La donna è ferma davanti ai cancelli, guarda curiosa oltre le sbarre, reclina il capo da un lato, poi dall'altro. Indossa una mantella, che la copre dalle spalle alle ginocchia, e stivaletti a mezzo polpaccio. La pelle in vista, dal cranio rasato ai polpacci, è fittamente tatuata.

Le Custodi la guardano con sospetto, da lontano, dalla sicurezza delle rispettive camere. La situazione è nuova, ed ora aspettano, curiose ed esitanti, che il gan'ka decida cosa fare.

L'uomo, dall'angolo del balcone, tiene lo sguardo fisso verso i cancelli. La Prima, al suo fianco, guarda alternativamente ora lui, ora la donna lí fuori. Nonostante la distanza renda praticamente impossibile distinguerne i lineamenti, la Custode ha la sensazione che l'uomo sappia chi sia quella persona, pur non essendo meno sorpreso di loro da quella visita.

Dopo un tempo infinito, senza distogliere lo sguardo dai cancelli, l'uomo finalmente parla. «Hiromi.» e la Custode è immediatamente al suo fianco; ma è alla Prima che ora l'uomo si rivolge subito dopo: «Portala nello studio.»

È con grande distacco e professionalità, con una calma che serve solo a nascondere il violento tumulto che la scombussola, che la Prima esegue l'ordine. Fermandosi in camera propria giusto il tempo di indossare qualcosa, raggiunge senza fretta i cancelli, la cui serratura scatta giusto un attimo prima che lei afferri una delle sbarre per aprirli.

«Il mio padrone La aspetta.» dice, con voce secca, alla nuova arrivata «Mi segua.»

La donna risponde appena con un cenno delle sopracciglia, quindi segue il passo deciso ma non affrettato della Prima fino all'ingresso della casa. Qui imita la propria guida, e con rapidi gesti si toglie gli stivali entrando.

Per i lunghi corridoi, su per le scale, la donna si guarda attorno con meticolosa curiosità. Se appena accenna a rallentare il passo, come attratta da qualcosa in particolare, la Prima si ferma, attende che l'ospite la raggiunga, per poi riprendere a camminare.

Non vi sono altre parole. I passi delle due donne si fermano infine davanti ad una delle innumerevoli porte, che la Prima apre con un gesto misurato, per poi richiuderla con la stessa professionalità alle spalle dell'ospite.

È solo a questo punto che la Custode lascia che un lungo sospiro le sfugga, sfogando la tensione che l'ha accompagnata finora. Le sue dita scorrono la superficie della porta, come a illustrare una curiosità che la spingerebbe ad origliare, a spiare su quanto succede in quella stanza, quindi la donna si ritrae, ed a passi rapidi torna nella propria camera. Se non altro, potrà sfogarsi con le altre sull'intranet, dove —ne è sicura— già imperverseranno domande e discussioni.

Oltre la porta, l'ospite ferma finalmente il proprio sguardo sul gan'ka. «Ehi.» sorride. L'uomo non sorride; non nasconde il proprio sospetto. «Ehi.» risponde.

La donna si guarda attorno, imperturbata dalla reazione dell'uomo. Il suo sguardo si sofferma su Hiromi, seduta a gambe incrociate su un largo mobile basso poggiato contro una parete, opportunamente posizionato tra la porta dalla quale l'ospite è appena entrata e la scrivania dietro cui siede il gan'ka. La donna osserva attentamente gli indumenti della Custode, che lasciano scoperta solo una piccola fascia intorno agli occhi; i loro sguardi si incontrano, quindi quello dell'ospite torna a vagare per la stanza, per perdersi infine oltre la grande finestra che dà sul parco attorno alla casa.

«Bel posto.» commenta; torna a guardare il gan'ka, forse aspettando una risposta. «Bella sistemazione.» lo sguardo della donna torna alla finestra, e nell'assenza di risposta: «Dev'essere costato una fortuna.»

«I risparmi di una vita.»

La donna si volta di scatto alle parole dell'uomo, come sorpresa —non si capisce bene se per il fatto che il gan'ka abbia finalmente risposto, o se per il significato di quelle parole. Poi scoppia a ridere, una risata piena, genuina. Anche l'uomo accenna un sorriso, poi torna subito serio.

«Perché sei qui?»

La donna diventa seria di botto, poi quasi imbronciata, offesa. «Noioso.» Ma non risponde alla domanda. Volteggia su se stessa, lasciando che la mantella si gonfi in una campana. «Ti spiace se mi metto comoda?»

«Fai pure.»

L'ospite si sfila la mantella in un unico gesto, rimanendo completamente nuda. Muovendosi con mirata lentezza, come per lasciarsi studiare, volta le spalle all'uomo, raggiunge l'appendiabiti vicino alla porta, vi affida la mantella, quindi torna a voltarsi verso l'uomo, muove un paio di passi per cercare una posizione piú centrale, allarga le braccia, come a dire “be'?”

Il suo corpo è tonico, se non piú giovane; le si potrebbero dare forse una quarantina d'anni. Un unico, intricato, tatuaggio percorre la sua pelle, lasciando solo parzialmente scoperti il viso ed i palmi delle mani. È su questi astratti ghirigori che lo sguardo del gan'ka si concentra.

«Come sono?» chiede infine l'uomo.

«Mah.» l'ospite si guarda non troppo convinta, torcendosi un po' da un lato un po' dall'altro come a cercare qualche segno particolare «Sinceramente, fastidiosi. Per la manutenzione, soprattutto. Dopo cinque, dieci anni al massimo fanno rifatti.» torna ad incrociare lo sguardo dell'uomo «E quello non è piacevole. Ma siamo molto avanti rispetto ai primi esperimenti. Nessun rigetto, nessun prurito,» articola le dita nell'aria «nessuna controindicazione, insomma. Però ecco, adesso siamo nella condizione per cui il corpo invece di rigettarli tende a riassorbirli.» sospira «E quindi ecco.»

