interrompe Vanessa, cercando di porre rimedio «non era … ti assicuro che non è dell'aspetto fisico che stavo parlando —anche se è innegabile che ti dà un'aria di innocenza, di chiarezza della quale dovresti essere fiera— e nemmeno di … di cose specifiche che hai fatto. Era … era un discorso piú generale. Sai, di una ragazzina di diciassette, diciotto anni ci si aspetta che …» la giovane si ferma, come colta da un'epifania «Ecco, quando dicevi di aver avuto una vita banale, con nulla da raccontare? Se fosse stato cosí, saresti stata una diciassettenne come tutte le altre, e non lo sei. E non lo dico in negativo, perché sei una persona straordinaria, e del tuo esserlo puoi esserne orgogliosa: sei sicura di te senza essere arrogante, sei … attenta, sei … non lo, non ti conosco nemmeno abbastanza da sapere chissà cosa su di te, ma quel poco che ho intravisto è … meraviglioso.»

Adele è arrossita. Le dispiace persino esser sbottata in quella maniera prima, vorrebbe chiedere scusa, ma non ha il coraggio di aprire bocca.

Vanessa le si avvicina, e sorridendo le sussurra: «E stanotte è stato sconvolgente, inattesa, ma la piú bella sorpresa che potessi sperare di ricevere.» Poi torna a parlare normalmente: «Ma ecco, anche quello, non era certo quello che mi sarei aspettato da una diciassettenne qualunque.»

«Ho … dato retta alla voce dell'esperienza.»

Vorrebbe essere una battuta, una citazione, ma lo sguardo sospettoso, forse un po' stravolto con cui la guarda Vanessa fa sí che Adele si renda conto che, dopo tutto, non è nemmeno tanto lontano dalla verità.

Finalmente davanti al bancone del bar, la discussione prende una pausa. Adele non ha nessuna intenzione di rinunciare alle sue buone abitudini, ordina una colazione che lascia perplessi tanto Vanessa quanto il cameriere, ed infine si accomoda al tavolino piú in disparte che trova sotto la veranda del locale.

«Spero,» è Vanessa a riprendere il discorso «che quella battuta non significasse quello che ho temuto potesse significare.»

Adele la guarda serenamente negli occhi, e decide di raccontarle la sua vita, di punto in bianco:

«Sei anni fa, mio padre mi ha persa giocando a carte.» la tazza del cappuccino di Vanessa torna bruscamente giú, ma Adele continua con la stessa aria, con lo stesso tono sereno «Formalmente, mi ha ceduto a un mentore che mi potesse garantire un'educazione, una qualità della vita migliore. Da allora, non ho piú rivisto mio padre, né mia madre, né alcun membro della mia famiglia.»

Adele prende fiato, mentre Vanessa sembra trattenere il proprio, in attesa; poi la ragazza riprende

«Il mio mentore vive in una villa fuori città, circondato da donne. La villa, con il terreno attorno, è una specie di piccolo paradiso. Le donne sono una piú bella dell'altra, ma soprattutto, sono persone di eccezionale talento. Le invidio, le ammiro. Cerco di imparare quanto piú possibile da loro, mi dispiace avere solo una vita per questo.»

Adele si concede una piccola pausa da dedicare alla colazione; Vanessa sta per chiedere qualcosa, ma si trattiene. È ancora la ragazza a rompere il silenzio:

«A tredici anni ho subíto un tentativo di stupro, a scuola, dopo la fine delle lezioni, uno degli ultimi giorni, da parte di tre ragazzi piú grandi.» Vanessa, irrequieta, ha ormai abbandonato la propria colazione «A quattordici anni ho perso mia sponte la verginità. Con il mio mentore. Da lui ho imparato ad … ascoltare. Ascoltare il mio corpo, ascoltare il corpo del … dell'altro.»

Scende il silenzio, che Adele torna a dedicare alla propria colazione. Si sente straordinariamente serena, pronta a rispondere ad ogni domanda che la compagna possa avere. «Finito.» suggerisce, tra un boccone e l'altro.

Passa ancora qualche secondo prima che Vanessa sembri trovare la forza di parlare. Apre la bocca, la richiude, deglutisce; scuote il capo, ad occhi chiusi, si preme la base del naso con forza tra pollice e indice. «Okay,» è tutto quello che riesce a dire «sono … basita.»

