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Quelli che … il COVID
Parodia / estensione di “Quelli che …” di Enzo Jannacci
Quelli che con una buona dormita passa tutto, anche il COVID, oh yeah.
Quelli che è soltanto un'influenza, oh yeah.
Quelli che le mascherine non servono a niente, oh yeah.
Quelli che hanno le mascherine due misure piú grandi, oh yeah,
Quelli che tengono il naso fuori dalla mascherina, oh yeah,
Quelli che usano la stessa mascherina per un mese, oh yeah,
Quelli che si abbassano la mascherina e si sporgono in avanti per parlarti, oh yeah.
Quelli che si abbassano la mascherina e starnutiscono tra le mani, oh yeah.
Quelli che #milanononsiferma, oh yeah,
Quelli che la Lombardia ha gestito bene la pandemia, oh yeah,
Quelli che il Veneto ha fatto meglio delle altre regioni, grazie Zaia,
ma poi Zaia silura Crisanti e la regione va allo sfascio, oh yeah.
Quelli che denunciano Crisanti perché fa fare brutta figura alla regione, oh yeah.
Quelli che ogni regione deve fare per sé, oh yeah,
Quelli che si sorprendono di non poter venir trasferiti in un'altra regione quando le ITU della loro sono sature, oh yeah.
Quelli che dobbiamo tornare alla normalità, oh yeah
Quelli che è importante che la gente non si abitui a vivere piú rilassata, oh yeah
Quelli che se non torniamo in ufficio i palazzinari piangono, oh yeah.
(E i bar del centro con le insalatine da 15€, oh yeah.)
(E gli estetisti, e i negozi di vestiti di via Monte Napoleone, oh yeah.)
Quelli che i ristori sono una miseria rispetto a quanto incassavo prima, oh yeah,
(ma non hanno mai denunciato al Fisco quello che incassavano prima, oh yeah.)
Quelli che piangono miseria perché il governo gli ha chiuso la catena di bar e ristoranti, oh yeah,
Quelli che si scopre che gli avevano chiuso il bar prima della pandemia perché non pagava l'affitto, oh yeah,
(E nemmeno i dipendenti e i fornitori, oh yeah.)
Quelli che organizzano la manifestazione per la riapertura dei bar, oh yeah,
Quelli che partecipano alla manifestazione sotto minaccia di licenziamento, oh yeah.
Quelli che scrivono articoli contro lo smartworking stando in smartworking, oh yeah.
Quelli che lo smartworking è stare in panciolle sul divano tutto il giorno, oh yeah,
Quelli che se chiedi lo smartworking ti metto in CIG, oh yeah,
Quelli che in smartworking la gente lavora dal Sud e quindi fa crollare l'economia, oh yeah,
Quelli che lo smartworking fa male alla schiena, oh yeah,
Quelli che lo smartworking fa male alla pelle, oh yeah,
Quelli che lo smartworking fa male alla circonferenza vita, oh yeah,
Quelli che lo smartworking fa male alla vita sociale, oh yeah,
Quelli che in smartworking ti manca la compagnia dell'ufficio, oh yeah,
(e le tresche, e le pause caffé, e i pettegolezzi, e l'estetista in pausa pranzo,
eccetera, eccetera, eccetera)
Quelli che evidentemente in ufficio facevano tutto tranne che lavorare, oh yeah.
Quelli che i contagi avvengono soprattutto in famiglia, oh yeah,
Quelli che è colpa dei cinghiali, oh yeah,
Quelli che al supermercato non si è mai ammalato nessuno, oh yeah,
Quelli che i controlli in azienda sono spirito anti-imprenditoriale, oh yeah,
Quelli che mettiamo i braccialetti con l'allerta se i dipendenti si avvicinano a meno di un metro, oh yeah,
Quelli che non ci sono contagi sul posto di lavoro, oh yeah,
Quelli che quando ci sono contagi sul posto di lavoro non lo dicono per evitare le quarantene cautelative, oh yeah.
Quelli che col tracciamento potremo riaprire in sicurezza, oh yeah,
Quelli che non installano l'app di tracciamento perché il governo ci spia, oh yeah,
Quelli che ricevono le notifiche dalla Germania perché i codici sono condivisi, oh yeah,
Quelli che non ricevono le notifiche perché la regione ha un'app diversa dal resto d'Italia, oh yeah,
Quelli che non ricevono le notifiche perché l'ASP non aggiorna il database, oh yeah,
Quelli che ricevono le notifiche, ma l'ASP non ha personale e restano in quarantena per mesi, oh yeah.
Quelli che le scuole sono sicure, oh yeah,
(le stesse che cascano in testa ai bambini anche senza COVID, oh yeah)
Quelli che i banchi con le rotelle aiutano a matenere le distanze, oh yeah,
Quelli che è colpa delle scuole se poi non usano i banchi con le rotelle, oh yeah.
Quelli che se non apriamo le scuole, dove mettiamo i bambini mentre i genitori sono al lavoro, oh yeah,
Quelli che se sei in smartworking puoi tenerti il bambino a casa, oh yeah.
Quelli che la DAD fa schifo, bisogna riaprire le scuole, oh yeah,
Quelli che devono fare DAD comunque perché metà delle classi è in quarantena cautelativa e metà dei professori si è beccato il COVID, oh yeah.
Quelli che basta tenere le finestre aperte cinque minuti quando cambia la lezione, oh yeah,
Quelli che non aprire la finestra che c'è freddo, oh yeah.