Nel breve silenzio che segue, è come se qualcosa le tornasse in mente «Ma a parte il fastidio di doverci ripensare periodicamente, sono una gran soddisfazione.» e torna a sorridere «Tutto un altro mondo.»

Sotto lo sguardo vigile di Hiromi, l'ospite si avvicina alla scrivania, si accomoda su una delle poltroncine che la fronteggiano, ed accavallando le gambe conclude: «Letteralmente.»

Torna a scendere il silenzio, che stavolta si stira in uno stillicidio interminabile di secondi. Alla fine è ancora la donna a cedere, chiedendo, con tono divertito:

«Non mi offri niente?»

«Perché sei qui?»

L'ospite fa una smorfia, e nuovamente elude la domanda. «Non siete abituati a ricevere molti ospiti qui, vero?» Si guarda attorno nuovamente. L'uomo continua a fissarla, senza rispondere. La donna continua: «Una villa cosí grande solo per tre persone?» ed all'imperterrito silenzio dell'uomo «Suvvia.»

«Perché sei qui?»

«Per scambiare due chiacchiere. È tanto che non ci sentiamo.» ed al silenzio del gan'ka, la donna insiste: «E non è molto carino da parte tua lasciare che sia io da sola a tenere la conversazione. Cos'è, sei sconvolto, offeso perché ho violato la tua privacy venendoti a trovare qui? Ho invaso la tua riservatezza? Avresti preferito un posto piú … meno personale? Sarebbe stato piú adatto l'appartamento in città?»

L'uomo la fissa intensamente negli occhi, ma non reagisce alla provocazione. L'ospite regge lo sguardo, sorniona, prima di perdere nuovamente la pazienza al prolungato silenzio, alla mancanza di risposte.

«Sei diventato antipatico e asociale.»

«Non sono mai stato particolarmente socievole.»

«Non è vero. Siamo sempre stati tutti in contatto con tutti, anche tu, lo sai meglio di me, per aiutarci l'un l'altro, essere di supporto reciproco. E tu per primo hai dato una grossa spinta alle iniziative di allora per costruire questa rete.»

«Dalla quale non mi sono mai ritirato.»

«No, ma sei piú … distante. Piú distaccato. Intervieni raramente, contribuisci poco, condividi poco. Ci sei, ma è come se … come se non ci fossi, o come se non volessi esserci, se non per … le rare volte in cui vieni tirato in mezzo a forza, o per necessità. Quando è stata l'ultima volta che hai comunicato qualcosa tua sponte, che non hai detto semplicemente “me ne posso occupare io” o “fatto”?»

«Non dico nulla se non ho nulla da dire.»

La donna solleva lo sguardo al soffitto, come in preda alla disperazione. «Nulla da dire?» allarga le braccia «Nulla da dire su questo? Non è certo una cosa dell'altro ieri, non è certo perché non hai avuto il tempo di buttare giú due righe.»

«Eppure non hai avuto alcuna difficoltà a trovare il posto.»

«Ma ti rendi conto di quanto sia assurdo che si debba venire a sapere cose su di te piú dall'esterno che da te stesso?» Alla mancata risposta del gan'ka, la donna insiste: «È anche poco corretto nei confronti di noialtri, sai. Una mancanza di … reciprocità.»

«Siete a conoscenza dei miei lavori piú significativi, ed io dei vostri. Che voi poi preferiate diffondere ulteriori informazioni, per vostra scelta, non implica che io debba necessariamente accogliere positivamente l'abitudine, o parteciparvi.»

Interdetta, la donna si ritrae. Poi riprende: «Non è mia intenzione metterla in termini di ‘obblighi’; ma vorrei sperare che non sia nemmeno necessario ricordarti l'opportunità del sapere gli uni degli altri. Guardarci, proteggerci a vicenda.» La donna si volta verso Hiromi «Senza offesa,» torna a voltarsi verso il gan'ka «ma non mi sembra che tu prenda troppo sul serio quanto per noi possa essere facile diventare personaggi scomodi, o … obiettivi ambíti.»

Alla mancata reazione dell'uomo, l'ospite riprende: «O credi davvero che basti ‘ritirarsi’ discretamente in un angolo come questo? Spero di non disilluderti ricordandoti che se sei riuscito a metter su un posto come questo è solo perché te l'hanno lasciato fare, è solo perché sanno che non costituisce una minaccia.»

Il gan'ka sospira, reazione che suscita per un momento nella donna la speranza di esser finalmente riuscita a suscitare una reazione, ma al nulla che segue le sue spalle si afflosciano, ed ella stessa si trova a rispondere con un sospiro a propria volta. Si allontana dalla scrivania, per tornare a contemplare lo scenario oltre il vetro della finestra, un angolo in realtà non troppo significativo della tenuta su cui si trova la casa, un breve tratto di terra presto troncato dal roveto e dal muro di cinta.

La donna poggia la fronte, le dita aperte di una mano al vetro, chiude gli occhi, come ad ascoltare, forse aspettando.

«No, certo,» mormora «dopo tutto sarà proprio per questo che ti sei rinchiuso qui, no? Perché fosse chiaro che ti fossi ritirato.» Torna a voltarsi verso l'uomo «Perché non avessi piú nemmeno da pensare al fatto che ci sia gente fin troppo interessata a noi.»

Il gan'ka continua a seguire con lo sguardo l'inquieto agitarsi dell'ospite, ma persiste nel non dare incentivo alla conversasione, in attesa che venga finalmente fuori il vero motivo della visita.

«Sai,» insiste la donna «a volte penso che l'unico motivo per cui ci tengono ancora in vita è che tra le carte del progetto non siano riusciti a trovare quello che cercavano. E mi sorprende che non ci abbiamo rinchiusi in qualche laboratorio per cercare di fare reverse engineering delle manipolazioni a cui ci siamo lasciati sottoporre.»

Ancora silenzio. La donna riprende fiato, continua, lo sguardo perso nuovamente verso il soffitto: «Chissà quante menti hanno messo a lavorare sui nostri dati, alla ricerca delle formule, dei protocolli mancanti.» guarda l'uomo di sguincio, cercando di non farsi notare, ma l'espressione del gan'ka rimane imperturbabile «Eppure forse basterebbe un unico colpo di genio, da parte di qualcuno con dati sempre freschi, con accesso diretto a qualcuno di noi.»