Adele non sa cosa aggiungere, Vanessa trova quindi la spinta a continuare: «Sinceramente, all'inizio ho temuto che … insomma, con quello che si dice sul mentoraggio, ho pensato che già quando …» Vanessa sospira, non trovando parole.

«Non mi ha stuprata quando sono andata a vivere con lui, se è questo che …»

«Come fai a parlarne cosí … cosí serenamente!?» esplode Vanessa all'improvviso. Adele è sorpresa:

«Come ne dovrei parlare scusa? Guarda che la mia vita è stata molto meno …»

«No, non dico quello, ma … ma dici ‘stupro’ come potresti dire ‘mal di denti’, non è …»

«Vanessa, ci sono innumerevoli cose … orrende che accadono, che possono accadere, per opera di altri essere umani, o solo per … per caso. Non puoi spendere la vita a … a bisbigliarne, ad averne paura. Tra due, tre ore potrebbero pestarci là fuori,» Adele allarga il braccio verso la strada «potrebbero massacrarci. Vorresti che non se ne parlasse? Vorresti che fosse messo a tacere? Lo stupro è una violenza imperdonabile, vogliamo anche renderla una vergogna di cui non si può parlare, un tabú?»

Vanessa si sente respinta dalla crescente violenza nel tono di Adele, che cessa di colpo.

«Scusa. Scusami, non volevo risponderti cosí.» Adele inspira a fondo, poi riprende «È che … la presunta ‘delicatezza’, la presunta ‘sensibilità’ che si presume si debba avere quando si parla di queste cose non fa altro che … amplificarne il peso, immotivatamente. Non se ne parla, perché è una cosa grave, e quindi di cui vergognarsi; salvo poi farci sopra castelli mediatici spropositati quando fa comodo che vengano a galla. Sono arrivata in prima media con l'idea —proiettata dagli adulti— che ‘certe cose’ succedevano alle ragazze che frequentavano certe persone, che frequentavano certi ambienti, che si comportavano in certi modi, che si vestivano in certi modi; e allo stesso tempo tra i miei coetanei facevano a gara per dimostrare di sapere tutto sul sesso, che fosse vero o meno, e c'erano quelle di terza che facevano i pompini nei bagni, per soldi, per farsi fare i compiti, per non lo so.»

Riprende fiato, continua:

«Quando … quando ho subito il tentato stupro, la mia domanda fissa è stata: perché io? Non riuscivo a capire come potessi rientrare nella categoria di quelle a cui succedevano ‘certe cose’, l'unica cosa che avevo fatto era stata rendermi conto di aver scordato una cosa sotto il banco, tornare indietro a riprenderla. E mi dicevo che era questo, che non avrei dovuto. E per un sacco di tempo a seguire, praticamente le uniche parole che ho sentito dal mio mentore sono state: “non è colpa tua”; in qualunque circostanza, senza che ci fosse necessariamente un nesso: “non è colpa tua”. “Non è colpa tua”. Non so spiegare nemmeno io quanto sia stata preziosa per me questa reiterazione, ma la cosa che mi ha aiutato di piú è stato il fatto che le altre potessero parlare della cosa con serenità, alcune persino scherzandoci sopra, sulle proprie esperienze: mi ha fatto capire che non solo non ero sola, ma che era qualcosa che si poteva superare, che non era un … non lo so, un marchio a vita, una condanna.»

«Le altre?»

«Le … le donne che vivono con il mio mentore.»

«Oh.» Vanessa ha un momento di perplessità, ma anche di epifania; chiude gli occhi, come a cancellare un'immagine, li riapre «Mi sa che … mi è sfuggita qualcosa di questa … della tua situazione; sinceramente, mi stavo immaginando un tizio, possibilmente abbastanza in età, che sfrutta la propria posizione economica per … non lo so, per fare il playboy, per collezionare mogli trofeo? Qualcosa del genere. E che … non lo so,» le sue braccia si agitano esasperate «ti ha coccolata, o … o non lo so, educata, plagiata, non mi viene una parola migliore, mi dispiace, per convincerti a … a fare sesso con lui. Mi dispiace,» Vanessa cerca di arginare sul nascere la reazione di Adele «non lo dico per cattiveria nei tuoi confronti, non lo dico per …»

Adele scuote il capo; stava quasi per ridere, all'immagine del gan'ka playboy, ma le ultime parole di Vanessa l'hanno scoraggiata. «No, no, no, ma perché è cosí difficile credere che … miseria, quando ero in prima media nella mia scuola scoppiò un casino perché c'era una cricca di ragazze di terza che teneva sotto ricatto alcuni professori con i quali si prostituivano, nel senso che ci andavano a letto per soldi, e poi li ricattavano con fotografie e filmati. Il tutto, di loro iniziativa.»

