Adele è appena arrivata al cancello esterno quando si ricorda di aver dimenticato il tablet sotto il banco. Torna indietro di corsa, i bidelli stanno appena cominciando a chiudere i portoni della scuola. «Un attimo! Ho dimenticato una cosa in classe!» e si precipita dentro.

Senza gli studenti, la scuola sembra più grande, più vuota. La bambina raggiunge affannata la classe, si ferma a riprendere fiato, raggiunge il banco, il tablet è ancora lì. Con un sospiro di sollievo ed ancora di affanno, lo prende, e si volta verso la porta.

Sobbalza. Tre ragazzi sconosciuti sono appena entrati, si chiudono la porta alle spalle. «Chisiete. Cosavolete.» le parole le escono di corsa, persino il tono interrogativo le muore in gola, le braccia sollevano il tablet al petto, come a farne uno scudo.

I tre non si curano nemmeno di rispondere, avanzano lentamente verso di lei con un sorriso che non ha nulla di simpatico; la bambina indietreggia, il cuore continua a batterle furiosamente, la paura ha preso il posto dell'affanno.

«Tranquilla, non siamo qui per farti niente di male,» comincia ad imbonirla il più grosso dei tre «vero, amici? È pericoloso rimanere da soli, lo sai? Noi siamo qui per proteggerti, ti accompagniamo, e in cambio non chiediamo nulla, solo un bacino, che cos'è mai un bacino?»

«Non ho bisogno di accompagnatori.» la bambina cerca di rispondere con calma, si accorge di starsi facendo chiudere contro il muro, cerca di spostarsi dietro un'altra fila di banchi, ma i tre l'hanno ormai accerchiata, le hanno chiuso le vie d'uscita.

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Tre colpi secchi, la porta viene proiettata dentro l'aula, scardinata. I ragazzi si fermano, si voltano verso l'ingresso. «E tu chi cazzo sei?» Ed improvvisamente Adele è libera, ma non per questo si sente più tranquilla.

«La ragazzina che state assalendo» le parole sono fredde, distaccate, non particolarmente minacciose «è mia protetta.» L'uomo si rivolge poi a qualcuno che ancora non è entrato. «Accompagnatela in macchina, aspettatemi lì.» Entra Hiromi, poi altre due Custodi. La giapponese rimane sull'uscio, mentre le altre due raggiungono il gruppo in fondo all'aula, prendono Adele per mano, la accompagnano fuori. L'ultima cosa che la bambina vede, prima che le lacrime le oscurino la vista, è l'uomo che si infila un paio di guanti, facendo un gesto per fermare Hiromi. «A loro ci penso io.»

Le Custodi l'hanno fatta accomodare dietro, ma la tengono in mezzo. Mai più di adesso Adele si è sentita prigioniera, adesso che si sente colpevole, anche se non sa bene di cosa. Quando finalmente l'uomo ed Hiromi salgono in macchina, lui dal lato del guidatore, lei del passeggero, la bambina ha la sensazione che qualcosa di tremendo le stia per succedere.

L'uomo porge il tablet di Adele alla Custode dietro di sé, senza nemmeno voltarsi. La Custode lo prende, lo posa al proprio fianco, torna immobile, guardando fissa davanti a sé. L'uomo aspetta ancora qualche secondo, immobile, poi prende il cellulare.

«Chi ha trovato la scuola? … passamela … … … fammi un background check sui bidelli … … no, non avevano documenti … non ne hanno a quell'età … sì, quindici o giù di lì … … no, basta così.»

L'uomo chiude la telefonata, guarda il sedile posteriore come se stesse semplicemente contando le persone, quindi parte. Prima di scoppiare nuovamente in lacrime, Adele vede solo le mani di lui, nuovamente senza guanti. Piange per tutto il tragitto, cercando di nascondere i singhiozzi, di non fare rumore, di non disturbare; la donna alla sua destra le passa un braccio sulle spalle, la stringe a sé, la lascia sfogare.

È la stessa Custode a prenderla in braccio quando finalmente arrivano; la porta fino in antibagno, l'aiuta a spogliarsi dei vestiti strappati, le mormora «fai un bel bagno, vedrai che starai meglio.» e sparisce.

Adele arranca fino al bagno, apre un doccino, e seduta sul pavimento affoga le proprie lacrime sotto l'acqua. Si accorge a stento dell'uomo che entra e si siede su uno sgabellino appena dietro di lei. Ma quando le mani dell'uomo le sfiorano i capelli, si ritrae di scatto, voltandosi verso di lui, con un «Non mi toccare!» strillato a pieni polmoni, acuto come nulla che le fosse mai uscito dalla bocca prima.

Rimane così per lunghi secondi, poggiata al braccio che tiene il doccino, che ora sperpera acqua sul pavimento, voltata verso l'uomo, un grumo di panico e nervi. Il gan'ka rimane seduto, le mani rilassate sulle ginocchia, attende che l'ondata passi, che la bambina torni a sciogliersi, ed anche dopo che Adele è tornata a sedere come prima, voltandogli la schiena, lascia passare lunghi minuti.

È solo quando la bambina lascia che la rassegnazione le pervada il corpo, riagganciando il doccino al suo gancio, rimanendo poi lì immobile, curva in avanti, senza più alcuna energia, che l'uomo prende lo shampoo, le si inginocchia dietro, le lava i capelli a lungo, con calma, massaggiandole la testa, pettinandoli durante il risciacquo; poi li raccoglie indietro, li strizza un po', li libera del grosso dell'acqua.

La bambina ha un brivido quando il guanto di spugna, insaponato, le sfiora la spalla, ma non reagisce; lascia che il guanto le percorra la schiena, il petto, le braccia; «alzati» e si alza «le gambe» le allarga un po', ed il guanto percorre ogni centimetro della sua pelle. Poi il doccino di nuovo, a lavar via il sapone da ogni angolo del corpo. Ed infine Adele attende. L'uomo però adesso pensa a sé stesso, e mentre si lava le dice «entra in vasca, ti prenderai di freddo».

Adele esegue; scivola lentamente nell'acqua calda, raccoglie al petto le gambe, poggia il mento alle ginocchia, e rimane a fissare il vuoto, nuovamente in attesa. Quando l'uomo entra finalmente in acqua, dietro di lei, le sue lunghe gambe la circondano; l'acqua le raggiunge il mento adesso, e la bambina ha la certezza che la punizione che attende da quando l'uomo è spuntato all'ingresso dell'aula stia per arrivare. Chiude gli occhi, stringe le gambe al petto ancora più forte, cercando di farsi più piccola.

Non succede nulla. L'uomo non dice nulla, non fa nulla. I muscoli della bambina cedono lentamente, il nodo di scioglie; a capo chino, spalle ancora incurvate in avanti, Adele stende lentamente le gambe. «Volevo solo recuperare il tablet.» dice infine, a scusarsi «L'avevo dimenticato sotto il banco. Sono corsa dentro per riprenderlo, e la scuola era già vuota.»

«Lo so.» la risposta dell'uomo è laconica, fredda. La bambina torna ad avere la sensazione di punizione imminente. Poi l'uomo continua: «so che hai dimenticato il tablet, so che sei corsa indietro per recuperarlo, so che eri in pericolo.» «È per via di questo?» la bambina solleva il braccio dove tiene il braccialetto. «Sì.»

Passano lunghissimi secondi. «Sei … sceso in città apposta?» «Ero in centro per altre questioni.» Ed improvvisamente la mente della bambina è piena di domande, e di nuove paure. Cosa sarebbe successo altrimenti? Chi sarebbe venuto a salvarmi? Quando sarebbero venuti?

«Hai ancora paura.» «Sì.» un lungo silenzio, poi l'uomo riprende: «Di me?» La bambina non risponde subito. «Forse.» mormora infine. «Non lo so. Sto … aspettando.» «Aspettando cosa.» «La punizione.»