La donna torna a guardare il gan'ka direttamente in faccia, ma l'uomo tarda a rispondere: è solo dopo un lungo silenzio che finalmente parla:

«Quasi tutto quello che sarebbe necessario, almeno in teoria, è già noto. Ma qualunque ipotesi, o ricostruzione, sul procedimento per attuare le necessarie modifiche ad un vivente richiederebbe nuove sperimentazioni per confermare la validità del protocollo. E con la guerra che i comitati etici continuano a fare su questo tipo di sperimentazione genetica, nessuno può muoversi liberamente in questo campo.»

«Ma un'esperta genetista, lavorando discretamente in un laboratorio secluso, potrebbe … avendo … soggetti disponibili …» è come se la donna avesse paura a completare la frase, e sperasse quasi che l'uomo la completi per lei. La resistenza dell'uomo le fa infine perdere la pazienza.

«È questo che mi fa andare in bestia. Ti credi diverso, superiore: non solo a loro,» e indica Hiromi «ma anche a noi;» porta la mano al petto «credi di poterti distaccare da noi per il semplice motivo di aver rifiutato di proseguire per la strada che avevi intrapreso. E perché poi? Per il tuo senso di sacralità nei confronti del tuo corpo, per la fobia alla sua manipolazione che ne deriva? Be', ho una notizia per te: sei il campione dell'ipocrisia: quello a cui ti sei lasciato sottoporre è molto piú di qualunque altra cosa potresti farci ora. Non sei il saggio che ha trovato il giusto equilibrio, sei il vigliacco che si è fermato al novantanovesimo cancello, che non sa trovare il coraggio di varcare l'ultimo. Non meriteresti nemmeno di essere chiamato gan'ka, non hai mai nemmeno provato a raggiungere percezioni che andassero oltre quelle che può segnalarti il tuo corpo. C'è uno spazio infinito tra l'immaginario creato per isolarci e persino me, che tra tutti sono quella che si è spinta piú lontano con la sperimentazione delle nuove MMI, ma tu hai avuto paura anche delle piú semplici.»

Si ferma a riprendere fiato, quindi riparte, sotto lo sguardo duro dell'uomo: «È per questo che ti sei isolato anche da noi? È per questo che hai cercato una strada nascosta, una vita segreta, indipendente? Hai paura che a restare troppo in contatto con noi potrebbe venirti voglia di provare una di queste ‘tremeeeende’» con voce vibrante agita le braccia in aria con le dita ad artiglio, mimando l'assalto di un mostro come si fa con i bambini «nuove possibilità? O sei alla ricerca di nuove scoperto delle quali noi non ‘meritiamo’ di essere resi partecipi? O forse no, sai quale potrebbe essere il vero motivo? Il desiderio di distinguerti, dell'essere unico, diverso dagli uni come dagli altri. Ma guarda, ripensandoci, forse di una tale meschina pochezza possiamo fare a meno. Lascia perdere, rimani sepolto nel tuo isolamento, goditi i frutti della tua …»

«Come si chiama?»

La domanda la interrompe bruscamente, interdetta. Passano pochi intensi minuti di silenzio. «Andrea.» risponde infine, la foga di prima ridotta ad un mormorio.

«Quanto ha?»

Un nuovo silenzio. «Sessanta… sessantasei. Sessantasette.»

«Lo sai che se anche potessimo, ormai non servirebbe a nulla? Non tornerebbe piú giovane.»

La donna lo guarda straníta. «Ma chi se ne …» sbotta, fermandosi subito. Abbassa lo sguardo, chiude gli occhi, si porta la mano alla fronte come a pararsi gli occhi da una luce fastidiosa «Tu e la tua … stupida» stacca la mano dalla fronte con un gesto secco «ossessione con il corpo.» Torna ad aprire gli occhi, gli punta addosso uno sguardo carico d'ira «Siamo piú d'un fascio di sensazioni, sai? Siamo una mente, un cuore; pensieri, sentimenti. Affetto. Amore. Ad alcuni di noi anche solo l'idea di perdere le persone a cui siamo legate realmente dolore

Si volta bruscamente, volgendo lo sguardo al soffitto. «Cribbio, che perdita di tempo.» torna a voltarsi verso di lui «La cosa peggiore che a te è successa è che qualcuno ha rotto i giocattoli con cui sfogavi le tue perversioni. Ti sei mai accorto che non erano semplicemente dei giocattoli, che erano delle persone?» il volto del gan'ka rimane una maschera di pietra, la donna insiste: «Le tue … com'è che le chiami tu? Non importa. Potrebbero sparire dall'oggi al domani, per qualunque motivo, e tu te la prenderesti solo se fosse … se qualcuno ne fosse responsabile, e solo perché avrebbero rovinato il tuo rifugio

La donna, stizzita, tira un pungo al nulla. Si ferma come a riprendere fiato, poi ricomincia.

«Ti credi speciale perché ti sei tirato fuori dal gioco dopo aver guadagnato l'“eterna giovinezza”.» virgoletta l'aria «Be', ho una notizia per te: sei mortale come tutti noi. Tutti. Noi,» e si tocca il petto «loro. Siamo tutti mortali. Ed è giusto che sia cosí. Tu hai preso la tua resistenza all'invecchiamento come una scusa per smettere di vivere. Ma il tuo ideale statico di eternità non è un sogno, è un incubo

Si avvicina nuovamente all'uomo, puntellandosi a braccia tese contro la scrivania, abbassando la voce:

«Cosa farai quando le tue beneamate … Compagne, whatever, invecchieranno, moriranno? Dovrai cambiarle, sai. Oh, ma certo, non sarà mica un problema, il mondo là fuori è pieno di potenziali candidate, personcine di grande valore che non hanno modo di dare il meglio di sé. E cosa mai ci sarebbe di meglio che prenderle in casa? Ne puoi anche approfittare per lavarti quel po' di coscienza che ti rimane, se te ne rimane. Meraviglioso.»