«Ma tu non sei …»

«Io non sono cosa? Io non sono tipa da prostituirmi, non sono tipa da andare a pensare di farlo apposta con gente piú grande per poterla ricattare; ma perché si può ammettere che quelle avessero la maturità di concepire un piano del genere, ma non che io possa aver avuto la maturità di scegliere da me, senza pressioni, senza … suggerimenti, senza plagio, quando e con chi fare l'amore?»

Adele si copre un attimo gli occhi con una mano, poi riprende:

«Il ga … il mio mentore è un sociopatico senza alcuna considerazione, senza alcun rispetto per il genere umano. Quando mi ha preso con sé, mi ha evitata; mi ha trattato in modo brusco, nei momenti migliori con indifferenza: non dico come se mi odiasse, ma quanto meno come se gli dessi fastidio. Non ha mai fatto nulla per avvicinarsi a me, o perché io mi avvicinassi a lui, ed io di questo ero felice, perché lo odiavo, lo odiavo perché mi aveva tolto alla mia famiglia, perché mi aveva stravolto la vita, perché sapevo di essere di sua proprietà, persino piú di come i figli dipendono dai genitori. Ma alla fine non aveva importanza, perché lo vedevo praticamente solo ai pasti, magari nei momenti sociali, e per lo piú era facile evitarlo, fingere che non ci fosse, perché la mia vita lí era con le donne.»

Riprende fiato.

«Le donne. Sinceramente, non ho idea, tuttora, di che tipo di sentimenti abbiano per lui, tranne per qualcuna. E sí, con la maggior parte se non con tutte ci fa sesso. Probabilmente uno dei motivi per cui la mia presenza gli dava fastidio era il non avere piú la stessa libertà di movimento: una cosa è scoparti qualcuna sul tavolo della cucina o sulla poltrona del salotto quando a beccarti può essere solo un'altra con cui hai lo stesso rapporto, ben diverso se ti può spuntare in qualunque momento una dodicenne, che per giunta ti odia.»

Vanessa la ascolta con attenzione, i gomiti puntati sul tavolino, la testa sorretta dalle mani infilate tra i capelli, cercando di chiarire la propria immagine mentale del piccolo mondo privato in cui Adele è cresciuta, un mondo di cui non fa altro che percepire paradossi e assurdità, mentre la ragazza ne parla come se tutto fosse naturale, organico.

«E nel caso non fosse chiaro, le donne sono residenti, non gente che va e viene. Vivono lí, si prendono cura della villa e del terreno attorno, e le une delle altre. Coincidentalmente trombano anche con il padrone di casa, di tanto in tanto, chi piú chi meno; ma sinceramente, il ga … il mio mentore in tutto questo è appena tangenziale, anche se non posso negare che la sua ombra si stende dovunque, e senza di lui probabilmente non ci sarebbe stato nulla di tutto questo.»

«A dodici anni lo odiavi, a quattordici hai deciso di andarci a letto?»

«Oh,» Adele si gratta il naso «è difficile continuare a odiare una persona quando grazie a lei hai cominciato a vivere in un piccolo angolo di paradiso. Ti rimane la rabbia per il modo in cui ci ha portato, ma se a parte questo quella persona non ti ha mai fatto nulla di male, non ha mai dimostrato nessuna cattiveria, né nei tuoi confronti né nei confronti degli altri —o meglio, delle altre— a cui nel frattempo ti sei affezionata, non hai nulla a cui aggrapparti per continuare a odiarlo. Magari non sarà una persona da cui potrai imparare grandi sentimenti, o i sentimenti in alcun modo, perché sembra esserne privo, ma non puoi odiarlo. E quando poi ti accorgi che per quanto ti possa considerare alla stregua di un animale, forse persino di un oggetto, riesce comunque a manifestare una sua … attenzione —per mancanza di un termine migliore— nei tuoi confronti, perché comunque sei un suo animale, un suo oggetto, e magari non ti vorrà mai ’bene’, ma per lui hai comunque un valore …» spallucce.