È l'uomo nuovamente a lasciare che il silenzio galleggi tra loro. «Perché dovrei punirti?» chiede infine. «Perché ho … se non avessi … non sono … non sono riuscita a … insomma, mi hanno … avete dovuto …»

«Non lo so!» le sue mani si agitano, spingono l'acqua lontano dal suo petto «Non lo so, non lo so. Non dovevo essere lì.» la sua voce è un crescendo «Come non si infilano le dita nella presa, come non si guarda il sole direttamente, come non si … non lo so. Non lo so.» la sua voce muore nel nulla.

«Non ho fatto nulla di male.» riprende, parla con sé stessa, benché a voce alta «Non ho fatto nulla di male, non ho fatto nulla di male. Sono loro che sono … che mi sono …» affonda il viso nell'acqua, trattiene il respiro, riemerge con uno sbuffo, un sospiro. Ma se questa presa di coscienza doveva aiutarla a sentirsi più leggera, ha mancato lo scopo; semmai, la sensazione è ora più greve, un crampo che la attanaglia.

Raddrizza la schiena, poi si lascia lentamente scivolare indietro, ad occhi chiusi, finché la testa non arriva a poggiarsi alla spalla, al petto dell'uomo; le braccia di lui ora la circondano, e la spinta dell'acqua le solleva il corpo, finché il ventre non poggia contro le mani intrecciate dell'uomo.

«Stai meglio?» «Un po'.» «Hai ancora paura?» «Non di te.» silenzio «E grazie.» silenzio. La bambina apre gli occhi, e per la prima volta da quando sono in bagno rivede il viso dell'uomo. Il suo sguardo sembra perso nel vuoto, ma l'espressione non è la solita, fredda, distaccata, lontana, indifferente; tutti i muscoli del viso sono contratti.

«C'è … c'è qualcosa che non va?» «No.» «Sei … sei alterato però. È per …» «No.» la risposta dell'uomo è brusca, e la bambina si spaventa. Il suo corpo si contrae in uno spasmo di paura, perde il galleggiamento, scende fino ad aderire al corpo dell'uomo. E mentre l'uomo continua a parlare, ora più calmo, lei si sente imbarazzata da quell'improvviso contatto, le manca il coraggio, la forza di divincolarsi. «Non è per colpa tua, no.» sta dicendo l'uomo «È per quello che ti è successo, sì.»

«Mi dispiace.» mesta, di nuovo. «Ti dispiace?» è quasi un'esplosione d'ira, e nuovamente la bambina ha paura «Io non volevo, io …» la mano dell'uomo le copre il viso, ne soffoca le parole. «Per favore.» larghi respiri, la voce nuovamente calma, anzi quasi stanca; la bambina scrolla il capo per liberarsi della mano di lui, ma tace, mentre l'uomo continua «Ancora ne parli come se fosse qualcosa di cui ti devi scusare, di cui sei responsabile. Non ne hai colpa. Ti è successo. Non c'è nulla che tu abbia fatto perché ti dovesse succedere. Ma ti è successo.» È l'uomo a sospirare adesso. «A me dispiace.» il suo petto si solleva, come se l'uomo si stesse preparando ad un lungo discorso, ma alla fine non dice nulla, ed è un nuovo, lungo sospiro, a chiudere il discorso.

Ora la bambina vorrebbe chiedere perché, vorrebbe capire quanto è esteso il turbamento dell'uomo, e perché lo sia così tanto. Ma a prevalere è la sensazione del corpo di lui attorno al suo, a sostegno del suo, e che dopo l'iniziale momento d'imbarazzo ora la bambina sente come un avvolgente abbraccio protettivo. Chiude gli occhi, torna a rilassarsi. «Mi … mi piace stare così.» mormora. «Staremo così, allora.»

Passano lunghi minuti. La bambina continua ad oscillare tra il riemergere dello spavento della mattina e la sensazione di pacifico isolamento che le dà quel silenzioso abbraccio nella vasca. Prende piede lentamente la coscienza del sospetto, della paura, dell'astio con cui ha vissuto fino ad allora la propria permanenza in quella casa, in cui l'unica cosa che le è mancato è stata la sensazione di essere in famiglia, ed ora si chiede quanto questo non sia stato solo per via del distacco con cui lei si è posta nei confronti delle Custodi, dell'antagonismo con cui si è posta nei confronti dell'uomo.

Vorrebbe chiedere scusa, ma non trova la forza di interrompere quel silenzio; riapre gli occhi, e lo sguardo dell'uomo è sempre distratto, lontano; la bambina si chiede che cosa stia pensando lui adesso. Senza di lui, cosa sarebbe successo? Se fosse stata ancora con la sua famiglia, cosa sarebbe successo? La prende nuovamente il panico, ed a nulla le serve ripetersi che sarebbe stata in un'altra scuola, non avrebbe avuto il tablet di cui preoccuparsi, che tutto sarebbe stato diverso, che non è detto che sarebbe successa la stessa cosa. L'unica àncora in quell'onda di panico sono quelle braccia che adesso la circondano e da cui lei fino al giorno prima si sarebbe ritratta, astiosa, impaurita.

«Pipì.» l'esigenza arriva improvvisa, le comanda la parola. Prova a divincolarsi dall'abbraccio, ma l'uomo si sta già alzando, e lei perde l'equilibrio, si sbilancia in avanti.

«Fai pure, ma scarica l'acqua intanto.» l'uomo è già fuori dalla vasca, si dirige in fondo alla stanza, si asciuga il corpo, si massaggia il capo per asciugare i capelli. La bambina apre lo scarico della vasca, e l'acqua stessa, scappandole tra le gambe, la aiuta a liberarsi la vescica, nonostante l'imbarazzo del farlo in presenza di un'altra persona.

Mentre esce dalla vasca, le gambe le cedono, lei scivola in avanti e nuovamente si trova in braccio all'uomo. «Che succede?» «Non … non lo so, non ho più forza nelle gambe.» L'uomo l'aiuta a sedere a bordo vasca, le asciuga il corpo con calma, le massaggia le gambe, poi con un altro asciugamano le avvolge i capelli, raccogliendoglieli sul capo. L'aiuta ad alzarsi, ma la bambina ancora non riesce a reggersi.

Con un sospiro l'uomo si volta, accosciandosi e la aiuta a montare a cavalluccio.

Abbarbicata sulla schiena dell'uomo, le braccia davanti al suo petto, la testa contro quella di lui, le gambe intrecciate alle sue braccia, la bambina si rilassa. Le piace sentire quel corpo solido contro il suo, le danno tranquillità i lenti passi, come per non disturbarla. Ed ora la bambina vorrebbe rimanere così per sempre, perché è per la prima volta dopo chissà quanto tempo che si sente serena; non spensierata, ma serena.

È la prima volta che la bambina percepisce, e apprezza, la differenza tra le due condizioni. Da un lato l'essere senza pensieri, quasi senza emozioni, con l'unica sensazione del qui e dell'ora, in un equilibrio instabile e distratto in cui ogni ostacolo, ogni spavento, ogni pensiero diventava una crisi; dall'altro, la sensazione che la pervade adesso, che non le dà gioia, ma assopisce le paure e le angosce che ha maturato fino ad allora in un angolo di pace in cui nulla sembra poterla disturbare.

«Tu mi odî?» la sua voce è un lento mormorìo, come se stesse scivolando nel sonno. L'uomo non risponde. «Non mi hai mai trattato come le Custodi. È sempre diverso con me. Più distacco, più freddo.» Pausa «C'è un calore, con loro, una forma di … non lo so, forse affetto, forse … desiderio, familiarità. Con me, è sempre come se fosse un dovere.» Pausa «È anche colpa mia, vero? Perché avevo paura, all'inizio … rancore, anche. Io non volevo essere qui; ma penso che anche tu non volessi che io fossi qui. Però c'ero, quindi non potevi semplicemente ignorarmi.»

L'uomo si ferma. «Non ti arrabbiare, per favore.» la voce di lei è ora un po' più agitata. «Non sono arrabbiato.» l'uomo è calmo, la sua voce tranquilla la tranquillizza «E non ti odio. Continua.» L'uomo riprende a camminare.