Quelli che i bambini devono fare il tampone se manifestano sintomi influenzali, oh yeah
Quelli che se aspettano che l'ASP faccia il tampone al bambino devono tenerlo in casa un mese, oh yeah.
Quelli che propongono di fare tamponi a tutti gli studenti prima di entrare a scuola, oh yeah.
Quelli che non ci sono i reagenti per fare i tamponi, oh yeah,
Quelli che propongono di fare meno tamponi per avere meno casi, oh yeah,
Quelli che finalmente si lavano e disinfettano le mani, oh yeah,
Quelli che ma come mai la vendita di Imodium è crollata del 90%, oh yeah,
Quelli che disinfettano tutte le superfici, oh yeah,
Quelli che disinfettano le strade, oh yeah,
Quelli che disinfettano le spiagge, oh yeah.
Quelli che chiudiamo tutto e non usciamo di casa, oh yeah,
Quelli che escono di casa per andare al lavoro, oh yeah.
Quelli che escono di casa perché sono persone famose, oh yeah,
Quelli che possono uscire di casa per far passeggiare il cane, oh yeah,
Quelli che non possono uscire di casa per far passeggiare il bambino, oh yeah,
Quelli che fanno il frontale con le strade vuote, oh yeah,
Ed entrambe le macchine sono delle forze dell'ordine, oh yeah.
Quelli che fanno la multa al tizio che esce a comprare il vino ogni due ore, oh yeah,
Quelli che fanno la multa al tizio da solo in spiaggia, oh yeah,
Quelli che sorvegliano le spiagge con l'elicottero, oh yeah.
Quelli che è colpa dei runner, oh yeah,
Quelli che è colpa degli assembramenti all'aperto, oh yeah,
Quelli che è colpa degli assembramenti perché tutta l'Italia è Roma o Milano, oh yeah.
Quelli che scattano la foto col teleobiettivo per poter dare la colpa gli assembramenti, oh yeah.
Quelli che distanza minima di 1 metro, oh yeah,
Misurata dalla punta del naso alla punta del naso con le persone perfettamente immobili tutte a guardare nella stessa direzione, per farci entrare piú persone, oh yeah,
Quelli che capienza massima al 50%, oh yeah,
Quelli che stanno impaccati come sardine nella metro e sui bus per andare a scuola o in ufficio, oh yeah,
Quelli che passano 8 ore in ufficio col collega senza mascherina, oh yeah,
Quelli che però mettiamo il coprifuoco alle 18 se no la gente si contagia andando a fare la passeggiata, oh yeah,
Quelli che si oppongono al coprifuoco per difendere gli interessi dei ristoratori, oh yeah
(E fanno pressione per spostare il coprifuoco dopo cena cosí ci si può contagiare al ristorante, oh yeah)
Quelli che se torni a casa piú tardi devi avere lo scontrino per dimostrare di essere stato a ristorante, oh yeah.
Quelli che in Svezia non hanno tutte queste restrizioni ed i contagi sono bassissimi, oh yeah,
Quelli che non guardano a Norvegia, Danimarca e Finlandia dove i contagi sono un ordine di grandezza in meno, oh yeah,
Quelli che non possiamo chiudere troppo perché se no l'economia soffre, oh yeah,
Quelli che ma come mai la Svezia ha avuto la stessa perdita di PIL degli altri paesi scandinavi?
Quelli che al governo fermano tutto in tutta Italia, oh yeah,
Quelli che alla regione vogliono decidere se tenere aperto, oh yeah,
Quelli che al governo delegano alle regioni di decidere se aprire, oh yeah,
Quelli che alla regione dicono no, deve decidere il governo, oh yeah,
Quelli che decidono i criteri per le restrizioni ed i colori per rappresentarle, oh yeah,
Quelli che cambiano i criteri ogni settimana, oh yeah,
Quelli che taroccano i dati per allentare le restrizioni, oh yeah.
Quelli che sono nella regione rossa, oh yeah,
Quelli che sono nella regione arancione, oh yeah,
Quelli che sono nella regione arancione rinforzata, oh yeah,
Quelli che sono nella regione bianca e quindi aprono tutto per richiamare i turisti dalle altre regioni, oh yeah.
Quelli che la gente deve poter andare nella seconda casa anche in un'altra regione, anche se in zona rossa, oh yeah,
Quelli che però non puoi spostarti di comune nemmeno in zona arancione, oh yeah,
Quelli che non hanno la seconda casa, oh yeah.
Quelli che le decisioni seguono le direttive del CTS, oh yeah,
Quelli che al CTS non hanno mai dato quelle direttive, oh yeah,
Quelli che cambiano le direttive perché non piacciono a Confindustria, oh yeah.
Quelli che il virus è fatto in laboratorio a Wuhan, oh yeah,
Quelli che fanno finta di non sentire la domanda della rappresentante di Taiwan e poi le chiudono la chiamata, oh yeah
Quelli che la Cina tarocca i dati, oh yeah,
Quelli che la Florida non tarocca i dati, oh yeah,
Quelli che confrontano i dati di regioni con densità abitative completamente diverse, oh yeah,
Quelli che l'idrossiclorochina, la candeggina, l'antimalarica, l'antisifilitica, oh yeah,
Quelli che a Cuba che ne sanno di scienza, oh yeah,
E magari sono stati curati dai medici cubani in missione in Italia, oh yeah.
Quelli che le decisioni dell'OMS sono solo politiche, oh yeah,
E poi ti citano le decisioni dell'OMS quando fa loro comodo, oh yeah.