Vanessa è esterrefatta. «Sinceramente, io la troverei una cosa raccapricciante.»

«Be', stiamo parlando di un sociopatico. E non è che io stia dicendo che ne sarei pazzamente innamorata, o che morirei per lui, o chissà che. Ma è una persona in cui ho … fiducia.»

Vanessa la guarda incredula, Adele elabora: «Sinceramente, quando ho cominciato a vivere lí, mi sono chiesta come potessero quelle donne accettare di vivere con, mi sembrava anzi per, una persona cosí odiosa —d'accordo, al tempo per me era odio, della sua sociopatía non ne sapevo ancora nulla. Ed a sentire certi loro racconti, di alcune di loro in particolare, mi dicevo: perché non se ne sono già scappate? Perché scelgono di restare qui, agli ordini —perché in quella casa lui è tiranno, la sua parola è legge— di un soggetto del genere? La notte in cui sono arrivata in quella casa, praticamente la prima interazione che ho visto tra lui e una delle sue donne, è stata violenta, una sberla, letteralmente: schiaffo, manrovescio. E lei, la capa in seconda, gli ha chiesto scusa. Ti puoi immaginare quanto mi abbia impressionato la cosa, è bruciata nella mia memoria: in che mani sono finita

Vanessa è di nuovo proiettata in avanti, assorbita dal racconto di Adele. La ragazza continua:

«Non so esattamente perché sia successo quello che è successo quella notte. Posso immaginare che la Prima avesse sollevato qualche obiezione nel vedermi spuntare, e lui, già stanco e incazzato di suo, ha perso le staffe. Non lo giustifica, non lo giustifico, ma il punto è che è semplice da capire, è semplice da gestire, ed anche nel peggiore dei casi, nonostante tutto, non c'è nulla da temere.» Adele sospende un attimo il racconto, come colta da un pensiero. «Se sei sua.» aggiunge.

Vanessa la guarda inclinando la testa da un lato, a chiedere chiarimenti; Adele ottempera:

«A parte quella notte, non l'ho visto esercitare violenza su nessuna di noi, mai. In sei anni l'ho visto stanco, alterato, irato, insoddisfatto, scontroso, spazientito, ma mai fisicamente violento, nei nostri confronti. Poi, la volta che mi hanno quasi stuprata, l'ho visto arrabbiato, per la prima volta, sul serio. E ho avuto paura, paura come non ne avevo avuta mai, nemmeno quando mio padre sfogava la sua frustrazione a casa contro mia madre, o contro noi figli se eravamo a portata di mano. Ero terrorizzata, dal vederlo in quel modo, il mio mentore, intendo, dal sentirmi in colpa senza nemmeno sapere perché mi ci dovessi sentire, semplicemente perché mi era successo quello che mi era appena successo.»

Adele si schiarisce la voce prima di continuare:

«Quelli che mi hanno assalito, li hanno ritrovati … lasciamo perdere. Ed in quelle stesse condizioni, quell'alterazione mentale, nei momenti immediatamente successivi, l'ho sentito discutere, litigare persino con le Cu … con le altre donne, ma nulla di piú. E poi è venuto da me, che me ne stavo rintanata in bagno a piangere, e quando ha provato a toccarmi ho urlato come una pazza, perché non volevo che nessuno mi toccasse, e meno che mai lui, che temevo mi avrebbe massacrato di botte per quello che avevo fatto, perché qualcosa dovevo averla fatta. E invece lui mi ha lavato. Ha preso la spugna e con calma, con una pazienza infinita, mi ha lavato tutto il corpo, con cura.» Adele chiude gli occhi «È stata la sensazione piú straniante della mia vita, come se mi stesse davvero lavando via di dosso quello che era appena successo.»