La donna si sporge ancora piú in avanti, abbassa ulteriormente la voce: «Ma siamo sicuri che il ricambio generazionale non darà una brutta scossa al tuo meschino senso dell'equilibrio?» Quindi si ritrae, quasi con disgusto.

È l'uomo a interrompere il silenzio che segue. Parla con calma, quasi con voluta freddezza, come ad amplificare il contrasto tra le sue parole e quelle, concitate, della donna.

«Avete paura di non essere abbastanza umani. E ciò è non solo patetico, ma anche pericoloso. Pensate davvero di stare contribuendo a costruire il “futuro”, ma il futuro di chi? Pensate davvero che anche uno solo degli enhancements per i quali fate da cavia saranno mai resi disponibili per “la gente”? A cosa pensate che miri la tecnofobia che viene coltivata da secoli? Il “futuro” che state costruendo è per pochi eletti, e nemmeno voi siete tra questi.»

«Non è vero, e lo sai benissimo. Il progresso arriva dovunque. È solo questione di tempo. E la tanto famigerata tecnofobia dalla quale ti fai spaventare è molto meno diffusa di quanto ti piacerebbe credere. Le nuove generazioni crescono immuni alla propaganda mirate alle vecchie. È la vita: rinnovamento.»

«Finché la nuova élite non prende il posto della vecchia, per costruire nuovi messaggi, non meno propagandistici dei vecchi. È una storia vecchia quanto l'umanità. Cambiano le forme, non i modi.»

«Eppure in tutto questo le cose cambiano. Persino i morti di fame di oggi possono contare su una qualità della vita migliore di molte élite dei tempi andati.»

«Eppure la piú parte degli uomini rimane schiava e succube della prepotenza dei pochi.»

«E devo sentirmi fare un discorso del genere da uno che gioca a fare il pascià, circondandosi» la donna evidenzia la frase con un gesto che spazza l'aria attorno a lei «della gratitudine delle schiave a cui ha dato l'illusione di una possibilità.»

«Illusione?»

«Queste donne non hanno bisogno di te quanto tu hai bisogno di loro. Tu potresti sparire domani, e la vita qui dentro continuerebbe come è stata finora. Non sei il collante magico che tiene insieme questa comunità, sei solo il parassita che ne raccoglie i frutti. Ma se loro sparissero domani, cosa ne sarebbe della tua vita?»

«Tornerebbe ad essere quella che è stata per anni. Non nego che questo mio progetto mi abbia donato maggiore serenità ed una vita piú comoda: dopo tutto, è proprio il motivo per cui l'ho messo su; ma non sarebbe per me un problema tornare alla mia vita di prima. Se non c'è equità nello scambio, è semmai a mio sfavore: quante di loro tornerebbero con serenità alla propria vita di prima? È facile parlare di illusione, ma la verità è che io ho creato un futuro diverso, e non esito a dirlo migliore, per queste donne. Sí, mi ce ne lavo la coscienza, e fieramente: ho creato un nuovo futuro a persone che possono toccarlo già da ora con mano. Se vogliamo parlare di illusione, perché non torniamo a parlare del futuro che stareste costruendo voialtri? Sostieni pure che io abbia sacrificato la mia umanità per fare quello che sto facendo; almeno non ho sacrificato il presente per un futuro che nessuno vedrà. E se è questo che l'umanità fa fare, sono ben lieto di averla sacrificata.»

«È con queste parole che soddisfi il tuo delirio superomistico? Tu non vivi nel presente. Noi viviamo nel presente. Tu vivi in una bolla che ti sei creato intorno per difenderti dal presente. E credi davvero di aver fatto qualcosa di speciale? Il mondo è pieno di comunità di supporto reciproco. E lo sai qual è la differenza tra questa e quelle? Che in quelle manca il despota parassita.» ed è l'apice del crescendo della donna, a cui segue un crollo improvviso «Cribbio,» e si porta nuovamente la mano a coprire il viso «cosí sembra che io ce l'abbia con te per quello che fai,» la mano spazza l'aria come a mandare qualcosa dietro le spalle «per quello che hai fatto. E non è per questo, e lo sai benissimo. È per il tuo isolamento

L'uomo coglie il respiro di pausa della donna per ribattere. «Sai qual è la differenza tra questa comunità e quelle? Che nel giro di 10 anni, una generazione al massimo, quelle saranno sparite nel nulla, o saranno state pervertite nell'opposto di quello che avrebbero dovuto essere.»

«Può darsi, ma non importa, perché come ne moriranno, cosí ne nasceranno di nuove, e nell'arco della loro —per quanto breve— esistenza faranno il possibile. È questa la differenza. Queste comunità esistono perché esiste gente disposta a fare tutto quello che è in loro potere per creare un mondo migliore, per sé e per gli altri.»

«È su questo piano che vuoi metterla? “La fiamma che brilla due volte piú intensa brilla due volte piú in fretta”? Non è una metafora felice. Immagina di essere perduta, in una caverna, nella piú totale oscurità, senza alcuna speranza di trovare l'uscita. A tentoni, trovi finalmente una possibile sorgente di luce. Cosa speri che ti dia, un lampo improvviso, intenso quanto breve, o un fioco barlume almeno apparentemente eterno?»

«That's not the point. È il motore, il desiderio di creare un mondo migliore. Se quelle comunità vengono pervertite, è perché finiscono nelle mani di chi le sfrutta con egoismo per perseguire il proprio interesse.»

«La fine di tutto ciò che è fondato sulle buone intenzioni, sull'ingenuo idealismo del bene collettivo.»

Si fissano negli occhi per lunghi secondi, ed è infine la donna a rompere il silenzio: «Sei senza speranza.» Ed il tono potrebbe essere disperato, o forse, piuttosto, triste.