Quelli che il virus cinese, oh yeah,
Quelli che la variante inglese, oh yeah,
Quelli che la variante sudamericana, oh yeah,
Quelli che la variante africana, oh yeah,
Quelli che la variante indiana, oh yeah,
Quelli che l'immunità di gregge avviene anche col semplice contagio naturale, prima o poi, oh yeah.
Piú poi che prima, e chissà con quanti morti, ma oh yeah.
Quelli che i vaccini non arriveranno mai in tempo, oh yeah,
Quelli che i vaccini ce li abbiamo grazie al capitalismo, oh yeah,
Quelli che i vaccini ne avremmo di piú se non avessimo contrattato, oh yeah
Quelli che non riusciamo a usare le dosi che abbiamo perché la gente non viene a farsi vaccinare, oh yeah,
Quelli che i vaccini sono un complotto di BigPharma, oh yeah,
Quelli che i vaccini sono un complotto di Bill Gates, oh yeah,
Quelli che col vaccino ti iniettano il 5G, oh yeah.
Quelli che le primule presso cui vaccinarsi, oh yeah,
Quelli che vacciniamo per età, oh yeah,
Quelli che vacciniamo per categorie di rischio, oh yeah,
Quelli che le categorie di rischio le fanno decidere a Confindustria, oh yeah,
Quelli che telefonano al medico per farsi classificare come a rischio, oh yeah.
Quelli che riaprono le librerie perché sono le farmacie dell'anima, oh yeah
Quelli che vacciniamo i farmacisti, ma non i librai, oh yeah.
Quelli che AstraZeneca è pericoloso, oh yeah,
Quelli che ma come mai la gente rifiuta di vaccinarsi con AstraZeneca, oh yeah,
Quelli che SputnikV fa meno morti degli altri vaccini, oh yeah,
Quelli che controllano i dati di SputnikV e scoprono che è solo propaganda, oh yeah,
Quelli che scoprono che il virus vettore di SputnikV non è stato inattivato, oh yeah.
Quelli che il governo dei migliori, oh yeah,
Quelli che fanno cadere il governo dei migliori, oh yeah,
Quelli che appoggiano il governo di Confindustria, oh yeah.
Quelli che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, oh yeah,
Quelli che nel PNRR non mettono la ricerca, oh yeah,
Quelli che l'agenda digitale, l'economia green, però con tutti quanti in presenza in ufficio al centro, oh yeah.
Quelli che ne usciremo migliori, oh yeah.
Quelli che il rischio calcolato, oh yeah.
Quelli che tanto muiono solo i vecchi nelle RSA, oh yeah.
Quelli che tanto muiono solo i cardiopatici, oh yeah.
Quelli che la dittatura sanitaria, oh yeah.
Quelli che se non vuoi infettarti stattene a casa tu, oh yeah.
(E non me ne voglia Enzo Jannacci.)
Lenza
Lenza, amo ed esca
Servono per andare a pesca
Marco Fulvio Barozzi (clerihew)
Marco Fulvio Barozzi Andava a pescar di scienza nei pozzi Scriveva di matematica e poesia Sperando che il vento non se le portasse via.
Marco Fulvio Barozzi
Andava a pescar di scienza nei pozzi
Scriveva di matematica in poesia
Sperando che il vento non se la portasse via.
Lucia Azzolina (clerihew)
Lucia Azzolina Ha fatto una figura barbina Con una decisione diversa ogni dí Per proteggere la scuola dal coviddí.
Lucia Azzolina
Ha fatto una figura barbina
Con una decisione diversa ogni dí
Per proteggere la scuola dal coviddí.
Guido Bertolaso (clerihew)
Dicono di Guido Bertolaso Che facesse le cose a caso Gestí L'Aquila meglio di Amatrice Ma la sua fine fu una massaggiatrice.
Dicono di Guido Bertolaso
Che facesse le cose a caso
Gestí L'Aquila meglio di Amatrice
Ma la sua fine fu una massaggiatrice.
Asintomatica
Parodia di “Abbronzatissima” di Edoardo Vianello e Carlo Rossi, in tema coronavirus
A A Asintomatica
Senza la mascherina
Com'è bello sognare
Abbracciato con te
A A Asintomatica
A due passi dal mare
Com'è dolce sentirti
Respirare con me
Dalle nari tue dolcissime
Un effluvio da infezione
Sentirò per tutto il tempo
Di questa
estate
COVID
Quando il virus diffusissimo
Tornerà aggressivissimo
Questi giorni in riva al mar
Non potrò dimenticar
A A Asintomatica
Senza la mascherina
A due passi dal mare
Abbracciato con te
Dalle nari tue dolcissime
Un effluvio da infezione
Sentirò per tutto il tempo
Di questa
estate
COVID
Quando il virus diffusissimo
Tornerà aggressivissimo
Questi giorni in riva al mar
Non potrò dimenticar
A A Asintomatica
Senza la mascherina
A due passi dal mare
Abbracciato con te
A A Asintomatica
(E non me ne vogliano Vianello e Rossi)
Io potrei … non dovrei … ma se vuoi …
Parodia di “Io vorrei … non vorrei … ma se vuoi” (Battisti / Mogol), in tema coronavirus
Cosa fai, quando poi, resti sola?
Internet, come sai, non consola
Quando il virus arrivò, per esempio,
Trasformai la mia casa in un tempio
E da allora solo oggi non farnetico piú
A guarirmi chi fu?