«È per questo» chiede la bambina «che mi tratti diversamente? O è perché … per l'età?» Pausa «O qualche altro motivo?» Pausa «Io vorrei … vorrei che mi trattassi come le altre.» Pausa «Non voglio più essere … non voglio più sentirmi come un'estranea, circondata dalla vostra ospitalità, dalla vostra cortesia; benvenuta, accolta, ma sempre un'ospite. Non voglio più sentirmi così.» Pausa «Oggi eri, sei più … vicino. Forse ero anche io che ne avevo bisogno … di sentirti così. Vorrei che fosse così … più spesso. È bello, è … caldo.» Pausa «Ma è sempre come se ci fosse qualcosa, qualcos'altro che ti tiene distante. Anche oggi.» Pausa «Anche ora.» Pausa «Però sto bene, ora.»

Scende il silenzio. L'uomo continua a non rispondere, a non parlare. Si ferma davanti alla porta dell'infermeria, e attende, come se sapesse che in realtà Adele sta solo raccogliendo il coraggio per poter concludere.

«E vorrei … vorrei che non mi considerassi più una bambina.» Pausa «Non sono una bambina.»

L'uomo le libera le gambe, la lascia scivolare fino a terra. Senza più il contatto con lui, Adele lo sente nuovamente distante, distaccato, più freddo; «Posso … posso dormire con te stanotte?» trova ancora il coraggio di chiedere. L'uomo la fissa negli occhi finché lei non abbassa lo sguardo.

«Se vuoi.» risponde infine, e si allontana mentre la porta si apre.

«Non ho nulla,» il tono stanco della voce sorprende anche lei «mi sono mancate le gambe un momento, solo questo.»

«Vieni,» la dottoressa la invita ad entrare «fatti visitare.»

Adele la segue, mesta. Si siede sul lettino, mogia. La dottoressa trova qualche graffio, qualche piccola contusione. «Sareste dovuti venire subito qui, dove diavolo siete stati?» le disinfetta i graffi, le applica una pomata alla contusione. «Sdraiati un attimo.» «Non c'è bisogno, non sono arrivati a …» Adele fa un gesto vago.

«Adele.» la donna si accovaccia di fronte a lei, per poter incrociare il suo sguardo sfuggente «Adele, ascoltami. Quello che ti è successo, non è qualcosa di cui tu ti debba vergognare.» «Lo so.»

La dottoressa si rialza, sospira. «Ti posso visitare?» e finalmente la ragazzina si sdraia, lascia che la donna sappia di nuovo tutto di lei, o almeno tutto quello che il suo corpo le può dire.

«Come ti senti?» la dottoressa la aiuta a rialzarsi a sedere. Adele non risponde. La donna insegue il suo sguardo, le afferra il mento: «Ne vuoi parlare?» Adele scuote il capo, torna a guardare altrove. Con un sospiro, la dottoressa le si siede accanto. Lascia che la ragazzina giochicchi con il lenzuolo di carta del lettino, ma non sa trovare le parole per incoraggiarla ad aprirsi.

«Senti,» dice alla fine «io ho delle cose da sbrigare, ma sono sempre qui. Quando vuoi, se vuoi, sono pronta ad ascoltarti, va bene?» Adele annuisce appena, la donna torna ad alzarsi, non fa in tempo a voltarle le spalle.

«Tu … tu hai paura del … del padrone?»

La donna si ferma, interdetta. Si volta verso Adele, chiedendosi cosa ci sia dietro quella domanda. «No …» ha un attimo di pausa, poi riprende «quanto è … arrabbiato, magari, quando è arrabbiato magari, allora è più … suscettibile, forse pericoloso.»

«Tu pensi che mi odî?»

«Come ti viene in mente una cosa del genere?» e siccome Adele non risponde, la donna continua «Il gan'ka non odia nessuno; o almeno certo nessuno di quelli che accoglie nella propria casa.» La dottoressa si avvicina improvvisamente ad Adele «È successo qualcosa?»

«No!» Adele sobbalza «No, no.» Pausa «Cioè, non lo so, sì, forse. Ma non … non lo so.» l'espressione seria della donna la spaventa un po' «È … è stato gentile.» la donna si allontana con un sospiro di sollievo, «Non … non è mai stato così, con me.» Pausa «È sempre stato come se … come se mi avesse accolto, ma non mi avesse accolto.» Pausa «È come se avesse accettato che ci fossi, ma non lo volesse.»

La donna si trattiene dal commentare sull'odio che Adele stessa aveva manifestato all'inizio nei confronti dell'uomo, anche solo a sentirlo nominare.

«Gli ho chiesto scusa» continua a Adele «perché lo so, anch'io non … non ero propri contenta di essere qui all'inizio. Ma lui è sempre stato così … distaccato. E oggi invece … oggi sembrava diverso. E non perché io ero … diversa, spaventata per … per quello che è successo. Perché poi è tornato … dopo che gli ho … gli ho chiesto scusa, e di nuovo è … è come se si fosse avvicinato, e poi allontanato di nuovo.»

«Dopo che gli hai chiesto scusa.» ripete la donna, come per conferma. Scuote il capo. «Non lo so, Adele. Non riesco ad immedesimarmi nel suo modo di pensare, di agire. Ma immagino che non sia facile, per lui. È un po' come essersi trovato con una figlia …» «Non sono sua figlia!»

La violenza con cui Adele la interrompe sorprende la donna. Adele continua, più calma «Non voglio essere sua figlia. Non voglio essere “considerata come una figlia”. Non voglio un … un surrogato di famiglia. So che questa è una vita … diversa per me, e voglio che sia una vita diversa. Senza … senza trucchi, senza simulazioni, senza …»

«Scusami,» la donna si avvicina ad Adele, le carezza nuovamente la guancia, il mento «non era … non era in quel senso che la intendevo. E credo che nemmeno il gan'ka voglia in qualche modo essere considerato “come un padre”. Ma vedi, appunto, per questo per lui è difficile. È abituato ad avere intorno gente più grande, con cui … è tutto diverso.»

Adele annuisce, sospira. «È solo l'età?» «Non lo so, piccola. Non sono il gan'ka.» «Ma lui non …» Pausa «Gliel'ho chiesto. Quando gli ho chiesto scusa. Non ha risposto. Mi ha solo lasciato parlare. E poi non ha detto nulla.» «Forse l'ha fatto per te. Perché avessi la libertà di sfogarti, di dire quello che avevi bisogno di dire.»

«E però dopo non era più … cioè, era di nuovo …» Pausa «Ho paura di averlo di nuovo fatto allontanare, di aver perso quel … quel momento di … di vicinanza che …»

Scende il silenzio. La donna non sa trovare altro che abbracciare Adele, lasciarle poggiare la testa al suo petto, tenerla così carezzandole i capelli. E pensa che da un lato è incredibile, e forse anche positivo come l'esperienza di quella mattina sembri essersi dileguata senza lasciare traccia nell'animo della bambina; d'altra parte, la crisi emotiva che l'ha sostituita sta prendendo una piega che mette la dottoressa a disagio: ed immagina facilmente, la donna, che sia quello il motivo dietro il comportamento dell'uomo.

Il gesto ripetitivo, monotono, sempre uguale a sé stesso è la chiave per svuotare la mente, un mantra non verbale che ha lo scopo di ottenere serenità con il distacco dalle cose terrene. Nel mio caso, ha anche il vantaggio di contribuire allo sfogo del desiderio represso di violenza fisica che mi sta macinando da questa mattina.

Erano anni che non sentivo più il bisogno di prendere a pugni qualcosa. In un altro momento, avrei vissuto questa constatazione con la soddisfazione del progresso nella realizzazione di quella pozza di pace e tranquillità dentro cui vivere senza la soffocante influenza del mondo esterno. Oggi serve soltanto a ricordarmi che al di fuori della pozza di pace e tranquillità il mondo è ancora quello.

E tutto ruota attorno ad Adele. Adele che ha un corpo che non ha fretta di sbocciare, e che tuttavia ha appena lasciato una piccola scia di umori inconfondibili contro la mia schiena; Adele che ha un lessico da topo di biblioteca, e pensa e parla come se avesse il doppio della propria età; Adele che ha la sensibilità psicoemotiva della propria età, in cui tutto si coglie e nulla si comprende, di sé e degli altri.

