«Da dove viene il termine, gan'ka?»

«Un progetto di ricerca. Siamo … ormai sono due secoli, forse di più. Il progetto vuole compiere il passo successivo nella ricerca sull'intelligenza artificiale, lo studio dei concetti di anima, spirito, queste cose così.

«Come la ricerca dei secoli precedenti sull'intelligenza artificiale era stata una spinta immensa nel chiarire il significato stesso di intelligenza e di studiarne la natura e le forme anche in quella naturale, lo scopo di questo progetto era fare lo stesso per una qualità ancora più effimera, sfuggente ai criteri di analisi scientifica.

«L'iniziativa coivolge ricercatori, scienziati e tecnici dell'area mediterranea: biologi, chimici, fisici, ingegneri, ma anche, forse per la prima volta in maniera così trasversale, studiosi di storia, filosofia, religione.

«Il capofila è un ingegnere informatico egiziano espatriato e residente in Svizzera, ed il nome del progetto è GaN+Ka, dove GaN è la formula chimica per il nitruro di gallio, base della circuiteria elettronica che aveva ricevuto molta attenzione nel campo delle interfacce neuronali, e Ka è lo spirito umano nella tradizione religiosa dell'antico Egitto.

«Il progetto è di grandissimo respiro, larghissima portata, e si caratterizza in realtà come ‘programma quadro’ di lunga durata all'interno del quale cercare di raccogliere i più svariati progetti che potessero colmare il ponte tra fisica e metafisica, ma anche tra informatica e religione. Un robot può avere un'anima? Si può far migrare lo spirito di un essere vivente su un supporto artificiale?

«Per rispondere a tutto questo bisogna capire cos'è l'anima, cosa si intende per spirito; per i meno credenti, la domanda ruota su un cardine: è sufficiente, o necessaria, la coscienza del sé? Per gli altri, a seconda della fede religiosa, ci si chiede se e fin dove è necessario un intervento trascendente, divino, o avevano piuttosto ragione certe religioni animiste, che vedevano ogni parte dell'universo come intrinsecamente viva e dotata di uno spirito?

«Il progetto è rimasto schiacciato sotto il peso della crisi del '29, lasciando a bocca asciutta i rami più astratti; gli unici che sono sopravvissuti sono stati quelli con applicazioni più immediate alla robotica e all'interfaccia uomo-macchina, a scopi militari o commerciali.

«Se prima della crisi il gan'ka doveva essere, nelle intenzioni dei fondatori del progetto, il robot dotato di anima, il termine è poi slittato, dopo la crisi, a indicare l'essere umano snaturato della sua natura sociale, fuso con i computer piuttosto che con i proprî simili.

«C'è chi ha lavorato molto a questo immaginario, con lo specifico intento di isolare ulteriormente quelli che un tempo erano solo considerati degli sfigati senza vita sociale, coltivando una percezione di innaturalezza nei loro confronti che portasse la maggior parte della gente a diffidare di questi individui, a disprezzarli, accettarli solo per, e limitatamente a, la loro funzione sociale di operatori delle sempre più complesse reti informatiche su cui poggiano le fondamenta delle vite quotidiane moderne.»

«Dimmi cosa noti.»

Il video sembra un film, ma la qualità è piuttosto scadente.

Si vede un grande spazio, come un cortile in lieve pendenza. Una gran massa di persone lo percorre, dall'alto verso il basso. Si sente un gran vociare.

Parecchi metri davanti a questi, un gruppetto di forse dieci persone, più o meno l'una accanto all'alta, quasi a formare un cordone; si guardano spesso dietro, preoccupati, ma non accelerano il passo.

Più avanti di tutti, un giovane che sembra pattinare, con le semplici scarpe, sull'acciottolato senza cadere, sfruttando la perdita di attrito per scivolarvi sopra, scendendo rapidamente . Non si guarda dietro, incurante della baraonda che gli va montando dietro le spalle, come se fosse in quella scena per sbaglio, andando per i fatti suoi e solo per coincidenza nella stessa direzione della folla.

La luce è quella di una luminosa ma ovattata giornata invernale, quando il sole rimane nascosto dietro una sottile coltre di nubi che impedisce di vedere dove esso si trovi esattamente, ma non alla sua luce di illuminare pallidamente tutto.