«E tu ti sei sentita in colpa per come l'avevi considerato per due anni, e ti sei offerta a lui per chiedergli scusa.» Vanessa non riesce a trattenersi. Adele apre gli occhi, la fissa con aria di sfida, poi si rilassa e risponde:

«Eeeeh, qualcosa del genere. Ma no, non mi sono sentita in colpa, non gli ho voluto chiedere scusa, ma è come se mi si fosse … liberata la mente, schiarita la vista. Un'epifania: che in tutta l'assurdità del suo comportamento, non aveva mai mancato di rispetto, in fondo, nessuna delle sue donne; o me. Ed è stato prendere coscienza di questo che mi ha … stravolto il mondo, il modo di vedere lui, il suo modo di fare: prendere coscienza che pur con il suo potere sulle nostre vite, non si era praticamente mai imposto. E sí, per questo mi sono avvicinata a lui; ma non per chiedergli scusa, ma perché nonostante l'astio nei suoi confronti che mi era incrostrato adddosso, mi sono cominciata a rendere conto di quanto fosse affidabile, attento; e sí, ho voluto che mi accettasse come le altre.»

Adele si ferma a riprendere fiato, poi riprente, una eco di delusione nella voce:

«E lui mi ha rifiutata. Ho dormito con lui per tre mesi, ma letteralmente dormito, perché era l'unico modo in cui riuscivo a superare gli incubi. Ma non era solo questione di riconoscenza, anche se non nego che quella possa essere stata la causa scatenante; c'era di piú: volevo diventare parte integrante di quella comunità, non volevo piú essere l'ospite —per quanto ben accolta—, la bambina, quella a cui tutti vogliono bene, ma che non considerano alla pari.» Ed allo sguardo perplesso della compagna, Adele scuote la testa: «Presuntuosa oltre il ridicolo, mi dico adesso; ma allora sentivo impellente questo bisogno, e l'unica cosa che pensavo di poter usare era il mio corpo. Che se ci penso adesso è un'idea che trovo raccapricciante, la stessa idea che porta le ragazzine a fare a gara a chi ne sa di piú, a fare i pompini in bagno per farsi riconoscere come ‘reginette’.»

Adele sospira a fondo, prima di continuare:

«Ed in verità era una cosa che mi terrorizzava; avevo paura di quello che poteva succedere, sapevo che mi avrebbe fatto male, sapevo che sarei stata goffa, imbranata, che non sarei piaciuta, che … non lo so, tutto mi spaventava della cosa. Avevo letto di tutto sull'argomento, dai libretti per bambini ai racconti pornografici, passando per tutto quello che c'è nel mezzo, atlanti anatomici, romanzi con scene piú o meno esplicite, fumetti, di tutto; ma sapevo che in pratica sarebbe stata una catastrofe; ed allo stesso tempo architettavo piani diabolici, tipo farmi ‘beccare’ a leggere qualcosa di queste, possibilmente qualcosa con grandi differenze di età. Mai nulla piú di un carezza sui capelli, al piú forse qualche pacca sul sedere. Ho cominciato ad odiare il mio corpo perché a tredici anni sembrava che ne avessi undici, che a quanto pare era stato sufficiente perché quegli stronzi mi saltassero addosso, ma non per il mio mentore.»

Nella pausa che Adele fa per riprendere fiato, Vanessa —ormai presa da genuina curiosità— non può fare a meno di chiedere: «E poi che è successo?»

«Non. Lo. So. Non ne ho idea. Non è che a quattordici anni fossi molto diversa; avevo appena cominciato lo sviluppo, cosa che non faceva che rendermi ancora piú imbarazzata del mio corpo senza per questo renderlo minimamente piú seducente. Forse perché nel frattempo avevo avuto il menarca. Non ne ho idea. Ma improvvisamente ha accetato che gli facessi un … un massaggio; era una cosa che a volte avevo visto fare anche da … dalle altre, stava sdraiato a pancia in giú, la donna a cavalcioni sulla schiena; ho pensato che potesse essere un buon modo per … un approccio al contatto fisico che non fosse sessuale, e che quindi avrebbe accettato.» Adele chiudi gli occhi, sorride «Mi sono masturbata contro la sua schiena.» riapre gli occhi, fissa lo sguardo su Vanessa «Non di colpo, è stata … una scoperta, un'idea che mi è balenata sul momento; ero lí, a cavalcioni sulla sua schiena, e … puf, ‘forse posso …’ … prima pianino pianino, perché non volevo che se ne accorgesse, ero sicura si sarebbe arrabbiato, mi avrebbe cacciato; poi sinceramente non sono piú riuscita a contenermi e …» pausa; Adele deglutisce, i ricordi si sono fatti troppo vivi «e insomma, quella è stata un po' la chiave che ha sbloccato la situazione.»