Vorrei, vorrei. Vorrei essere lieto, perché la tua esperienza di oggi non è stata quella che avrebbe potuto essere. Sono cose che danno soddisfazione, di cui poter essere orgogliosi. E invece di tutto questo, quello a cui penso è che la tua fortuna nasce dalla perdita di qualcuno che tu mi ricordi. E questo serve solo a farmelo ricordare ulteriormente, ed offusca e nasconde il sollievo che dovrei provare invece.

Ed è davvero bastato questo, evitarti il peggio, per sopire il tuo astio, il tuo rancore nei miei confronti, per convertirli nel loro opposto? O è solo uno scherzo della paura, un aggrapparsi disperato alla minima impressione di salvezza?

E quel tuo astio, quel tuo rancore di cui ti scusi erano i paletti che marcavano la fine della mia ospitalità e l'inizio del tuo desiderio di essere altrove. Erano la naturale reazione all'essere stata strappata alla tua vita senza preavviso, senza giustificazioni, senza che qualcuno chiedesse la tua opinione, aspettasse la conferma della tua disponibilità. Erano l'ordine naturale delle cose, il punto di equilibrio tra la tua presenza qui e il mio disagio.

Vorrei, vorrei. Vorrei che la tua presenza non fosse in ogni suo aspetto il memento di una vita che avrei voluto dimenticare, perché ogni memoria è una scheggia di dolore. E tu, che cogli e non comprendi, vorresti invece che ogni singolo aspetto della tua vita qui sia una eco di quella.

Trattarti come una bambina, trattarti come una Custode. Come se fosse quello il punto, piuttosto che evitare di trattarti come se fossi la persona che mi ricordi, piuttosto che quella che sei. E più manifesti la persona che sei, più somigli a quella che mi ricordi.

Nel silenzio della propria stanza, Adele cerca di riguadagnare il controllo dei proprî pensieri, delle proprie emozioni con la lenta coreografia che Hiromi le ha insegnato e che nella lunga pratica di quei due anni lei ha interiorizzato a tal punto da poter quasi sentire la voce della donna che le critica la forma delle figure, la naturalezza dei passaggi.

Eppure, in quel momento i gesti manifestano una natura che fino ad allora le era sfuggita; ed ogni tanto, nel descrivere questa o quella figura, Adele rivive l'assalto di quella mattina, e riesce quasi a vedere come quel gesto astratto, formalizzato, rituale, avrebbe deviato —o assestato— un colpo.

Sorpresa e quasi angosciata dalla scoperta, Adele ripete l'intera coreografia, riscoprendo la natura marziale di ciascuno di quei gesti la cui esecuzione rituale, ripetuta fino alla perfezione, le ha fatto conquistare coscienza del proprio corpo, equilibrio fisico ed una chiave per riguadagnare serenità.

E ora Hiromi è lì, sulla porta, e la guarda, con quel suo sguardo che valuta e giudica l'esecuzione, per ogni sua minuscola imperfezione, anche quando non ne dà manifestazione verbale. Adele si ferma, Hiromi la saluta con il suo solito inchino, entra, le dice: «Continua.»

Adele riprende, e sotto lo sguardo della donna si sente quasi imbarazzata dalla scoperta, i suoi movimenti tornano a cercare la rituale regolarità che Hiromi le ha insegnato.

«Non era questo che facevi.» commenta la donna. Adele si ferma nuovamente. «Era … era solo …» «Perché sei imbarazzata?» «Be', non è quello che mi hai insegnato tu. Non è il … modo che mi hai insegnato tu.» «Ma non stai sbagliando. Stai provando cosa diversa. Continua.»

Non molto convinta, Adele riprende, ma la presenza di Hiromi, il suo sguardo, continuano a distrarla. Poi, improvvisamente, la donna le è quasi addosso: non la tocca, non la spinge indietro, semplicemente si piazza in modo da ostacolarle i movimenti. Adele è costretta a fermarsi di nuovo. «Che c'è?» chiede.

«Perché ti fermi?» «Come perché? Sei … ti sei messa in mezzo.»

Hiromi fa qualche passo indietro, assume la posizione di base che ha insegnato ad Adele, poi descrive una sfera attorno alla propria persona. «Questo è tuo spazio, ricordi? Tu controlli tuo spazio. Se qualcuno invade tuo spazio» fa un gesto come tirando l'aria a sé «tu riprendi controllo.» Hiromi allontana con una spinta l'immaginario invasore.

Riprovano, e stavolta Adele trova naturale spingere via Hiromi quando questa la ostacola una prima, una seconda, una terza volta; Adele si accorge che la donna non oppone una vera resistenza, che si lascia spingere via, e che anzi sceglie il momento per intervenire in modo che la forma successiva sia quella giusta per allontanarla.

«Forme sono alfabeto.» spiega quindi Hiromi, sospendendo la pratica «Tu conosci alfabeto, ma parlare non è solo ripetere alfabeto. Parlare è mettere sillabe giuste in posto giusto.»

Quando ricominciano, Adele si accorge subito che gli interventi della donna non chiedono più come risposta le forme nell'ordine in cui lei le ha imparate: occorre pensare, adeguare le mosse ai gesti pacanti ma implacabili con cui Hiromi conduce quella lenta danza di coppia.

Ogni volta che arriva a toccarla, Hiromi la spinge; non troppo forte, ma un colpo sufficiente a marcare il tocco. Si fermano, ricominciano, e volta dopo volta Adele sente di stare prendendo confidenza con la situazione; questo le dà una gioia, un entusiasmo crescente che Adele fatica a contenere: i suoi gesti si fanno più decisi, quelli della donna più rapidi, finché improvvisamente, gamba contro gamba, Hiromi non la fa inciampare, afferrandola poi al volo per evitarle la caduta.

«Buono.» commenta la donna, aiutandola a rimettersi in piedi. «Ma ricorda che corpo non sono solo braccia, e gambe non servono solo per equilibrio.»

Mentre riprende fiato, Adele osserva: «Ci sono figure che non ho mai usato.»

«太極拳 è arte completa,» le spiega Hiromi «ha yīn e yáng, morbido e duro, femminile e maschile, ricevere e dare, deviare e colpire.» «Difesa e attacco.» «はい

Adele annuisce. Avrebbe ancora voglia di continuare; il senso di esaltazione che l'aveva accompagnata nella seconda fase dell'allenamento non è ancora svanito, e quando Hiromi la saluta, invitandola a ripetere, nuovamente da sola, le forme come gliele ha insegnate, è quasi come ricevere una doccia fredda.

Eppure, nel riprendere la serie classica delle forme Adele scopre un nuovo modo di viverle, come se nascondessero una forza, un'energia che fino ad allora le era sfuggita. Ed è così che il tempo passa, fin oltre l'ora di cena.

Quando Adele arriva in cucina, la trova nuovamente quasi vuota. La rossa e Dora stanno finendo di sistemare, e vedendola arrivare la salutano festosamente; la rossa, in particolar modo, sembra preoccupata.

«Non ti ho visto a pranzo, non ti ho visto a cena. Ero un po' in pensiero.»

«Sto bene, sto bene. A pranzo sono … arrivata tardi, ho mangiato quello che era rimasto. Per la cena … ero con Hiromi, ho perso la cognizione del tempo. Ma mi sento … bene, veramente bene, come se … non lo so, mi sento carica di energia.»

La rossa la guarda stranita, sorpresa e un po' insospettita dalla noncurante euforia di Adele. «Bene,» le carezza una guancia «sono lieta che tu stia bene. Avrai fame, vuoi qualcosa?»

«Oh sì grazie, per favore.» ha appena assentito Adele, che subito ha come un ripensamento. «Anzi, volevo sapere … il padrone ha già mangiato?»

La rossa sbuffa «No, per niente, lì c'è la roba per lui. Perché?»

«Pensavo … ho pensato che magari gliela potrei portare io …» al silenzio sorpreso delle due, Adele continua «magari con qualcosa per me, altrimenti rischia di non arrivargli niente …» sorride, scherzosa, ma lo sguardo della rossa è turbato; Adele si sente in dovere di spiegare: «volevo … volevo fare qualcosa di gentile per lui, visto che … l'ho sempre trattato … male e lui invece non … non mi hai dato veramente motivo di … trattarlo come ho fatto.»