«Vengo da una storia diversa dalla tua. Ho visto e vissuto cose diverse. Non so piú che farmene delle delusioni, delle illusioni che le causano. Se posso scegliere —e posso— tra le migliori intenzioni soffocate dall'indifferenza collettiva —o peggio pervertite nei peggiori strumenti di prepotenza e dominio— ed un sano egoismo con positivi effetti collaterali, sta' sicura che continuerò a preferire il secondo, per quanto limitata possa essere la sua portata, per quanto spregevole possa essere la sua intenzione, per quanto possa essere destinato a fallire per la mortalità dei proponenti.»

«Dispotismo illuminato? È questo che proponi? Per ogni despota illuminato, quanti tiranni sanguinari ha prodotto il mondo? Per ogni popolo che guarda con sincera gratitudine a chi lo domina, quanti ve ne sono che piangono e soffrono? O sei tra quelli che pensa che è nell'equilibrio tra gli egoismi di ciascuno che sta il segreto della felicità di tutti?»

«Ritengo semplicemente che la specie umana, come praticamente ogni altra specie animale, sia fatta da succubi e padroni, e che tentare di sovvertire questo stato di cose sia un inutile spreco di tempo, energia e risorse.»

«Non puoi davvero pensare che non possa essere diversamente da cosí. Sai bene quanto me che la tecnologia può essere un potente strumento di livellamento, e non solo uno strumento di potere. O hai già dimenticato, o peggio, rinnegato, i tuoi contributi?»

«Ho fatto quello che ho fatto, faccio quello che faccio, secondo il gusto e l'intenzione del momento, non in nome di un'etica superiore. Non miro a sovvertire il potere, o l'ordine sociale. Alcune mie creazioni possono essere usate contro il potere, o per nascondersi da esso; ben venga tutto ciò, ma non è per questo che vi ho lavorato. Sí, la tecnologia potrebbe essere un potete livellatore sociale, ma piú spesso è solo uno strumento per amplificare le differenze, o semplicemente far cambiare di mani il potere: chi ha accesso a questa tecnologia? Fino a quando? Ed alla fine, come la tecnologia venga usata dipende sempre e solo dalla natura umana. Che è la stessa da migliaia di anni, e per altre migliaia tale rimarrà.»

L'uomo prende fiato, prima di tirare le conclusioni:

«Fra mille, duemila anni, quando il mondo non avrà piú le risorse da cui la nostra tecnologia dipende, e la civiltà come la conosciamo sarà collassata, regredendo allo stato preindustriale, mi piacerebbe che tu venissi a trovarmi nuovamente, per dirmi che in effetti avevo ragione. Se sarai sopravvissuta.»

«Se io sarò sopravvissuta? Fra mille, duemila anni? Va be', ma tu sei fuori di testa.» la donna si volta, si dirige verso la porta «È stata una completa perdita di tempo.»

Ha appena finito di indossare la mantella che la voce dell'uomo la raggiunge:

«Oh, non direi. Hai comunque avuto modo di vedere quanto le notizie che avevi, o avevate, raccolto su di me fossero accurate.»

La donna torna a voltarsi verso l'uomo, sorpresa. «È questo che pensi? Che sia venuta a spiare

«Non dico che tu sia venuta per quello, ma perché non cogliere l'occasione per colmare le lacune?»

La donna chiude un attimo gli occhi, sospira, li riapre. «Perché questa ostilità, G? Perché questo antagonismo? Va bene, lo riconosco, ho detto cose sgradevoli, ho ceduto all'esasperazione a cui mi ha portato il tuo ostruzionismo, ho cercato di provocare una reazione almeno insultandoti. Niente. Sei una causa persa. È l'isolamento che preferisci, il silenzio? Ti lasceremo solo, in silenzio.»

La donna torna a voltarsi verso l'uscio, e nuovamente si ferma quando l'uomo torna a parlare:

«Donna, ricordati che siamo mortali.»

Di nuovo, la sorpresa porta la donna a girarsi: «È una minaccia? Mi stai minacciando

«Sto rispondendo al tuo ricatto. Io non ho chiesto silenzio, non ho chiesto isolamento. Non ho chiesto nulla. Sei tu, o chi per te, ad aver avanzato delle richieste, per mutare lo statu quo in un senso che non mi è gradito. Ora la minaccia è di mutarlo comunque, in senso opposto, e la cosa non mi è gradita nemmeno; di piú, mi è sospetta. È da troppo tempo che le cose vanno avanti senza intoppi perché si possa desiderare che cambino cosí, dall'oggi al domani. Mi auguro che le tue intenzioni siano state sincere, che non ti sia lasciata manipolare cedendo alla fragilità degli affetti che finirai col perdere.» la donna stringe le labbra alle parole dell'uomo, ma questi continua, imperterrito «Sta' sicura che se avessi avuto importanti novità da condividere le avrei condivise, anche nel sospetto che ben altri occhi potessero avervi accesso. Non voglio che vi sia ostilità tra di noi, ma sappiate che se si dovesse arrivare a tanto, sono in grado di difendermi, ben oltre quello che pensate di sapere.»

Non c'è rabbia nelle parole dell'uomo, né minaccia. Semmai, dietro il velo della determinazione, si può leggere una certa delusione, forse un po' di tristezza. La donna chiude gli occhi, volta le spalle al gan'ka, si poggia allo stipite della porta, respira a fondo.

«Se hai …» ricomincia l'uomo.

«No.» la donna lo interrompe immediatamente «No, non importa.» eppure rimane immobile dov'è, non si capisce se in attesa, o per recuperare il controllo, o le forze. «Non importa.» Sospira «È tutto sbagliato, è sempre tutto sbagliato. C'è sempre qualcosa che va storto, che non va come dovrebbe andare. È normale. Non importa.» Le sue labbra si muovo a vuoto, quindi la donna si raddrizza, riapre gli occhi. «Non importa. Va bene.» Si volta di scatto, di nuovo in preda all'ira «Tu credi di sapere tutto, vero? Ti sei già immaginato tutti gli scenari possibili, ti sei costruito tutte le storie che possono esserci dietro, ti sei convinto di aver indovinato tutto quello che ti interessava indovinare sulla mia visita, sei giunto alle tue conclusioni, e tutto quello che verrà detto o fatto lo farai incastrare nella tua personale interpretazione, nella piccola fantasia che hai costruito. Sei uno psicopatico. E qualunque cosa ti si possa dire, servirebbe solo ad arroccarti ancora di piú nella tua posizione.» Scuote il capo «Senza speranza.»