Ho paura a dirti che sei tu
Ora noi siamo già più vicini
Io potrei, non dovrei, ma se vuoi
Come può uno stronzo
Arginare il male
Anche se non voglio
Torna già a girare
Per le strade vuote
E le aziende chiuse
Quarantene ardite
per le risalite
Verso i centomila
E poi giù in calata
E poi ancora in alto
Con un grande salto
Cosa fai, quando poi, resti sola?
Mascherine, tu lo sai, non si trovan
Io quel dì le trovai, ma per caso
Con i guanti al mercato quasi vuoto
Cucitrice nella stanza, mascherine per lei
Io la morte abbracciai
Ho paura a dirti che per te, le cucii
Oramai fra di noi solo un metro
Io potrei, non dovrei, ma se vuoi
Come può uno stronzo
Arginare il male
Anche se non voglio
Torna già a girare
Per le strade vuote
E le aziende chiuse
Quarantene ardite
per le risalite
Verso i centomila
E poi giù in calata
E poi ancora in alto
Con un grande salto
(Ispirato da questo twit. E non me ne vogliano Battisti e Mogol.)
Conte, partirò
Parodia di “Con te, partirò” (Quarantotto / Sartori / Bocelli), in tema coronavirus
Quando sono solo e sogno all'orizzonte mancan le persone
Sì lo so che non c'è gente in giro quando c'è il Corona
Se non ci sei tu con me, con me
Su l'internette
Mostro a tutti il mio cibo che vo mangiando
Chiusi dentro casa
La sanità
Mentale che ci abbandona
Conte, partirò
Paesi
Che non ho mai
Voluto vedere, Conte,
Adesso visiterò
Conte, partirò
Le navi ed i voli
Che, io lo so,
No, no, non esistono più
Conte, io prenderò
Quando sei lontana e sogno all'orizzonte, mancan le persone
E io sì lo so che sei con me, con me
Tu mia luna, tu sei qui con me
Mio sole tu sei qui con me
Con me, con me, con me
Conte, partirò
Paesi
Che non ho mai
Voluto vedere, Conte
Adesso visiterò
Conte, partirò
Le navi ed i voli
Che, io lo so,
No, no, non esistono più
Conte, io li prenderò
Conte, partirò
Le navi ed i voli
Che, io lo so,
No, no, non esistono più
Conte, io li prenderò
Conte, partirò
Io, Conte
(E non me ne voglia Bocelli)
A casa tua
Parodia di “Anima mia” dei Cugini di Campagna, in tema coronavirus
Me ne andavo a piedi per la strada
Tossí qualcuno e un'ombra mi seguì
Un'infezione tutto il mondo sfida
E permanente stende un uomo con “eccí”
Nel cuore avevo un soffio trascurato
E due polmoni che credevo sani
Negli occhi la paura del domani
Quando vidi infine i risultati
La notte lui dormiva nel mio petto
Sentivo il mio respiro sempre men
Mi prenderei a calci se potessi
C'è ancora il suo sapore qui con me
Coronavirus
Resta a casa tua
Ti chiamerò perché sto odiando queste mura
Anima mia
Nella stanza tua
C'è ancora un letto riservato all'ICU?
Avrei soltanto voglia di sapere (Non cercarmi)
Che fine ha fatto chi già s'è ammalato (Non toccarmi)
Se ha brividi di freddo per la febbre
E se può respirare oppure no
Coronavirus
Resta a casa tua
Ti chiamerò perché sto odiando queste mura
Anima mia
Nella stanza tua
C'è ancora un letto riservato all'ICU?
Coronavirus
Resta a casa tua
Ti chiamerò perché sto odiando queste mura
Anima mia
Nella stanza tua
C'è ancora un letto riservato all'ICU?
(Ispirato da una battuta su Spinoza
E non me ne vogliano i Cugini di Campagna)
L'importante è riaprire
Parodia di “L'importante è finire” (testo: Cristiano Malgioglio; musica: Alberto Anelli; voce: Mina), in tema coronavirus
Adesso
siam chiusi qui
usciam poco di casa
solo per lavorare
e tuttavia
Ad un tratto mi sento d'improvviso malato
il respiro mi manca
e poi e poi e poi
e poi
Se riaccendo la TV
ci son dati del menga
stan morendo un po' tutti
ho deciso io mollo
ma non so se poi farlo o tornare al lavoro
l'importante è è
è riaprire
Adesso
volto la faccia
questa è l'ultima volta che mi faccio fermare
e poi e poi
Han talento da grandi a cercare cavilli
a tirar delle scuse
e poi e poi e poi e poi
e poi
Ci son capri espiatori
I vecchietti e le corse
Ricomincian da capo
Se mi manca il respiro
io non so se restare o tornare al lavoro
l'importante è è
è riaprire.
(Ispirato alla continua richiesta di riaprire le attività senza nessun accenno all'importanza della sicurezza di chi vi lavora —importanza finora trascurata e causa della drammatica situazione in certe regioni nonostante il lockdown attraverso il quale piú di metà dei lavoratori ha continuato —inconsciamente— a diffondere il contagio.
E non me vogliano gli autori.)