Si guardano fisse negli occhi, Adele e Vanessa, come a chiedersi vicendevolmente se quell'immagine mentale sta avendo su entrambe lo stesso effetto. È Vanessa a staccarsi per prima, a cambiare bruscamente discorso. Si è fatto il momento di andare, la manifestazione sta per cominciare.

{ Sei preoccupato? Sí. Non succederà nulla di grave, sono dispersi, ognuno in una città; fosse nella capitale, mi preoccuperei al piú di qualche carica, ma non ci saranno massacri. }

«Sei offesa?» Adele segue senza problemi il passo spedito con cui Vanessa fende la folla che comincia ad organizzarsi; vi è qualcosa nel modo in cui la compagna evita il suo sguardo, nel modo in cui non le rivolge la parola, limitandosi invece a salutare gli amici che incontra fendendo con manifesto entusiasmo la piccola folla che comincia ad organizzarsi prima della marcia.

Vanessa si ferma di colpo, Adele la evita appena. «No, non sono offesa.» il suo tono è quasi spazientito, e la risposta sembra essersi esaurita cosí prima che la giovane torni a parlare: «Sono … imbarazzata.»

«Imbarazzata?»

«Sinceramente, l'immagine mentale di …» e qui Vanessa abbassa la voce in un bisbiglío per non far sentire dalla gente intorno «di una ragazzina di quattordici anni che si masturba contro la schiena di uomo» e torna a parlare normalmente «mi mette a disagio.»

«Oh.» Adele è quasi stupita; Vanessa si rimette in moto, la ragazza torna a seguirla. «E quello è niente.»

Adele non sa esattamente cosa la spinga a quel commento. Non ha un esplicito desiderio di scandalizzare la compagna, pur non potendo negare che il turbamento suscitato dalle sue parole le doni un sottile, forse un po' sadico, piacere; sospetta però che vi sia qualcosa di piú sotto quel turbamento, che non sia tanto lo scandalo per la situazione descritta, quanto l'imbarazzo per l'effetto che il racconto della stessa ha in reatà avuto.

«No.» Vanessa si ferma di nuovo «Non lo voglio sapere. Ho capito. Non ho bisogno di altri dettagli. Non è …» le parole muoiono, mentre lei cerca il modo migliore per esprimersi «Non è bello.» È corrucciata «Non è una bella storia, e se la serenità con cui ne parli è una cosa molto positiva, sembra anche manifestare che …» si tortura le mani, conscia di quanto possano essere prese male le sue parole «che tu non ti renda conto delle implicazioni.»

Adele la guarda sorpresa, poi china il capo, si porta una mano alla fronte; di nuovo con questa storia. Immagino sia inevitabile, si dice, che gli altri la percepiscano in questo modo. Sospira.

«Va bene. Certo. Perché è inconcepibile che a quattordici anni si possa avere la maturità di scegliere cosa fare del proprio corpo, della propria vita.»

«Non è … non è quello che intendo; ma è … direi probabile, ma vista da fuori è sinceramente evidente che … voglio dire, tu stessa hai detto che l'hai fatto solo perché sentivi il bisogno di essere accettata da lui.»

«Non ho detto che è stato solo quello; è stato quello a farmi … a farmi ricredere sul mio atteggiamento ostile nei suoi confronti, sí; ed è anche stato il motivo per cui lui inizialmente mi ha rifiutato. No, non è stato solo per quello, ma è stato quello ad avvicinarmi a lui. Peraltro solo finché non mi sono resa conto che era assolutamente superfluo, cosa che è stata prima che finalmente lui mi assecondasse. E insisto su questo: che lui assecondasse me, non viceversa.» Scuote il capo «È inutile, lasciamo perdere. Mi rendo conto che è una … situazione troppo … anomala, incomprensibile, inaccettabile. Va bene, va bene lo stesso.»

Vanessa ha un'aria delusa, ferita, scoraggiata. «Mi dipiace che tu la preda cosí, come … come un rimprovero. Io sono genuinamente preoccupata che tu possa essere in una situazione in cui tra cinque, dieci, quindici anni, a mente piú fredda, magari dopo esserti un po' allontanata, anche fisicamente, da … dalla situazione che stai vivendo, ti ritrovi a pensare “che cazzo ho fatto della mia vita?”.»