«Vattene.»

«Me ne vado, me ne vado, ho già perso abbastanza tempo qui.» La donna afferra la mantella, esce in corridoio «Non preoccuparti, conosco la strada.»

Il passo deciso, anzi rabbioso con cui la donna ha lasciato la camera rallenta progressivamente, diventando titubante, fino ad arrestarsi completamente; l'ospite si guarda intorno, non riconoscendo piú i corridoi, conscia di aver preso almeno una svolta errata.

Con fiero cipiglio, ripercorre i proprî passi fino all'ultimo incrocio, e qui si ferma nuovamente. Alla rabbia in cui l'ha lasciata la discussione con il gan'ka si sostituisce ora la frustrazione di non ricordare nemmeno la strada da cui è venuta. Sospira, ispira a fondo, cercando di schiarirsi le idee.

C'è qualcosa in quell'ambiente che la confonde, la distrae, una nebbia che la avvolge, un rumore di fondo che le impedisce di pensare chiaramente, nonostante il problema da affrontare sia banale, giacché sa da dove è appena tornata, vede chiaramente la larga finestra su cui termina il corridoio, e rimangono quindi due sole direzioni tra cui scegliere, ed è ben probabile che da entrambe si arrivi infine alle scale che cerca.

Senza piú la convinzione né la rabbia di prima, la donna prende infine una scelta, fino all'incrocio successivo, arrivata al quale si trova davanti una ragazzina, sorpresa quanto e piú di lei dall'improvviso incontro.

«Ah,» le fa mormorare la sorda rabbia che cova ancora per il gan'ka «l'ultima povera vittima del pervertito.»

Adele non prende bene il commento della donna. «Non sono la vittima di nessuno.» ribatte, con un tono non scevro di un certo orgoglio.

«Credici, bambina.»

«E non sono una bambina.»

La donna è scossa da un breve scoppio di risa. «Ah, posso immaginare.»

«No, non puoi.» Corrucciata, Adele si chiede chi sia questa donna, cosa voglia da lei.

«Credimi, bambina, non hai idea di cosa io possa immaginare.» insiste la donna, ed il tono con cui le parla alimenta in Adele un misto di sensazioni, come se al contempo quella sconosciuta la commiserasse e la prendesse in giro; la ragazzina si trova a stringere i pugni, mentre la donna continua, quasi con sussiego. «Conosco fin troppo bene il tuo padrone, le sue …»

Senza quasi rendersene conto, Adele sferra un pugno; il gesto impulsivo la proietta contro la donna, che evita senza sforzo l'impatto, afferrando poi subito la ragazzina per le braccia, sollevandola di peso e sbattendola contro il muro.

«Non ti azzardare mai piú a fare qualcosa del genere.» la donna la guarda fisso negli occhi, protesa in avanti, apparentemente pronta a staccarle la testa con un morso.

«Almeno io non devo sfogare la mia frustrazione prendendomela con una ‘bambina’.» risponde Adele, reggendo lo sguardo con altrettanta rabbia.

«Ti diverte giocare col fuoco?»

La donna ha appena concluso di enunciare la minaccia che sente due dita poggiate fermamente alla base della propria nuca, e la voce del gan'ka: «Lasciala.»

Appena libera, Adele sguscia via da sotto la mole della donna, ed è piú spaventata ora che vede i guanti avvolgere le mani del'uomo che durante il breve confronto con l'ospite. Rimane immobile, lasciando che le scuse che stava per dare le muoiano in gola.

La donna allunga le braccia per poggiarsi al muro, il respiro pesante di chi cerca di riguadagnare il controllo, chiude gli occhi ed attende. Con una smorfia accoglie l'ironia della minaccia fatta alla bambina senza cogliere quanto fosse piuttosto lei a stare giocando con il fuoco. Le spalle le si afflosciano, ed anche dopo che il gan'ka allontana le proprie dita, ella rimane immobile.

«Va' via, Adele.»

«Io …»

«Va'. Via.»

La ragazzina si volta, corre via, lasciando il gan'ka con la donna.

«Vuoi spiegarmi?» le chiedo, cercando di mantenere il tono piú neutro.

Donna scuote il capo, mantenendo la posizione. «Non lo so nemmeno io. Non credo di sentirmi bene. C'è qualcosa qui, che mi … non lo so, che mi ottunde la mente.»

Annuisco, benché lei non possa vedermi. Posso facilmente immaginare che sia la schermatura a renderle tutto piú difficile, piú pesante. La stessa schermaura che ha reso inutile l'incursione del drone che stavo giusto andando a ripescare.

Può darsi che la concomitanza di questi eventi sia solo una coincidenza, che Donna sia venuta di propria iniziativa, e che sia capitata qui giusto poco prima che qualcun altro avesse la ‘brillante’ idea del drone; o può darsi che Donna non sia venuta interamente di propria iniziativa, e che il drone fosse inteso di supporto. Vorrei poter pensare che la prima ipotesi sia quella giusta, ma non riesco a togliermi dalla testa quanto la seconda —per quanto paranoica— possa non essere poi tanto lontana dalla verità.

Posso anche credere nella buona fede della mia consimile, posso sperare che si sia lasciata convincere che fosse una buona idea, anche se non so se non sarebbe piuttosto meglio credere ad un'ipotesi di ricatto, o entrambe le possibilità.

La cosa piú grave? Che nonostante il modo in cui ella si sia sfogata con me, le sue improvvise quanto frammentate reticenze mi fanno credere che non si sentisse libera di parlare. Se anche insistessi nel chiederle se ha bisogno di aiuto, posso scommettere che tornerebbe ad essere evasiva, o aggressiva in difesa di circostanze di cui non può parlare.