Come si suda
Parodia “Come si cambia” (Piccoli/Pareti/Mannoia) in tema intollerabile calore estivo
Un pomeriggio della vita ad aspettare che qualcosa voli
assaporare il vento di qualcuno che ti passa accanto
rimaner dentro tutto il giorno
per vedere se per caso c'era
e sentire dietro il muro un suono di frumento
mentre il ventilatore gira un'altra volta
Come si suda per non morire
come si suda per il caldo
come si suda per non soffrire
come si suda per un po' di fresco
Con gli occhi chiusi e appiccicosi
quaranta gradi credo che sverrò
ah ci fosse pioggia sopra le mie spalle nude
finestre aperte nella notte
volere fresco e non sapere come
sopra un letto di lenzuola zuppe spaparanzarsi nudi
e rivoltare il cuscino dal lato fresco
Come si suda per non morire
come si suda per il caldo
come si suda per non soffrire
come si suda per un po' di fresco
Quante luci dentro han già spento
quante volte i pori hanno pianto
quante goccioline ho già terso
(oh no, oh no)
Come si suda per non morire
come si suda
Sentire il soffio della vita
su questo letto che fra poco vola
toccarti il cuore con le dita
ed aver tanta paura
di scoprire che domani farà piú caldo
Come si suda per non morire
come si suda per il caldo
come si suda per non soffrire
come si suda per un po' di fresco
(Ispirato al cado di questi giorni,
E non me ne voglia Fiorella Mannoia)
Gan'ka/54
Sul momento, l'incontro con la Prima lascia alla bambina un senso d'angoscia; non tanto per non aver trovato sollievo o conforto per la propria posizione in un'eventuale affinità con la Custode, quanto per la discrepanza tra il susseguirsi degli eventi come la donna li ha raccontati, e quello che la donna stessa sembra averne derivato, questo suo sembrare pazza —la bambina non trova un termine migliore— per il gan'ka, nonostante la di lui manifesta —a detta della diretta interessata— crudeltà prima ed indifferenza poi.
La bambina si ritrova a rimuginare su questo, seduta alla propria scrivania, mentre contempla il cielo che scurisce fuori. Continua a dominarla la sensazione che manchi qualcosa, in quel racconto, qualcosa che potrebbe rivelarle la chiave di quell'attaccamento —attaccamento che non sembra unicamente della Prima: pur non conoscendone la storia, ad esempio, la bambina non può dimenticare la deferenza che Hiromi mostra nei confronti dell'uomo.
Ed è tutto così spontaneo, naturale, come se non si potesse non provare una qualche forma di ammirazione, di gratitudine per quell'uomo, nonostante il suo comportamento. La bambina si chiede se ci sia una qualche forma di ipnosi con cui il gan'ka tiene sotto controllo le sue Custodi, o qualche artificio più tecnologico, come il bracciale che le orna il polso.
Eppure, se fosse questo, non dovrebbe anche lei sentirsi attratta dal gan'ka? È passato un mese da quando l'ha indossato, e non l'ha mai tolto; si è ormai abituata talmente alla sua presenza, da doverlo contemplare con i proprio occhi per essere certa della sua presenza. Forse la sua azione è ancora più lenta, o forse ci sono persone su cui non ha effetto, ed è per questo che alcune donne sono riuscite a decidere di andarsene?
La bambina non è estranea al concetto di controllo mentale, e ricorda la morbosa fascinazione con cui divorava romanzi e racconti ‘proibiti’ in cui questo era uno degli elementi chiave della narrativa. L'idea di trovarsi ora a vivere qualcosa del genere le dà un brivido di eccitazione e di paura. Stavolta, la sensazione di essere capitata in qualcosa di più grande di lei le dà un senso di esaltazione, come se fosse diventata l'eroina di un romanzo.
Ed ecco, il suo ruolo là dentro sarà quello di mostrare alle Custodi la loro condizione, aiutarle a liberarsi del controllo che il gan'ka esercita su di loro. E se fosse a questo che si riferiva la Prima, con le parole con cui l'ha congedata?
Eppure, affinché lei possa liberare le altre, è innanzi tutto necessario assicurarsi di non cadere ella stessa vittima di quella ipnosi, e se davvero il braccialetto ne è lo strumento, deve trovare un modo per neutralizzarlo senza dare nell'occhio.
La bambina comincia a perdersi nei proprî sogni ad occhi aperti, vivendo da eroina avventure in cui ora combatte un despota crudele infiltrandosi tra le fila delle sue seguaci e liberandone le prigioniere, ora sconfigge un mago cattivo spezzando l'incantesimo con cui questi aveva asservito un'intera nazione; ed il nemico è sempre troppo potente per essere affrontato frontalmente, e sotterfugio, simulazione e dissimulazione sono le uniche armi che possono sconfiggerlo: apparire deboli, o amichevoli, ingraziandoselo persino, per poi colpire rapidi e decisi alle spalle dopo averne guadagnata la fiducia.
A distoglierla dall'illusione è Lena, che bussa cauta alla porta. Appena dentro, la donna le rivolge la più ingenua delle domande, «come va?» ed improvvisamente la bambina si ricorda dei compiti per l'indomani, dello studio che la aspetta per recuperare il mese che la separa dai compagni di classe. «Oddío,» l'angoscia si stampa sul suo volto «che ore sono?» Le sue fantasie muoiono definitivamente, soffocate da quelle insignificanti incombenze.
Gan'ka/53
«Sto bene qui,» mormora «sto veramente bene qui. È un posto bellissimo, straordinario, e … e voi siete sempre così gentili, così affettuose con me, ed io mi sento pure in colpa, perché nonostante tutto continuo a sentirmi così … così lontana, perché non sono cose mie, non riesco a sentirle come cose mie,» un lieve tremolio si insinua nella sua voce, mentre continua: «ogni volta che mi viene da pensare che non sono … che sono stata portata qui così all'improvviso, senza … senza che mi chiedessero niente, senza che mi dicessero niente. Ed io mi sento così male, perché questo è un posto dove mi piacerebbe tanto vivere, e però non ci voglio vivere, non così, non in questo modo; vorrei … vorrei scegliere di vivere qui, e invece non posso, non posso scegliere, e continuo a pensare a dove dovrei essere, a dove sono sempre stata, ed è tutto così stupido perché è la cosa più bella che mi sia capitata, ed il modo più brutto in cui mi potesse capitare.»