«Ma quello potrebbe succedere anche se fossi una trentenne che ha vissuto dieci anni in una relazione con una persona violenta, sentendomi perennemente in colpa per avergli fatto perdere le staffe.» Vanessa guarda Adele stupita, ma lei continua imperterrito «Non ti dimenticare che vivo circondata da donne con storie passate di tutti i tipi. E sono una divoratrice di storie. E visto che stiamo parlando di loro, ti ricordo che sono persone adulte e mature con le quali il mio mentore ha abitualmente rapporti sessuali; credi davvero che il suo interesse primario possano essere le preadolescenti?»

A stupire Vanessa è soprattutto la foga con cui Adele difende la propria situazione, una foga che non fa che rafforzare i suoi sospetti. Solleva lo sguardo al cielo, come a chiedere ispirazione. «E queste donne» chiede con calma «non hanno niente da ridire.»

«Non posso dire che la maggior parte di loro approvi. Abbia approvato.» Adele risponde con una smorfia; Vanessa la guarda incoraggiata, incoraggiante, come ad invitarla a riflettere su quella circostanza, ma Adele non sembra cogliere, distratta dai proprî ricordi: «Una di loro» ed il suo tono si è fatto mesto, nel clamore del corteo Vanessa le si deve avvicinare per poter sentire piú chiaramente il seguito: «ha vissuto quasi dieci anni nelle grinfie del padre e dei suoi compari, sottoposta ad ogni forma di abusi. Quando è riuscita a scappare, non aveva nemmeno il coraggio di guardare le persone in faccia quando le parlavano, non aveva nessuna …comunque, lei non l'ha presa bene, affatto, no no.» Adele scuote il capo, a rimuovere i ricordi emersi «Non c'è stata coercizione nel mio caso, non c'è stato adescamento, non c'è stato proprio nulla da parte del mio mentore, se non forse attrito, resistenza.» Adele sospira «Eppure rimane impossibile da credere, che non sia stato un abuso.»

«Mi dispiace,» interiene Vanessa «credimi, non è cattiveria; ora dirò qualcosa che ti farà arrabbiare ancora di piú, ma è troppo facile a quell'età, con quei rapporti di potere emotivo, psicologico, che le azioni siano guidate da scelte apparenti, che siano manipolate, indotte.»

Adele stringe i pungi. Sempre la stessa storia, una persecuzione. «Ho vissuto per anni con la coscienza che la mia vita non era mia, ma sempre dettata dagli altri, costruita dagli altri. Fai questo, fai quello. Si fa cosí, si fa colí. Vai lí, vieni qua. Impara questo. Mai io, mai le mie esigenze, mai i miei desideri. Eppure la prima volta in cui sono stata io a decidere della mia vita, è una manipolazione. Non i quattordici anni prima, in cui non ho mai potuto scegliere, ma il primo momento in cui a scegliere sono stata proprio io.»

La foga di Adele si estingue improvvisa com'è nata. Il silenzio che cade tra lei e Vanessa viene immediatamente sommerso dagli slogan urlati dai manifestanti, e sono pochi gli attimi prima che la ragazza venga colta da un'epifania: «E tu ti senti in colpa per quello che è successo stanotte.»

«Sí, va bene? Sí.» la risposta di Vanessa è immediata, carica di rabbia «Mi sento in colpa, perché mi sono sentita come se … come se le cose siano andate come sono andate perché … insomma, mi sono sentito come se avessi approfittato della vittima di un abuso.»

«Abuso che non c'è mai stato.»

«Va bene. Ma spero che tu capisca che la cosa è … difficile da digerire.»

«Evidentemente.» Adele distoglie lo sguardo. La rassegnazione sta soffocando la sorda rabbia di poco prima. Incomprensione. Incredulità. È questo che la circonda, dovunque. Ed a farle male non è tanto la perplessità di Vanessa, che non dovrebbe essere poi tanto sorprendente, quanto quella delle Custodi che quella di Vanessa le ha ricordato: e se alla fine dell'opinione di qualcuno “là fuori” le può interessare relativamente meno, la mancanza di fiducia implicita in quella incredulità dentro la Casa l'ha ferita. Ed ancora, evidentemente, ne porta i segni.

Sospira.