La rossa la guarda stupita, tutt'altro che convinta; il suo sguardo si rivolge poi a Dora, quasi disperato, in cerca di supporto, ma l'altra donna non può venirle incontro. La rossa torna a rivolgersi ad Adele, e finalmente le risponde: «Non … non penso che sia un problema. In genere ci … ci pensa la Prima, ma … non penso ci sia un problema. Oibo', forse sarebbe il caso di avvertirla. E anche di avvertire lui?» scuote rapidamente il capo, poi si volge verso il bancone «Preparo qualcosa per te, intanto.»

«Grazie.» Adele si siede a un angolo del tavolo, giocherella con le dita sul legno del ripiano «Lui credo che … lo sappia già. O se lo aspetta.»

«E come mai?»

«Perché gli ho chiesto se potevo stare con lui stanotte, mi ha detto di sì.» Adele non ha ancora finito la risposta, alla rossa scivola di mano il bicchiere che teneva in mano: tintinna sul ripiano, rotola fino al bordo, precipita più mentre la rossa con un gesto cerca di prenderlo al volo, con il risultato di spingerlo ancora più lontano nella caduta; tutte e tre respirano di sollievo quando il bicchiere resiste all'urto con il pavimento senza infrangersi.

È Dora a raccogliere il bicchiere, a riportarlo al lavabo; per strada, passando dietro alla rossa, le stringe il braccio in un gesto di incoraggiamento, come per infonderle forza e coraggio. Il gesto non sfugge ad Adele, che improvvisamente comprende il senso di quel disagio nascosto nelle esitazioni della rossa, nel suo concentrarsi esageratamente sul pasto da prepararle.

Adele si alza, corre ad abbracciarla da dietro, e mentre la donna si puntella contro il bancone per riguadagnare la calma, cerca di tranquillizzarla. «Scusami. Lo so che ti preoccupi tanto per me. È una cosa tanto bella, ma non voglio che tu abbia paura. Voglio che tu sia felice, perché io mi sento felice.»

«È proprio questo il problema!» la rossa si volta, e c'è della rabbia nella sua disperazione.

«Che io sono felice?» Adele è sbigottita.

«No, maledizione, no! È una cosa bellissima che tu sia felice. Dovresti sempre essere felice, hai tutte le ragioni per essere felice, ed io sono … OK, sarei felice che tu sia felice, ma ho paura che nella tua felicità tu …»

«Mi stai dicendo che non la saggezza per prendere certe decisioni.»

«No, non è quello che sto dicendo!»

«Oppure che il padrone potrebbe violentarmi.»

«No, non …» la rossa si ferma, sembra calmarsi «no, non penso che il gan'ka ti violenterebbe. Non nel senso che … oh buon dio non so nemmeno come dirlo.»

«Nel senso che potrei essere io a volerlo.»

La rossa tira un profondo respiro.

«E quindi mi stai dicendo che non ho la saggezza per prendere certe decisioni.»

«Sì, è quello che sto dicendo.» ammette infine la rossa «Ma non lo dico perché penso che tu non l'abbia. Lo dico perché so per esperienza che … ci sono circostanze in cui si … si accetta di fare delle cose solo perché si pensa che sia l'unico modo di … di poter ricevere attenzioni, come se queste fossero una manifestazione di … di amore, di affetto. E so che si arriva persino ad anticipare quelli che si pensa siano i … i desiderî dell'altro, a farli proprî, per … per sentirsi meglio, e … e non è così.» la voce della rossa si perde nell'abbraccio di Dora «Non è mai così.»

Adele si sente un po' sconvolta dalla reazione della rossa, ma non sente proprie le parole di quella donna; al contrario, prova quasi un po' di pena per la vita che ha avuto colei, da offuscare così drammaticamente un momento che lei, Adele, invece, sta vivendo con tanta gioia.

«Scusami,» riprende la rossa, quando ha ritrovato il proprio equilibrio «scusami, la prendo sempre male, troppo male.»

Adele torna ad abbracciarla: «Non farò nulla di cui potrò pentirmi. Te lo prometto.» La rossa risponde all'abbraccio; «Piccola mia,» le dice, depositando un bacio sulla corona «vieni, finiamo di prepararti la cena.»

Portando la cena per sé e per il padrone di casa su un carrello da cucina la fa sentire un po' sciocca, forse persino imbarazzata. Questa semplice azione, di per sé, è molto più forte delle parole della rossa nel farla riflettere sulla saggezza di chiedere all'uomo di passare la notte con lui.

Le due Custodi davanti alla porta della stanza dell'uomo non fanno una piega nel vederla arrivare. Le aprono la porta, la lasciano passare, le chiudono la porta alle spalle.

La stanza è illuminata da una vaga luce fioca; Adele si guarda intorno: è la prima volta che si ritrova in quella stanza senza essere presa dall'ansia, focalizzata solo sulla voglia di esserne fuori quanto prima.

Ora, al contrario, vuole familiarizzare con l'ambiente, farlo proprio in ogni suo aspetto: la grande porta finestra che dà sul terrazzino; il largo letto matrimoniale al centro, con il ripiano che ne sporge dalla testa, la cassapanca all'altra estremità; il guardaroba, alto fino al soffitto; la scrivania, anche questa larga, praticamente vuota.

Oltre all'ingresso che dà sul corridoio, la stanza ha tre porte. Due di queste si aprono sulla medesima parete, e quando Adele vi sbircia dentro vi trova un piccolo bagno in stile occidentale dietro la prima, un bagno un po' più grande, in stile giapponese, dietro l'altra.

La terza porta è aperta, e Adele vi si ferma davanti impietrita.

Per la prima volta da quando si trova in quella casa Adele comincia a trovare un senso all'appellativo di gan'ka con cui le Custodi a volte si riferiscono al padrone di casa.

La ragazzina si trova davanti computer di ogni forma e dimensioni, a muro, portatili, da scrivania; gadget elettronici mai vista prima, alcuni integri, altri evidentemente smembrati o in vari stadî di assemblaggio; ed in mezzo a tutto questo, con tre monitor davanti, l'uomo. L'uomo che si trova stavolta nel suo ambiente; concentrato sul lavoro, ma a proprio agio; ogni tanto si ferma a riflettere, magari scribacchia qualcosa di lato, ma non è mai assente, non è mai distratto, come invece spesso è apparso ad Adele.

C'è qualcosa di ipnotico nell'ambiente di quella stanza, nel grave ed incessante ronzio delle ventole, nel caotico lampeggiare della miriade di spie luminose; eppure ad Adele basta fare un paio di passi indietro perché il ronzio svanisca, le luci si trasformino in un tenue bagliore, come se quella stanza fosse isolata, quasi impercettibile dall'esterno.

Interedetta, Adele rimane sulla soglia; è evidente che l'uomo l'ha vista, il suo sguardo si è soffermato su di lei, come a riconoscerne la presenza, ma nessuna parola, nessun gesto hanno accompagnato quel riconoscimento. Ed ora la ragazzina si chiede quale protocollo dovrebbe seguire, ammesso che vi sia un protocollo, per offrire la cena all'uomo, per proporre la propria compagnia. Nell'indecisione, attende.

Quando, non troppo tempo dopo, ma abbastanza perché ad Adele sembri un'eternità, l'uomo si alza e le viene incontro, la ragazzina si ritrae, intimidita. «Ho … ho portato qualcosa da mangiare.» spiega; e subito dopo, frettolosamente «Non volevo disturbare.» aggiunge. Si sente improvvisamente imbarazzata dalla propria presenza in quel luogo, come se, arrivando lì per la prima volta non invitata, stesse abusando dell'ospitalità dell'uomo; come se stesse invadendo, inopportunamente, il suo dominio.

Oltrpassandola, l'uomo le dà un buffetto sulla guancia. «Hai troppa paura di sbagliare.» le dice, prendendo il carrello e trascinandolo accanto al letto, per poi liberarlo dei vassoi, che poggia sopra le coperte, ed infine spingerlo via con un piede. L'uomo si sdraia prono, il busto puntellato sui gomiti, i polpacci sollevati per aria, fluttuanti.