E per non sentirsi sicura di potermi parlare persino in questa casa, dove non può non essersi accorta di non poter comunicare con l'esterno, dove non può pensare che vi siano strumenti di registrazione se non quelli sotto il mio controllo …

Mi vengono in mente due possibili spiegazioni, e nessuna delle due mi è particolarmente di gradimento. Vi è la —remota— possibilità che i nostri dati non siano poi cosí al sicuro come mi piace pensare; oppure, è lei stessa a portare con sé il proprio strumento di sorveglianza.

Mi sentirei di poter scartare la prima ipotesi, per motivi che vanno dall'inutilità di questa pagliacciata all'inopportunità della visita del drone. E se da un lato questo mi consola —non gradirei non potermi piú sentire tranquillo nel mio piccolo angolo di mondo— dall'altro mi indispettisce pensare che potrei aver colto nel segno con le accuse che le ho lanciato poco fa.

Vorrei potermi dare del paranoico, piuttosto che cercare di trovare conferma di questa ipotesi nella sua reazione. Ed ora mi trovo a pensare che è partendo da questa ipotesi che devo decidere cosa fare.

Ho una mezza idea. Vale la pena provare? Nel peggiore dei casi, non farò che confermarle di essere paranoico, se non completamente pazzo; o nel migliore, piuttosto, giacché sarebbe il caso in cui i miei sospetti si rivelassero infondati. E se non lo fossero? Fin dove dovrei, potrei spingermi?

Chiudo gli occhi. Non mi piace la piega che le cose stanno prendendo. Troppe responsabilità. Potrei mandarla via e basta, sarebbe la cosa piú semplice: non un'altra parola, niente piú discorsi, niente promesse, niente minacce. Come se nulla fosse successo.

Maledizione.

La lunga attesa supera la pazienza che la donna si è imposta per riprendere il controllo. Quando finalmente si stacca dal muro per guardarsi intorno, l'uomo ha appena finito di confabulare con la sua guardia del corpo, abbastanza lontano da non farsi sentire con sufficiente chiarezza, ma non tanto da poter perdere lei di vista.

La Custode risponde con un cenno di assenso ed un appena percepibile «はい» prima di allontanarsi rapidamente. L'uomo si volge ora nuovamente all'ospite.

«Seguimi.» le dice, secco, accompagnando la parola con un cenno del capo; aspetta che la donna sia a pochi passi, quindi si incammina a sua volta lungo il corridoio.

Tornano nella stanza dove il gan'ka l'ha ricevuta. «La mantella.» le dice. La donna esita, quindi esegue, lasciando nuovamente il suo unico capo di abbigliamento appeso accanto alla porta. L'uomo intanto raggiunge la scrivania per prendere il tablet che vi giace sopra, quindi esce nuovamente con il corridoio, accennando alla donna di venirgli dietro..

Il percorso che seguono è lungo, tortuoso; raggiungono finalmente una rampa di scale, che non è la stessa da cui la donna è venuta. Scendono un piano dopo l'altro, senza fretta; alla luce del sole si sostituisce presto un'illuminazione interamente artificiale.

La donna esita piú volte, ma è ben conscia di non avere scelta, di essere ormai alla mercé dell'uomo. Ed è senza particolare sollievo che sospira quando infine questi si ferma davanti alla porta di quella che lei indovina essere la propria futura prigione.

Aperta la porta, il gan'ka le fa cenno di entrare. Donna esita un attimo davanti all'oscurità che la aspetta, chiude gli occhi a prendere fiato, e si decide infine ad affrontare il buio.

Si ferma dopo pochi passi, sorpresa dal sentire i passi dell'uomo dietro di lei. Si volta, mentre la porta si chiude tagliando via l'unica sorgente di luce.

La donna si guarda intorno, trattiene il respiro, in ascolto; riesce a intravedere appena la sagoma, immobile, dell'uomo, tra lei e la porta, ma la sensazione che possano non essere soli non trova conferma.

In quella stanza, il rumore di fondo che l'ha perseguitata da quando ha messo piede nella tenuta del gan'ka trova finalmente pace. Donna sospira piú sollevata. Il buio non le dà particolarmente fastidio, ed ella lo trova anzi consono all'isolamento a cui la schermatura di quell'edificio l'ha costretta finora.

Aspetta ora, in piedi, che il gan'ka le dica infine cosa intende farne di lei.

«Qui siamo isolati, completamente isolati.» è la prima cosa che gli sente dire.

«Lo so, lo sento.» risponde.

«Puoi parlare liberamente.»

Alle parole del gan'ka, Donna esita. «Non ho … nulla di cui parlare.» ribatte infine, senza riuscire a nascondere la titubanza nella propria voce. Poi riformula, stavolta con voce piú ferma: «Ho detto tutto ciò che avevo da dirti.»

I secondi di silenzio, l'immobilità dell'uomo, la sua ostinazione sono snervanti per l'ospite. Quando infine il gan'ka insiste:

«Se hai bisogno di aiuto …»

«No!» ella sbotta in un grido improvviso «No, basta! Lasciatemi in pace! Lasciami in pace!»

Il silenzio che segue, l'ostinata immobilità dell'uomo nell'oscurità non fanno che amplificare la sua esasperata frustrazione, ma non le rimane altro da fare che attendere. Ed il gan'ka torna alla carica:

«Donna, davvero, puoi parlare liberamente. Nessuno saprà mai quello che mi dirai qua.»

E la donna si trova a desiderare che l'oscurità sia meno fitta, che il suo interlocutore possa almeno intravedere l'angoscia sul suo volto, che possa indovinare dalla comunicazione non verbale che la cosa non è cosí semplice.

«Donna.»

«Lasciami in pace.»

L'uomo fa un passo verso di lei nell'oscurità, e la donna ha appena il tempo di mettersi in allerta prima di sentire la puntura al braccio, improvvisa e istantanea. Si volta di scatto ad afferrare l'aggressore, ma la sua presa trova solo il vuoto. Un attimo dopo il mondo le scivola via da sotto i piedi.