Sembra prendere fiato, deglutisce, per liberare la gola da un ostacolo che non c'è. E continua, la voce sempre più disperata:
«E poi penso che non so nemmeno se voglio tornare a casa, perché non capisco, non capisco come possa essere successo, come se non fossero più loro, e non riesco a pensare cosa succederebbe, come la prenderebbero,» ed infine non riesce più a trattenere le lacrime «e mi immagino di tornare e mia mamma che piange appena mi vede, e mi abbraccia, ed è contentissima, e poi penso che invece no, mi guardano malissimo, mi trattano come … come un'estranea, mi insultano, mi gridano dietro “che ci fai qui?!”, perché non sono più nemmeno i miei, non come me li ricordo io, non possono essere come li ricordo io, ed io non so più cosa fare.»
Ed io vorrei poterti aiutare, pensa la Custode, vorrei poterti far stare meglio, vorrei poterti rasserenare, vorrei poterti far vedere, capire, vorrei liberarti da questa angoscia, da questo dilemma, scioglierti i dubbi, ma non so come fare, perché nulla nella mia vita potrà servirti da esempio, perché l'unica cosa che ti tiene indietro sono le tue radici, radici che io non avevo; non so cosa fare, se non abbracciarti, se non sperare che il tempo possa aiutare te come ha aiutato me, a uscire dalla nebbia, a ritrovare la tua vita.
Rimangono a lungo in silenzio, la donna seduta sul pavimento, a gambe incrociate, la bambina seduta in grembo alla donna, avvolta nel suo abbraccio, mentre la luce che trapela dalla finestra si affievolisce. E proprio quando la Custode ha la sensazione che Adele si sia addormentata, la bambina sembra riprendersi, si tira su.
«Scusa,» chiede, il suo tono è mesto, rassegnato «continuo a piangere sempre, per ogni cosa.» E la Custode vorrebbe consolarla, vorrebbe chiederle scusa per non esserle potuta essere maggiormente d'aiuto, ma non riesce nemmeno a dire questo, ed è invece la bambina a ringraziarla: «Mi sento meglio, ora.» si volta, pur rimanendo seduta tra le gambe della donna, fino a darle la schiena. Prova ad appoggiarsi così contro il petto della Custode, chiude gli occhi, sorride «È bello anche stare qui, così. Ti dispiace se rimaniamo così un altro po'?»
La donna le carezza i capelli, torna ad abbracciarla, poggiandosi lei stessa contro il muro: «Ogni volta che vuoi.» Il silenzio torna a scendere tra loro, mentre i loro sguardi si perdono nel riquadro di cielo incorniciato dalla finestra.
«Piangere fa bene.» la Custode trova finalmente le parole «Ti libera l'anima, la mente, lava via il dolore. Se non sapessimo piangere, le nostre angosce ci consumerebbero da dentro, ci ridurremmo a dei gusci vuoti, incartapecoriti sulle nostre sofferenze, o ci faremmo divorare dalla rabbia, dalla frustrazione, fino a uscirne pazzi.» E mentre parla, la Custode pensa alla singola persona che non ha mai visto piangere, o esprimere commozione, nemmeno nel raccontare le cose più atroci che gli siano capitate, una persona che preferisce ogni volta restare sola con il proprio dolore, una persona che rifugge dal trattare coloro che la circondano come fossero persone, e che tuttavia non riesce a tenere completamente nascosto l'affetto che prova per loro.
«Stai pensando a qualcuno, vero?» chiede la bambina.
«Cosa te lo fa pensare?» «Ti batte forte il cuore.»
Seriamente?
«È il gan'ka?»
La donna sospira.
«Sei innamorata di lui?»
La donna sbuffa, quasi irridente. «Innamorata.» Seriamente, innamorata? Innamorata. Sarebbe bello fosse così semplice, adolescenziale. Il fuoco della passione. Non può negare che era a lui che stava pensando, non può negare la profondità di ciò che prova per lui, ma non può ridurne la complessità ad un banale innamoramento. «È una persona molto importante nella mia vita.» si ritrova a dire, come se questo potesse essere una risposta. E nel silenzio che segue, la Custode sente come un'attesa, e si ritrova ad aggiungere spiegazioni: «Non puoi vivere vent'anni con una persona e rimanerci estranea.»
Ancora silenzio, come se la risposta non fosse stata soddisfacente. È quasi spazientita, la Custode, quando infine chiarisce «Comunque no, non ne sono innamorata. Ma è una persona a cui tengo. Molto.» E nonostante questo, la donna continua a sentirsi sulla difensiva, come se quelle domande fossero delle accuse da cui difendersi, o motivo di imbarazzo.
«Lo so, per te magari è difficile da … da comprendere, la cosa, perché la tua esperienza è stata molto diversa dalla … dalla mia,» e stava per dire ‘nostra’, invece, benché quella di ciascuna di loro sia stata diversa da quella delle altre «ma il gan'ka non è un mostro.» il suo sguardo si fissa un attimo su un punto indefinito del paesaggio fuori dalla finestra, in un'improvvisa epifania «O meglio, è un mostro, ma non è malvagio. Non so spiegartelo, non sono brava con le parole. Ha un modo tutto suo, e certe volte … discutibile di … di fare le cose, di trattare le persone, ma in vent'anni che sono con lui non l'ho mai visto fare una cosa per cattiveria. L'ho visto arrabbiato, feroce, disperato; l'ho visto perdere le staffe, l'ho visto anche freddo, indifferente, insensibile, ma non l'ho mai visto godere della sofferenza altrui, o agire mirando a causarne.»