C'è qualcosa di infantile ora, nel suo atteggiamento, e questo tranquillizza Adele. Si siede anche lei, all'angolo opposto, piegando una gamba sul letto, lasciando l'altra penzoloni fuori.

«Mangi sempre così?» chiede; allo sguardo perplesso ed interrogativo che l'uomo solleva verso di lei, chiarisce «Intendo … non intendo in questo modo, dico così, da solo, qui.»

«Dipende. Se mi scordo di cenare.» e dopo qualche secondo in cui mangia distratto, lei pilucca pensosa, l'uomo le chiede «E tu come ti sei ridotta a quest'ora?» «Hiromi.» L'uomo sbuffa, annuisce.

Timidamente, la bambina fa scorrere il proprio vassoio verso quello dell'uomo per liberare spazio sul letto, quindi si sdraia imitando la posizione di lui. L'uomo la guarda di sbieco, come se volesse capirne le intenzioni.

«È stato … strano, oggi.» continua Adele «Con Hiromi, dico. È stato come … per la prima volta è stato come se mi stesse insegnando qualcosa di … di diverso, di più … profondo.» Dopo qualche secondo, aggiunge: «E ho scoperto che quello che mi aveva insegnato finora era un'arte marziale, non semplicemente una … ginnastica coreografica. E mi sento un po' scema per non averlo capito prima.» Passa ancora qualche minuto, poi conclude «Oggi è stata la prima volta per un sacco di cose, per me.»

L'uomo solleva nuovamente lo sguardo verso di lei, ma non risponde.

«Cosa faresti ora con una Custode?» il cibo è sparito, i vassoio sono stati riposti; l'uomo e la ragazzina sono nuovamente sul letto, stesi come prima, l'uno di fronte all'altra.

«Dopo mangiato è un ottimo momento per dormire.» risponde l'uomo. Volta la testa su un lato, chiude gli occhi, poi ne riapre uno per guardare la ragazzina e ricordarle: «Non mi svegliare.»

Adele annuisce, perplessa e un po' delusa. Scivola via dal letto, per non correre rischi, e si accorge che l'uomo è già scivolato nel sonno: il suo respiro si è fatto lento, profondo, le palpebre rilassate, il viso sereno.

La ragazzina pensa che forse dovrebbe mettersi anche lei a dormire, ma il sonno dell'uomo è stato tanto improvviso da averla colta di sorpresa; e lei sente ancora la carica energetica dell'euforia dell'allenamento con Hiromi, che nonostante le forme ripetute da sola, nonostante il tempo trascorso, nuota ancora dentro di lei.

Adele si avvicina alla porta finestra, occhieggia l'oscurità della terrazza fuori; prova timidamente un pannello, e questo scorre con un fruscio appena percepibile; la ragazzina si volta verso il letto, l'uomo non ha reagito. Adele scivola fuori.

È buio, ma non fa freddo; non c'è vento, ed è come se il calore della casa si propagasse fino alla terrazza, insieme alla tenue luce della stanza. Adele intravede e oltrepassa le sagome delle poltroncine, si spinge fino alla ringhiera, a guardare fuori.

È una notte splendida, l'aria secca, ferma, silenziosa lascia percolare la luce delle stelle e della luna, ed il paesaggio che circonda la casa appare alieno, appena riconoscibile con quella nuova illuminazione.

Adele percorre la terrazza da un angolo all'altro, giocherellando con la ringhiera. Si volta verso la porta finestra, quasi invisibile ora che la luce della stanza si è spenta. Solitudine, isolamento; ma invece di spaventarla, questa sensazione le dà stavolta un senso di sollievo, di liberazione.

Sola, nuda, sotto la luce della luna, in un mondo fuori dal mondo, senza nessuno che possa vederla, senza nessuno che possa disturbarla. Si guarda le mani, il petto, le gambe; in quella luce, persino la sua pelle ha un colore innaturale, come se il suo corpo non fosse più il suo. Immortale e bellissima, non è più Adele, ma una dea.

O una supereroina. Il braccialetto che tiene al polso è la sua arma segreta, una barriera che la protegge da tutto, che può mutarla d'aspetto secondo necessità, creando persino l'illusione di indumenti di qualunque foggia, quando e come opportuno. E lei va in giro a combattere il crimine, a salvare le persone, grazie al segreto della Tecnica Suprema, con cui può sconfiggere chiunque.

Adele gioca a combattere contro il nulla, piroettando e sgambettando in giro per la terrazza; si difende come ha imparato nel pomeriggio con Hiromi, ripete le figure sentendo nuovamente quella immensa energia scorrerle dentro; ma nonostante tutto, non riesce a sentirsi soddisfatta, a scrollarsi di dosso la sensazione che manchi qualcosa.

Ripensa ai protagonisti dei videogiochi, degli animati che piacevano tanto al fratello, ai compagni di scuola: hanno sempre qualcosa per colpire il nemico a distanza, spesso un modo di lanciare palle di fuoco o fulmini o cose del genere.

Cerca di ricordarsi le mosse di quelle figure di fantasia, il modo in cui raccolgono l'energia nelle proprie mani, per poi sputarla fuori come micidiale arma. Prova a ricostruire i gesti, ripeterli, provarli, ma c'è sempre qualcosa di sbagliato, di mancante, come se l'energia che sente fluire dentro di sé durante il 太極拳 fosse assente.

«Stai cercando di proiettare il

Con un piccolo grido di spavento, Adele si volta in direzione della voce che l'ha fatta sobbalzare. L'uomo emerge dall'oscurità della porta finestra, si accomoda su una poltroncina.

«Mi hai fatto prendere un colpo!» Adele sbuffa, innervosita; passato lo spavento, le resta ancora un senso di imbarazzo per quello che stava facendo, il sogno ad occhi aperti che stava vivendo. «Da quanto tempo sei qui?» L'uomo si gratta il naso. «Non so.» risponde.

«Pensavo stessi dormendo.» poi, preoccupata «TI ho svegliato io?»

L'uomo scuote il capo. «No, mi sono svegliato da solo. Non dormo mai troppo.» «Dieci minuti non sono pochi?» «Una mezz'oretta, in realtà. Si chiama ‘sonno polifasico’; dormire poco per volta nell'arco della giornata invece di otto ore di fila.»

La ragazza lo guarda stranita; non si è resa conto di quanto tempo fosse passato; e la storia del sonno polifasico le sembra assurda, ma si rende conto di come la cosa si inquadri con gli strani ritmi dell'uomo; accantona l'idea come l'ennesima pazzia di quell'individuo, e l'ha già dimenticata. Si volta nuovamente a guardare oltre la terrazza, ma stavolta, con la presenza dell'uomo dietro di lei, lo spettacolo le dà una sensazione diversa.

«È bello qui.» osserva. Torna a voltarsi verso l'uomo, nessuna reazione; gli si avvicina, l'uomo solleva lo sguardo verso di lei; si siede sulle gambe di lui, quasi pronta a fuggire, ma non succede nulla; si sistema più comoda, gli volge le spalle, poi si stende fino a sdraiarsi contro il petto di lui; l'uomo la abbraccia. «È un posto così tranquillo, così pacifico.» Adele chiude gli occhi e scivola nel sonno.

Sentirla crollare addormentata così improvvisamente mi sorprende. Da un lato, la sensazione di essere rimasto incastrato in quella posizione, senza sapere come liberarmi del suo peso senza svegliarla. D'altro canto, la sensazione di potermi rilassare anch'io, benché appena sveglio.

Imparo il ritmo del suo respiro dormiente, breve inspirazione, breve espirazione, pausa, ripresa. Il suo corpo, rilassato, sembra più pesante del solito; ma emana un tepore che lo rende gradevole.

Mi viene da pensare al gatto che avevo da ragazzino, al modo in cui si piazzava sulle mie gambe quando aveva voglia di compagnia, a come fosse difficile smuoverlo, anche agitando le gambe, anche cambiandole di posizione, persino accennando ad alzarmi, finché la forza di gravità non rendeva insufficiente la presa degli artigli.