C'è una sorta di canaletto di gronda che delimita un lato del cortile in pendenza; oltre questo canaletto, una scarpata coperta di erba conduce a edifici di vario genere; alcuni, quelli più vicini alla parte più alta del cortile, sembrano uffici o qualcosa del genere; quelli in corrispondenza della parte più bassa hanno un'aria residenziale.

Una casupola, anzi una tettoia su un ponticello, collega il cortile con la scarpata; il giovane vi arriva per primo, si ferma, vi poggia un piede come ad ancorarsi per evitare di scivolare ancora più in basso, finalmente si volta a guardare la gente più in alto, il cordone e la massa dietro di quello. Il suo sguardo è distratto, ma pensoso, come se stesse ponderando delle scelte, ma queste non fossero attinenti alla baraonda. Consulta dei dépliant che si ritrova in mano, ma rimane immobile lì, un piede sullo scivoloso cortile, uno sul primo gradino del ponticello con tettoia.

Dalla zona residenziale emerge un altro giovane; cammina lentamente, poggiandosi a delle stampelle, ed ha il volto tumefatto. Quando finalmente arriva al ponticello, anche la decina di persone che precede la folla vi è arrivato; già prima gli aveva dato segnali di allarme, qualche voce gli aveva detto «vattene, vattene!», un invito a fuggire, ma il giovane si è fermato in mezzo al ponte, ed ha semplicemente detto: «no, gli parlerò.»

La decina di persone che precede la forza si è disposta a semicerchio attorno all'ingresso del ponticello, ma non forma un cordone vero e proprio; nonostante questo, quando la folla sopraggiunge le si ferma dietro.

Ora che è ferma, disposta anch'essa attorno all'ingresso del ponticello, la folla non sembra nemmeno così numerosa; non arrivano a cinquanta persone. Il suo continuo chiacchiericcio è però quasi assordante; si capisce che se anche il giovane con le stampelle volesse parlare alla folla, avrebbe qualche difficoltà a farsi sentire.

«Silenzio!» l'ordine, perentorio, rimbomba spaventosamente sopra il ronzare della folla. Tutti tacciono di botto. Nella folla c'è qualche signora oltre i cinquanta che accenna un mormorio. Il giovane fermo con un piede sul ponte le fissa intensamente, e queste tacciono nuovamente.

Il gan'ka interrompe la riproduzione, spiega. Questo è il periodo dei movimenti studenteschi del '49. Si faceva un gran parlare di manifestazioni contro il potere, contro l'amministrazione, contro i controlli, contro tutto. Manifestazioni anche violente.

Qualcuno non era d'accordo. Perché alle manifestazioni sarebbero solo seguite risposte, ben più violente, da parte della polizia. Perché questo tipo di azioni e reazioni era esattamente quello che il potere si aspettava, per lasciare dare sfogo tanto ai manifestanti quanto alla voglia di violenza e repressione delle forze dell'ordine. I più critici e vocali oppositori all'interno del movimento venivano isolati.

«E tu eri tra questi.» La testa del gan'ka ondeggia, a dire sì e no.

Quando alle manifestazioni ci scappò anche il morto per i pestaggi della polizia, parte dell'odio e della rabbia nel movimento si era rivolto a quelli che avevano previsto come sarebbero andate le cose; furono accusati di essere menagrami, di aver indebolito il movimento, magari persino di tradimento.

«Anche tu?» «No, io non ho mai parlato in assemblea; ma ho fatto qualche commento ai margini, quindi c'era chi sapeva che ero tra quelli che non era d'accordo con le manifestazioni. Ma vedi, il vero problema è che mentre a pilotare il movimento c'era soprattutto gente più matura, magari fuori corso, qualcuno nemmeno più all'università, che sapeva parlare bene, noialtri eravamo giovani, senza particolari esperienze oratorie; era facile che nella foga si dicessero cose nella maniera sbagliata, o facilmente fraintendibili. Così, se dicevi che c'era da aspettarsi che qualcuno ci restasse secco per i pestaggi della polizia, che era inevitabile, magari a qualcuno che ti sentiva sembrava che dicessi che quelli che ci restavano secchi se lo meritavano, perché avevano partecipato alla manifestazione. È esattamente quello che è successo.»