«Nonostante il modo in cui ti ha trattata all'inizio.»
La donna sospira. «Lo so. Me lo sono chiesto anch'io, in questi anni, il motivo di quel comportamento, quei primi giorni, che senso avessero. Era come se fossero … non lo so, un esperimento.»
«Sono anch'io un esperimento?»
«No. Non sono il gan'ka, non sono mai riuscita a entrare nella sua testa, a capire come ragione, cosa prova, ma su questo non ho dubbi: non sei un esperimento.»
«Cosa sono, allora? Perché sono qui?»
La donna sospira nuovamente, il suo sguardo si perde sul soffitto. «Non lo so. Un caso. Ti confesso che il tuo arrivo ci ha sorpreso tutte. Quando ti ha portata qua …»
«Ti ha picchiata.»
La Custode rimane sorpresa del fatto che la bambina ricordi quei due schiaffi, che persino lei aveva quasi dimenticato. Sospira nuovamente, china il capo. «È vero. È raro che sia violento. Chissà cosa l'ha portato al punto di rottura; rabbia, stanchezza; posso solo immaginare cosa sia successo quella sera.»
«Cerchi sempre di giustificarlo.»
La Custode torna a guardare il soffitto. È la prima volta che si ritrova a parlare così di lei e del gan'ka con qualcuno, e tutto sembra andare nella direzione opposta a quella da lei pensata. Ridacchia. «Può darsi.» Il suo sguardo torna a perdersi sul soffitto «Credo … credo sia per … coprire la differenza tra il tuo modo di vederlo ed il mio. Mi dispiace, forse non è nemmeno corretto nei tuoi confronti, ma sento il bisogno di … bilanciare l'impressione negativa che ti ha fatto.»
«Perché è sbagliata.»
«Sbagliata? No, per quanto sia diversa dalla mia, per quanto io possa aver vissuto con lui molto più a lungo di te, non posso dire che la tua impressione sia sbagliata. Ma è … parziale, incompleta. E vorrei semplicemente aiutarti a … no, vorrei mostrarti come lo vedo io.»
La bambina non risponde, non commenta. La donna assume un tono più sereno: «Ognuna di noi, qui, ha avuto la propria esperienza, e con essa ha modellato la propria idea sul gan'ka, e non tutte sono necessariamente positive come ti può sembrare la mia. Non saresti certo l'unica ad avere le tue perplessità sul … sul suo modo di operare, persino sulle sue intenzioni. Ma anche la più scettica …»
La Custode si ferma, per evitare che il discorso torni a prendere una piega che potrebbe riportare la bambina al disperante pensiero sulla propria condizione. A che pro servirebbe menzionare la gratitudine che anche le Custodi più distanti dal gan'ka hanno verso l'uomo che ha dato loro la possibilità di vivere lì?
La bambina solleva il capo in cerca dello sguardo della donna. «Anche la più scettica?» «Niente, non importa.» sorride la Custode in risposta. La bambina sembra annuire, quindi improvvisamente si alza. «Devo andare in bagno. E ricominciare a studiare.» La donna rimane seduta lì, contro il muro, limitandosi ad alzare lo sguardo verso la sua interlocutrice.
«Grazie.» conclude la bambina, aprendo la porta.
«Anche a te.» le risponde la Custode, con uno stanco sorriso.
«Che c'entro io?»
«Sei una ragazzina sveglia, osservatrice, intelligente. Che tu ci creda o no, parlare con te aiuta anche noi.»
La bambina arrossisce, si volta, chiude la porta alle proprie spalle, scappa giù per il corridoio.
Gan'ka/52
La Custode torna a sedere alla scrivania. «Mi sono lasciata un po' andare. Scusa. Ti ho annoiato. O spaventato, forse.» sorride.
E la bambina non può fare a meno di chiedersi come possa sembrare così sereno, così spontaneo, così genuino quel sorriso. Il racconto della donna le ha dato un profondo senso di angoscia, di terrore, al punto da indurla a valutare l'opportunità di scappare dal racconto stesso. E quella donna, che l'ha vissuto in prima persona, ora sorride. Si chiede, la bambina, cosa abbia portato la Custode a rimanere con quel mostro così a lungo, se la disperazione, la sensazione di non avere altra possibilità, o quella cosa, come si chiamava, sindrome di Stoccolma?
La bambina sobbalza all'improvviso sospiro di esasperazione della donna. La Custode afferra lo schermo che ha davanti, lo piega quasi con violenza verso di sé, finché tutto l'apparato che ingombrava la scrivania non vi sparisce dentro; quindi si alza, e si butta a letto, prona, con le gambe dal lato dei cuscini, in modo da essere più vicina alla bambina, per poterle parlare con più calma.
«Ti starai facendo un'idea orribile del gan'ka, adesso, o ti starai chiedendo come abbia potuto rimanere con lui fino ad ora. Ma devi capire che per me è stato un salto di qualità. Non che ci volesse molto, visto le condizioni in cui ero prima, ma improvvisamente mi sono davvero ritrovata ‘libera’, pur non essendolo materialmente. Sì, è vero, dovevo occuparmi delle faccende di casa, ed ogni tanto lui mi chiedeva di tenergli compagnia, ma non ero mai stata così … serena, prima di allora. Non ho mai avuto tanto tempo a disposizione per me stessa. È vero, sono rimasta per paura, e gli inizi sono stati terrificanti, terribili, ma mi è difficile pensare che le cose per me sarebbero potute andare meglio altrimenti.»