La raccolgo tra le braccia mentre perde conoscenza. Pesa. «Luce.» ordino. Il soffitto della stanza si illumina. Hiromi è lí accanto a me. La porta si apre, entra la dottoressa, che subito mi raggiunge per verificare lo stato di Donna. La Prima ci raggiunge subito dopo.

La dottoressa sospira. «Sembra a posto. Spero che non vi siano problemi con …» non sa nemmeno come continuare, esita «… la roba che ha …»

«Lo vedremo presto.»

Mi aiutano a sollevare la nostra ospite, a portarla qualche stanza piú in là, ad adagiarla sul tavolo operatorio. La dottoressa le comincia a piazzare sensori un po' ovunque, fronte, collo, petto. «Non so nemmeno se devo aspettarmi i soliti valori.» lamenta frustrata. Non le do retta, so che saprà arrangiarsi.

«Chiamatemi Ivana.» chiedo, mentre serro le cinghie che eviteranno che Donna possa alzarsi, dovesse riprendere coscienza.

«Come preferisci, Ivana.»

È il momento piú inopportuno per una tale freddura, eppure la Prima non riesce a trattenere uno sbuffo, incrinando la tensione che si protrae dall'arrivo di Donna. Vorrei guardare la dottoressa, responsabile della battuta, per rimproverarla, sapendo già che sarà inutile.

La risata in cui finiamo per degenerare in coro mi dà un certo sollievo, per quanto effimero; ma basta che lo sguardo torni a cadere sul corpo immobile di Donna sul tavolo per ritrovare la cupa sensazione di prima. Non mi piace la situazione in cui mi sto infilando, non mi piacciono le implicazioni, non mi piacciono le conseguenze.

La dottoressa ha appena finito di preparare la nostra ospite che questa si risveglia di soprassalto, in un ansimare profondo, come avesse appena ripreso a respirare. C'è del terrore nei suoi occhi, allo scoprirsi legata ad un tavolo operatorio dopo essere stata drogata. Il suo sguardo incrocia il mio. Non so se vedermi le dà un po' di tranquillità, ma certamente le dà la forza di mormorare:

«Sei pazzo.»

«Può darsi.» rispondo; ma non ho voglia di fare discussioni. Mi serve che Donna dorma, ed è evidente che tra le altre cose è equipaggiata per contrastare la narcosi. Lascio alla dottoressa il compito di trovare una soluzione, ed esco dalla sala. Ho degli attrezzi da recuperare, ma soprattutto ho bisogno di un attimo di riflessione.

Hiromi mi segue. La ringrazio, le dico che non ho piú bisogno del suo aiuto, lei mi saluta con il suo solito inchino, e se ne va.

Rimango solo, respiro a fondo. Forse è vero, sono pazzo; e continuo a ripetermi che in fondo sarebbe meglio, perché l'alternativa è molto piú sgradevole. La cosa peggiore è non sapere cosa potermi aspettare: ho una vaga idea delle possibilità, ed un orribile presentimento su quanto potrà andare storto, ma non so in concreto fin dove i miei sospetti troveranno fondamento.

Peggio, non so nemmeno se avrò modo di confermarli. Donna parlava di nuove tecnologie; quanto saranno compatibili con le vecchie? Potrò interfacciarmi con quei maledetti tatuaggi?

Sospiro. Non aveva torto a rimproverarmi del mio distacco. È vero, il mio interesse per l'evolvere della cosa è diminuito; ho seguito i progressi che venivano pubblicati o discussi tra noi, ma in maniera sempre piú superficiale. Ed ora mi ritrovo a dover riprendere tutto in mano.

Mi siedo per terra, il tablet sulle gambe sollevate, a sfogliare tutto il materiale che abbiamo sull'argomento.

A distogliermi dalla lettura è la presa di coscienza della presenza di Ivana, ferma in piedi accanto a me da chissà quanto tempo. Sollevo il capo per incontrare il suo sguardo assonnato dietro quegli occhi di ghiaccio, il broncio che mi tiene per averla disturbata. So che presto sarà troppo presa da quello che ci aspetta per poter volermene ancora, ma per il momento sono ancora a rischio che decida di sbattermi in faccia il portatile che tiene sotto il braccio.

«Grazie,» le dico alzandomi. Per tutta risposta, lei si gratta una natica, per poi sventolarmi un mazzo di cavi a pochi centimetri dalla faccia. Non riesco a trattenere un sorriso. Mi ha risparmiato un viaggio.

Quando entriamo nella sala, Donna è ancora sveglia, ma è evidente che stanno aspettando noi per cominciare l'anestesia. La dottoressa provvede mentre Ivana si va a piazzare in un angolo per montare il proprio portatile su una scrviani e preparare i cavi.

Nei minuti che seguono, mentre la nostra ospite perde conoscenza, non posso fare a meno di chiedermi se e di cosa hanno parlato durante la mia assenza, o se la presenza della Prima —anche lei seduta in un angolo, in attesa— ha avuto un'influenza o meno.

Quando Ivana porta gli estremi liberi dei cavi fino al tavolo operatorio mi accoscio con lei per aiutarla ad identificare i connettori sulla nuca di Donna, gli stessi punti che ho minacciato di friggere durante il suo alterco con Adele. Ivana li guarda con attenzione, li confronta con gli schemi che segnato sul tablet, controlla, ricontrolla, ed infine procede.

Ci rialziamo, la seguo alla scrivania, la lascio lavorare mentre effettua i primi tentativi, limitandomi ad osservare il suo lavoro da dietro le spalle. Mi chiedo se ha mai lavorato con qualcosa del genere, che tipo di emozione possa provare se è la prima volta che si ritrova ad interagire con un tatuaggio bionico, cosa si aspetta, cosa si immagina.

Vorrei avere anch'io la sua freschezza, vorrei non aver visto la cosa evolvere iterazione dopo iterazione, vorrei aver sentito mai una qualche intensa emozione all'idea di una cosí intima interfaccia tra l'umano e la macchina, qualcosa di piú che il semplice apprezzamento per la potenziale comodità della cosa.

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