Ma questa non è un gatto, è una bambina che non è più una bambina, tranne quando ancora è una bambina. E adesso mi dorme in braccio, dopo una giornata folle.

Non so se è perché perdo la pazienza, o perché mi sembra addormentata abbastanza profondamente da poter tollerare di essere mossa senza svegliarsi, ma decido di alzarmi. Mi muovo lentamente, la aiuto a voltarsi parzialmente verso di me, per poterle sollevare le gambe con un braccio, sorreggerle la schiena con l'altro.

Pesa. L'unica cosa che mi viene in mente quando riesco finalmente ad alzarmi: accidenti quanto pesa. Mormora qualcosa nel sonno mentre caracollo verso il letto, dove finalmente riesco a sdraiarla.

Si arrotola in posizione semifetale, senza svegliarsi; ma vedo che il suo sonno non è tranquillo. Il volto è contratto, a disagio; ogni tanto la scuote un fremito, improvviso quanto sporadico.

Mi sdraio di fronte a lei; non riesco a non chiedermi cosa stia sognando, cosa la tormenti. Improvvisamente, emette un suono breve, acuto ma soffocato, ripetuto, come il gatto che avevo da ragazzino quando puntava le mosche; si raggomitola ancora di più, e d'improvviso è sveglia, come un'esplosione, seduta sul letto, ansimante, gambe raccolte al petto, sguardo terrorizzato perso nel vuoto.

Nasconde il viso tra le ginocchia, e comincia a mormorare qualcosa che richiede qualche ripetizione prima di apparirmi chiara.

«Non ce la faccio. Non ce la faccio. Non ce la faccio. Non ce la faccio.» si volta verso di me, sembra sull'orlo del pianto, ma non lacrima «Perché non ce la faccio? Continuo a rivederli, sono … sono sempre loro, sono sempre là, e io lo so, me lo aspetto, sento che arrivano e io non me ne vado, perché non me ne vado? E poi sono sempre troppi, sempre troppo forti, non serve a niente sapersi difendere, e non arriva mai nessuno a salvarti …»

Comincia a singhiozzare, quasi mi cade addosso; la abbraccio, la lascio sfogare contro la mia spalla.

Lentamente ritrova la calma, il suo respiro si fa più sereno. Si sistema meglio contro di me, la testa poggiata sulla mia spalla, una gamba abbarbicata sulla mia; il mio braccio le cinge naturalmente il corpo, la mia mano riposa morbida sul suo fianco, la sua sul mio petto.

«Ti do fastidio?» mormora, timorosa. Scuoto il capo. Le sue dita cominciano a giocare con i peli sul mio petto. Passano lunghissimi secondi. Il suo tocco è sempre timido, trattenuto. «Non penso di potermi riaddormentare.» dice infine. Il suo cuore batte con tale violenza che riesco a sentirlo contro il mio costato.

«Hai paura.» «Sì.»

La sua risposta è immediata. La mia molto meno, distaccata da due respiri.

«Passerà.» e sento la monotonia della mia voce, perché non c'è di meglio che si possa fare. Fosse un'adulta, sarebbe più semplice; non sono necessarie parole, è tutto sottotesto; ed è sufficiente la presenza, e la pazienza, e sarà lei a definire i tempi, le parole, i gesti; come per la roscia, che è passata dal non tollerare la presenza di un uomo nella stessa stanza a cercare, benché raramente, la mia compagnia, per la sola sensazione di poter restare, senza paura, vicino ad un corpo maschile, immobili, silenziosi.

Ed ora invece i gesti non hanno significato, come le sue dita perse sul mio petto, sempre irrequiete; le parole non hanno peso, come le mie risposte senza domanda.

«Cosa è successo?» mi chiede improvvisamente. Non capisco nemmeno la domanda, non subito. È talmente brusca da farmi crede di essermi perso un momento importante qui e ora, qualche suono esterno, qualcosa.

«Cosa è successo quando?»

«Cosa gli hai fatto?»

Ah. Avrei dovuto immaginarlo. «Non vuoi saperlo.»

«Voglio saperlo.»

«No, non vuoi saperlo.» la mia voce è alterata; non insiste, ma ormai è andata, la mia mente è di nuovo là, in quell'aula sottosopra, con Hiromi davanti alla porta e tre ragazzini (quanto? quindici anni?) ancora arroganti.

Mi alzo di scatto, scrollandomela di dosso. Mi ritrovo a camminare per la stanza, con passi nervosi. Non sono fiero di me, di quello che ho fatto. Ma non me ne pento. Lo rifarei? Lo rifarei, so che lo rifarei. Anche se non ne vado fiero. Ed è per questo che non mi piace ripensarci. Non mi piace ripensarci. «Non mi piace ripensarci.»

«Scusami, non volevo …» si è sollevata in ginocchio, seduta sui talloni, al centro del letto, le braccia distese verso il basso, appena verso fuori, i palmi rivolti in avanti, imploranti.

Mi trovo a piantare violentemente i pugni sul letto, a spingere il mio viso a pochi millimetri dal suo. «Gli ho fatto male.» respiro «Molto male.» mi ritraggo appena «Ti ho detto che non volevi vedermi arrabbiato. Loro mi hanno visto arrabbiato.» Mi alzo nuovamente, mi allontano dal letto. «Sono ancora vivi.» concludo; poi ripeto, a voce più bassa «Sono ancora vivi.»

«Per favore …» solleva le braccia, quasi in preghiera, o come se volesse, debolmente, fermarmi.

«Mi calmo. Ora mi calmo.» Inspirare, espirare. Con calma.

Mi siedo sul letto, lei mi raggiunge, si poggia contro la mia schiena. «Scusami, per favore, non volevo.»

«Non importa.» sono di nuovo calmo «Non avrai chiusura.» mi guardo le dita delle mani, tolgo un'invisibile pellicina «Non avrai mai chiusura. È quello di cui la maggior parte delle persone non si rende conto. È come rompere un vaso. Se anche riesci a rimontarlo, a trovare tutti i cocci, avrà ora una fragilità che prima non aveva, una rete di crepe, per quanto invisibili. Puoi anche trovare un vaso identico, disfarti dei cocci di quello rotto, ma non sarà mai lo stesso vaso, perché tu saprai sempre che non è lo stesso vaso, avrai sempre coscienza di quella perdita.» Non mi accorgo nemmeno quando si stacca da me. «Le vendette non servono a nulla. Calde, fredde. Se sei superficiale, ti danno sul momento un senso di soddisfazione. Altrimenti, nemmeno quello. Puoi solo cercare di evitare che le cose succedano di nuovo.»

Quando mi volto verso di lei, si sta torturando le dita. So che mi vuole chiedere qualcosa, ma non trova il coraggio di farlo. «No, non stavo parlando per te. Non stavo parlando nemmeno a te, probabilmente. Era solo uno sfogo.» Ma lei è ancora lì, forse spaventata «Chiedi;» le dico; questa sua tensione mi infastidisce, mi innervosisce «se non voglio rispondere, non ti risponderò.» Ma non insistere.

«È … è successo qualcosa a qualcuna delle Custodi? In passato, dico.»

Sbuffo. «Non da quando sono Custodi. Ma molte di loro hanno … ciascuna di loro ha la sua storia alle spalle.»

«È per la loro … storia.» «No.»

Pausa.

«Prima?»

Non rispondo. Non voglio non rispondere, perché chissà quando si ripresenterà un momento in cui potremo riparlarne, e riesco quasi a sentire quanto per me sarebbe una liberazione, quanto sia necessario parlarne, prima o poi. Eppure non riesco a trovare il modo di rispondere.

«Prima delle Custodi?» ripete lei, come a chiarire la domanda.

«Sì.» rispondo alla fine, ed è troppo breve, ma non può essere più lunga.

Si guarda le dita. «Mi …» ma cambia domanda, ed io rimango con il dubbio su cosa volesse dirmi «È per questo che … che hai fatto tutto questo.» il suo gesto è vago, come ad indicare tutta la casa.

Sbuffo nuovamente, con una specie di sorriso. Ancora quella sua ingenua perspicacia. «Anche.» rispondo infine. Mi chiedo se anche la domanda che ha trattenuto avrebbe manifestato uguale acume.