Il gan'ka fa ripartire la riproduzione, ed il giovane con le stampelle racconta qualcosa di simile; mentre parla qualcuno lo raggiunge sul ponte, anche un paio delle signore sopra i cinquanta. Di almeno uno di questi, Adele non capisce bene, il giovane sta dicendo che sono andati a trovarlo a casa, per fargli un discorsetto, e che improvvisamente gli hanno dato un pompelmo.

Adele non ha mai sentito l'espressione prima, ma è come se a quella parola uno dei sopraggiunti sul ponte perdesse la testa: si mette a ridere e a dire “sì” come un idiota, poi afferra la testa del giovane in stampelle, e con violenza gliela abbassa, alzando contemporaneamente il ginocchio fino a stamparglielo sulla faccia. Ripete il gesto una seconda volta, e mentre si prepara ad una terza, il giovane rimasto fermo sullo scalino del ponte gli poggia fermamente un braccio sulla gamba.

«Ahaha, duale!» il pazzo scatenato si rivolge ora verso l'intervenuto, con due penne tirate fuori chissà da dove simula di suonare la testa del giovane come un rullante, poi butta via le penne e gli afferra la testa. È a questo punto che il giovane sposta la testa di lato, ruotando in senso opposto, e sfrutta la spinta verso l'alto della gamba del pazzo per sollevargli la gamba ulteriormente. Il pazzo perde l'equilibrio, frana in avanti accompagnato dalla torsione del giovane, crolla giù dal ponte.

Si alza furioso, detergendosi la faccia insanguinata con il dorso della mano destra «Io ti ammazzo!». Il giovane nemmeno si volta verso di lui: punta il gomito in fuori mentre il pazzo gli si scaglia contro, piantandoglielo nello sterno e mozzandogli il fiato, poi abbassa di scatto l'avambraccio tirandogli un violento pugno all'inguine. Il pazzo crolla a terra, arrotolandosi in posizione fetale e gemendo di dolore.

«Di nuovo, di nuovo!» esclama Adele. Il gan'ka riproietta la scena. «Ok, alcune cose che ho notato. La prima: sono tutti maschi. A parte le signore.» «No,» fa notare l'uomo. Indica un paio di membri del cordone, qualcuno nella folla «Lei, lei, lei, questa e questa qui per lo meno sono donne. Ma è vero che già allora la vasta maggioranza degli studenti erano maschi. Dopo la crisi del '29 del secolo prima si era andata rafforzando l'idea della separazione dei ruoli, con l'uomo che lavorava e la donna che curava la casa. È allora che è iniziato questo regresso verso una situazione che si era ormai superata da qualche secolo; ma la ripresa economica del '60 aveva dato l'idea che fosse la strada giusta. Da qui le campagne mediatiche per la dissuasione delle femmine dal proseguire gli studi. Comunque. L'altra cosa che hai notato?»

«Quel tizio è come un pazzo, un bue scatenato senza cervello. L'altro invece è … insomma, probabilmente ha fatto arti marziali o qualcosa. L'ha messo fuori gioco in men che non si dica.»

«Ed è questo che hai notato?» il sospiro dell'uomo non nasconde la sua delusione.

«Fammi rivedere la scena.» La riproduzione riprende dal discorso del giovane con le stampelle. «Ancora.» Dallo stesso punto. «Fammi capire. Alcuni di quelli sono andati a picchiare quel tizio.» il gan'ka annuisce «E l'hanno ridotto così?» il gan'ka annuisce ancora «E … e ora quel pazzo lo sta picchiando di nuovo, mentre quello ha le stampelle e tutto?» il gan'ka annuisce; la voce di Adele si fa un po' stridula «E tutta la gente che c'è là?»

«Se vedi, la maggior parte di loro è esterrefatta, persino inorridita, ma non si muovono, non dicono niente; anzi, qualcuno di loro ha anche l'espressione soddisfatta. Guarda questa, è la madre del pazzo; e quest'altra, è la madre di uno degli studenti uccisi dalla polizia. Stanno assistendo alla punizione di uno che se lo merita perché qualcuno ha capito che lui aveva detto che chi sarebbe morto sotto i pestaggi della polizia se lo sarebbe meritato

Adele continua a fissare l'immagine fissa sullo schermo, incredula. Sobbalza, quando la riproduzione riparte.