Perché non posso essere quella che sono? Perché non posso manifestarmi per quello che sono? Perché devo temere il giudizio degli altri, e dentro e fuori?

Le verrebbe voglia di strappare il megafono al tizio che qualche metro piú in là dirige i cori, e urlare ai quattro venti «Sí, ho fatto sesso a quattordici anni, con il mio mentore, per mia scelta, mia. E non ho nulla di cui vergognarmi, nulla da temere.»

“Il mondo non può capire il nostro amore.” Pfft. Come se di amore si trattasse. E poi quell'altro stereotipo di certa produzione giapponese per ragazzi, com'è che era? Tsundere, certo. La mia vita in topoi della letteratura.

E poi si dice: Che senso ha prendersela cosí? A chi mai dovrebbe importare con chi lo faccio e quando? No. Non importa. Non importa a chi interessi, non importa perché gli interessi, o cosa ne possano pensare. Pazienza. Alla fin fine possono rimanere stupite, sconvolte, arrabbiate, deluse, ma non possono non accettare, non possono non rassegnarsi. Ed io posso vivere con il loro stupore, la loro rabbia, la loro delusione, perché io non sento di aver nulla da rimproverarmi, nulla di cui pentirmi.

Se da un lato questi sono pensieri che la rasserenano, dall'altro vi trova riflesse le radici di certi atteggiamenti del gan'ka: quel suo distacco da tutto, da tutti, quel suo sfrontato cinismo, quel sarcasmo con cui soffoca certi pensieri, persino il suo sociopatico motto: non ne valete la pena. Già il solo contemplare che in fondo in fondo il gan'ka possa non avere tutti i torti la fa rabbrividire: in che mondo vivremmo se tutti la pensassimo in quel modo? A darle sollievo è la coscienza che il misantropo pessimismo del gan'ka a lei sia giunto essenzialmente filtrato dalla positiva socialità delle Custodi, a riprova che anche nella totale disistima del genere umano si possa trovato la voglia —quali che ne siano le motivazioni— per costruire e supportare una tale comunità.

Eppure, anche all'interno di quella —selezionata— comunità, che le è sempre sembrata quasi fondata sul reciproco rispetto, sul reciproco supporto, certe scelte sono risultate difficili da mandare giú. Anche in un posto del genere attriti e conflitti non vengono a mancare. Sono dunque inevitabili? Davvero il meglio in cui si può sperare è la possibilità di riuscire a superare queste crisi? Perché non possiamo evitarle?

Guarda Vanessa, il suo profilo concentrato, forse contrito. Non partecipa ai cori, ma non le rivolge nemmeno la parola. Crisi? Presente, passata? Risolta, da risolvere? Ne vale la pena? E cosa ci facciamo qui, piuttosto che essere altrove, lontani dalla confusione, a chiedere, a chiarire? E davvero vorremmo farlo? Adesso? O è forse meglio cosí, aver qalcosa per giustificare i silenzi, l'altro a cui pensare?

Adele si sente cogliere dalla coscienza della vacuità di quella manifestazione. Cosa sperano di ottenere davvero? Cosa mi risponderebbero gli altri manifestanti se andassi da ciascuno di loro a chiedere perché è qui, cosa vuole, cosa pensa che gli altri vogliano, perché pensa che valga la pena richiederlo, se davvero pensa che manifestare poterà a qualcosa? Quanti di loro saprebbero davvero rispondere? Quanti sono lí perché ci credono veramente? Quanti perché si sono semplicemente lasciati trascinare?

E si odia nel farsi queste domande, sentendovi nuovamente l'eco di quelle che le ha posto il gan'ka, ed ella stessa si ritrova ora a chiedersi: perché sono qui?

«Se-Non-Cambierà-Lotta-Dura-Sarà.»

Slogan, ripetuti. Vecchi di chissà quanti secoli, tramandati di generazione in generazione, pervertiti dal passare del tempo, protetti dalla trascrizione, manipolati dall'uso, dagli abusi, pervertiti dagli interessi.

Riforme sociali.

Ma quanti di voi sarebbero davvero interessati a realizzarle? Quanto sareste disposti a spendere di vostro, della vostra vita, delle vostre risorse? O vi aspettate che siano quelli “dall'altra parte” ad accontentarvi? Cosa fareste voi se foste “dall'altra parte"?