Scende il silenzio, e lei si prende il tempo di pensare, fare ordine nelle proprie idee, formulare la prossima domanda, chissà.

Ed io mi sento meglio. Questa … sessione di domande e risposte riesce ad essere al tempo abbastanza asettica da definire distintamente un confine tra me e lei, ma anche tra lei e la memoria dell'altra, senza però privarsi, con il luogo, i modi, l'ora, di un'atmosfera quasi di intimità.

C'è qualcosa in tutto questo che mi ricorda la prima, agli inizi, quando, con il corpo teso dalla paura e voce che ogni tanto tremava, o moriva in un singulto, mi poneva domande sottovoce, quasi a non volersi far sentire da me, per svelare quanto dell'immagine mediatica dei gan'ka fosse vera, quanto falsa.

Ma c'è anche qualcosa di diverso ora, perché questa ragazzina è più diretta nelle domande, meno intimorita dalla mia presenza, anche se entra ed esce da uno stato di paura quando si accorge di aver chiesto troppo, quando non vuole chiedere troppo e non sa fin dove potersi spingere.

«Dovresti cercare di dormire.»

La paura torna sul suo viso. «Ho paura. Ho paura di … di avere di nuovo gli incubi se dormo.»

Mi siedo a bordo del letto, lei si fa da parte, lasciandomi spazio. Mi sdraio, voltandomi verso di lei. «Su,» la invito «vieni». Titubante, si stende davanti a me, voltandomi la schiena. Le passo un braccio sotto la testa, la attiro verso di me, la cingo anche con l'altro braccio, chiudendola in un abbraccio; è lei stessa ora ad aggiustare il proprio corpo contro il mio, ad intrecciare le proprio braccia alle mie, tirandole a sé.

Sento il palpitare irrequieto del suo cuore. «Hai ancora paura?» La sua risposta si fa attendere. «Un po'» dice infine «ma sto bene così.» e come per marcare queste parole, si aggrappa alle mie braccia con più forza.

Nel lungo silenzio che segue la sento scivolare periodicamente in un dormiveglia che non riesce a rilassarla completamente, e da cui si riprende con bruschi brividi. Ma è solo quando riprende a parlare che capisco che il suo desiderio di rimanere sveglia ha altre motivazioni oltre la semplice paura di ricadere negli incubi.

«Quando sono arrivata …» comincia «All'inizio questo posto mi … lo sentivo come una prigione, e non capivo come … come potessero vederlo diversamente, le Custodi, con tutti quei controlli, quella … sorveglianza.» si prende una pausa, poi continua «E ora invece penso che possa essere una fortezza, invece, che tutto quel controllo sia solo un modo per sapere se … se sta succedendo loro qualcosa, se sono in pericolo.»

Una nuova pausa, e stavolta sembra che aspetti una mia parola, una mia risposta ad una inesistente domanda, una conferma dell'una o dell'altra prospettiva. Ed infine, come a chiarire meglio il proprio dubbio, chiede: «Ma è solo questa la differenza tra una fortezza e una prigione? L'uso che se ne fa?»

Ed io penso che deve esserci stato un tempo in cui non c'era bisogno, ad un'età come la sua, di porsi queste domande; ed allo stesso tempo penso che è un bene che ci sia chi sappia porsele, in un mondo come quello in cui viviamo, anche alla sua età.

Sciolgo l'abbraccio, mi sdraio sulla schiena, un braccio a coprirmi gli occhi; ho bisogno di riflettere per trovare il modo giusto per rispondere, ed allo stesso tempo vorrei evitare di farlo, lasciare che sia lei a trovare le sue risposte. Ma c'è qualcosa su cui lei potrà difficilmente trovare risposta da sé, giacché persino per me rimane una risposta senza domanda, forse soprattutto perché è una domanda alla quale non ho mai veramente cercato risposta, ed è la domanda su cosa sia, veramente, questo posto.

Perché io so bene cosa sia per me, la mia casa, la mia fortezza, la mia pozza di pace; ma posso dire di sapere cosa sia questo posto per le mie Custodi? No, non posso dirlo, ma allo stesso tempo mi chiedo se sia davvero importante; mi sono sempre augurato che anche loro la vedessero, la vivessero allo stesso modo, ma quanto sarebbe diverso se così non fosse?

L'unica che avrebbe potuto vederla come una prigione è anche l'unica della quale so che così non è, la prima; per tutte le altre, il solo fatto che la permanenza sia una scelta, e che vi sono state —poche— quelle che hanno scelto di preferire le condizioni fuori a quelle dentro, per me è sufficiente a dire che non possano ragionevolmente considerare una prigione.

E mentre sono lì a riflettere su questo, mi raggiunge una nuova domanda, improvvisa: «Faresti mai qualcosa che ti metterebbe contro le Custodi?»

Allontano il braccio che mi copriva gli occhi, per cercare il suo sguardo, chiedendomi che nesso abbia questa doamnda con il resto, da dove le sia venuta. Si è nuovamente seduta sui talloni, puntellando le braccia tese contro le ginocchia, irrequieta.

«Perché non dovrei?» ma alla domanda lei non risponde, forse non sa cosa rispondere «Le mie scelte sono mia —e solo mia— prerogativa.» mi sollevo a sedere, incrociando le gambe «Le Custodi sono mie ospiti. Posso chiedere un loro parere, e loro sono libere di esprimere il loro dissenso, ma le mie scelte sono mie, e se ritengo di fare qualcosa con la quale loro non sono d'accordo, sta a loro scegliere se acettarla comunque —e rimanere— o andarsene.»

Si morde il labbro; non capisco se è perplessa o delusa, o entrambi.

«È … dispotico.» «È una scelta che loro fanno. My house, my rules

«E non è mai successo?» «È successo che qualcuna abbia preferito andar via.» «Ma non hai mai fatto qualcosa che … che tutte le Custodi pensassero fosse … insomma, per la quale decidessero di andarsene, o minacciassero di andar via tutte.» «No, non è mai successo.» «E per te non sarebbe un … un deterrente? Non hai mai rinunciato a fare qualcosa perché sapevi —o pensavi— che le Custodi si sarebbero ribellate?» «No.»

Adesso sono sicuro che la sua sia un'espressione di delusione. «Qual è il problema?» le chiedo; ma lei distoglie lo sguardo, le mani giocherellano irrequiete. «Niente,» risponde infine «pensavo.»

Torno a sdraiarmi, con uno sbuffo di esasperazione. Lei mi stende accanto, premendo il proprio corpo contro il mio, una gamba a cingere la mia, un braccio a scivolare sul mio petto, le dita a giocare con i peli. Le cingo nuovamente la schiena, lascio che la mia mano riposi sul suo fianco.

«È bello stare così.» mormora; e dopo un lungo silenzio, riprende: «Mi piacerebbe sapere cosa sono, veramente, per te. E anche se non lo so davvero, vorrei … vorrei essere qualcosa di più. Ecco, qualcosa di più.»

Ed un attimo dopo è scivolata nel sonno.

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«Mettiamo in chiaro una cosa. Se in qualunque momento io decidessi di … avere un rapporto sessuale con te, non ci sarebbe nulla e nessuno qui che potrebbe impedirmelo. E qualunque Custode non … accettasse la cosa sarebbe libera di andar via —e mai più tornare— quando volesse.»

«Ma tu lo faresti?» pausa «Con me, dico.» pausa «Se io … se io volessi.» pausa, china lo sguardo «Perché io non penso che lo faresti contro … contro la mia volontà. Non hai mai … avresti potuto, molte volte; e mi hai anche salvata da … da uno s-s-stupro. Non …» si ferma, le sue mani sono di nuovo nervose «Sono venuta qui sperando che succedesse qualcosa. Volevo che succedesse qualcosa. E avevo paura che succedesse qualcosa. Vorrei che succedesse qualcosa, e ho … ho ancora paura, ma … mi sento come se … ho paura, ma vorrei …» solleva lo sguardo, timida, senza sollevare il capo, come a cercare la mia reazione, come se sentisse di aver detto qualcosa di troppo grosso, di sconvolgente.