Il giovane si rivolge alla folla, che ora si sta agitando, ma continua a non oltrepassare il cordone inesistente. Qualche voce che grida «Tu sei morto!» riesce comunque a passare.

«Guardatevi!» la voce dell'uomo riesce nuovamente a farsi sentire sopra il vociare della folla «Vi siete ridotti a fare spedizioni punitive, come i fascisti. Mesi di oratoria sui metodi fascisti della polizia, ed ora fate lo stesso. È a questo che vi siete ridotti? A prendervela l'uno con l'altro? Complimenti, avete raggiunto lo scopo; non il vostro, però, il loro. Siete solo dei buoi senza cervello; e senza anima: uno con le stampelle, ancora a pezzi per il vostro precedente pestaggio, viene pestato di nuovo, e voi lì a guardare manco fosse il circo. Non ne valete la pena.»

Il giovane si volta e comincia ad allontanarsi proprio mentre qualcuno tra la folla decide di superare il cordone; ma mentre gli altri incespicano e si tengono per evitare di cadere, lui pattina via senza nemmeno guardarsi dietro.

«Ho un sacco di domande.»

«Vai.»

«Primo: come faceva a farsi sentire così bene?»

«Proiezione della voce; una tecnica oratoria per usare tutto il proprio cranio come amplificatore; si studia a teatro. E poi la posizione; rispetto al terreno, dico.»

«Secondo: perché la gente camminava piano o incespicava e tu pattinavi?»

«Acciottolato ghiacciato. E suole sbagliate.»

«Quindi non era una mia impressione che ti somigliasse, eri tu.»

«Sì,» il gan'ka sospira con aria stanca «e quel giorno non avevo gli scarponi, non volevo nemmeno uscire di casa. Ero giovane, e molto fortunato: con gli scarponi avrei provato a mettermi a correre e probabilmente sarei scivolato e caduto; invece quella mattina avevo scoperto che riuscivo a pattinare, con il risultato che potevo andare molto veloce. Sono arrivato a casa, ho impacchettato tutto, e sono andato via.»

«Ti sono veramente corsi dietro?» «Corsi non credo, non è che si potesse correre; ma qualcuno m'è venuto dietro. Ma avevo capito che il clima non era quello giusto lì; e siccome non avevo molta roba, sono potuto andar via velocemente.»

Il gan'ka ripensa a quei giorni. «Non volevo nemmeno finire in mezzo a quella storia; c'era una specie di festicciola, riunione, non ricordo bene, che era finita, e avevo preso questo foglietto che parlava di scambio di film, libri non ricordo bene. Stavo decidendo se andare lì o tornarmene a casa, perché avevo capito che tirava aria brutta; all'uscita della riunione si era parlato di queste cose, avevamo visto la gente che arrivava, mi avevano pure ricordato, non ricordo chi, che rischiavo di fare la stessa fine di quello con le stampelle.»

Una pausa, poi ricomincia «Sono andato a Ginevra, in treno, di filata dalla casa dello studente.» «In Svizzera?» «Ci sono altre Ginevre raggiungibili in treno?»

«E i tuoi?» «Non li ho nemmeno avvisati. Non volevo che usassero loro per risalire a me. Probabilmente una paranoia eccessiva, la cosa è sgonfiata non appena quelli hanno scoperto che avevo lasciato la casa dello studente; ma ero giovane, egocentrico, e spaventato.»

«Quindi Ginevra.»

«Quindi Ginevra. Sono stato fortunato anche in quel caso. C'era un'azienda informatica che cercava giovani apprendisti; aveva questa impostazione per cui preferiva il talento alla preparazione curriculare; il colloquio è andato bene, mi hanno preso. Dopo una decina d'anni avevo i miei contatti, mi sono messo in proprio e sono tornato qui.»

«E hai messo su questa … cosa.»

«Grossomodo.»

Adele rimane pensierosa per qualche minuto, poi chiede: «Posso dirlo che non ci credo?» «E perché mai?» «Perché mancano quasi quarant'anni della tua vita; se nel '49 eri all'università, ora dovresti avere l'età di Nana, forse qualcosina di più. E nel tuo racconto allora mancano appunto una quarantina d'anni, trenta, quelli che sono. Ma tu non hai l'età di Nana, quindi secondo me non manca niente, ma quello non sei tu o quelli non sono gli eventi del '49.»