Solleva lo sguardo, verso un punto indistinto della parete di fronte a sé, come cercando qualcosa. «Ti faccio un esempio. Il fatto che lui non mi trattasse come una persona era l'unica cosa che mi pesava davvero, nonostante venissi da una situazione in cui non potessi nemmeno immaginare una cosa del genere. Ma il fatto che i nostri rapporti fossero così ‘personali’ aveva improvvisamente cambiato anche le mie aspettative.» la sua voce si abbassa, come se tornasse a parlare a sé stessa «Che poi se ci pensi era abbastanza assurdo, visto come mi aveva trattata fino a poco prima.» per poi tornare normale «Ma ovviamente non è stata così,» schiocca le dita «istantanea, la cosa. Sono … emersa a questa percezione della nostra situazione, come tornare a galla dopo essere rimasta troppo a lungo sott'acqua: prima annaspi per riprendere fiato, poi finalmente cominci a renderti conto della tua situazione; magari ti cominci a preoccupare di essere dispersa in alto mare, nonostante fino a poco prima fosse l'ultimo dei tuoi pensieri, perché tutta la tua mente era concentrata su una sola cosa: trovare un modo per tornare a respirare. Ecco, per me il gan'ka è stato come tornare a respirare. E se magari all'inizio mi sembrava pure di essere in alto mare, durante una tempesta, poi mi sono accorta che non era vero nemmeno quello, ero già approdata.»
La Custode non può fare a meno di notare lo sguardo perplesso della bambina, ma dubita dell'utilità di continuare a raccontare i vent'anni o quasi che sono passati da allora, e come tutto sia cambiato nel frattempo. Ma non era nemmeno una spiegazione, ciò che quella bambina aveva chiesto: perché, allora, lei si è sentita spinta a raccontare tutto questo?
«Comunque, per tornare alla tua domanda, tecnicamente è vero che sono proprietà del gan'ka; ma sinceramente, è solo una questione formale. Potrei andarmene? Sì; ma è un'idea che non ho contemplato nemmeno di sfuggita da … praticamente da allora.»
Cade il silenzio tra loro, mentre la Custode pensa che ci sono talmente tante cose ancora che si potrebbero dire, sul rapporto tra lei e il gan'ka, o tra lui e le altre Custodi … avrebbe persino voglia, in questo momento, di suggerire alla bambina di dargli una possibilità, di non tenerlo così lontano, nonostante il distacco con cui lui stesso la tratta: ma sente di non avere ancora guadagnato sufficiente confidenza; e come a confermare che soprattutto quelle ultime parole hanno anzi forse sortito l'effetto contrario, la bambina finalmente spezza il silenzio tra loro con un mormorìo quasi disperato:
«Quindi in realtà non sei nella mia stessa condizione.»
Quelle parole preoccupano la Custode. La bambina, ora, come lei allora: la sensazione di essere prigioniera, il timore di venir perseguitata in caso di fuga.
«Adele.» la voce della Custode è ferma, quasi un rimprovero. Poi si addolcisce «Tu non sei prigioniera qui.» Vorrebbe poterlo dire meglio, vorrebbe poter dire di più, altro. Vorrebbe saper dire meglio.
Eppure non ha tutti i torti, la bambina: non sono nella stessa condizione, non erano nella stessa condizione; questa bambina non ha nemmeno dodici anni, mentre lei aveva già passato i venti; ma soprattutto, la bambina avrebbe una famiglia da cui tornare, non un mondo come quello che aspettava lei. Quanto sei fortunata, piccola; tanto fortunata da non renderti nemmeno conto di quanto tu lo sia.
«Ma non posso tornare dai miei.» è persino imbronciata, la bambina, nel dire questo. Ha la sensazione che vi sia qualcosa che le sfugge, di cui tutti gli altri sono a conoscenza, senza renderla partecipe nonostante sia la diretta interessata; ma anche al contrario, ha la sensazione di trovarsi davanti ad un muro insormontabile, un muro che lei vorrebbe attraversare, ma che solo lei riesce a vedere, un muro che invece le Custodi evitano con tale naturalezza, pur non vedendolo, da non potersi nemmeno rendere conto della sua presenza.
Una dissonanza, questa tra la propria percezione e quella delle Custodi, che la mette profondamente a disagio, frustrando ogni tentativo di comunicazione. Anche ora, la risposta della Custode, sembra essere su un piano completamente diverso: «Vorresti?»
Come fa ad essere genuina una domanda del genere? Certo che vorrebbe! «Sì!» risponde quasi con rabbia. Eppure, subito dopo, la sua certezza sfuma: «No, non lo so.» nasconde il viso tra le mani, sentendosi sull'orlo del pianto «Mi mancano, ma non so, non so più niente, non so più niente.»
La Custode si alza dal letto. «Posso abbracciarti?» chiede, sommessa. La bambina annuisce, senza scoprire il viso. Sente il calore del corpo della donna che la circonda, mentre la Custode le si siede accanto, attorno, avvolgendola con le gambe, con le braccia, premendola a sé. È un corpo così diverso da quello morbido ma ormai invecchiato di Nana, da quello quasi spigoloso di Lena; è un corpo solido, ma tenero; caldo; accogliente; profumato. La bambina scopre il viso, lascia cadere le braccia, lascia che quelle della donna la circondino completamente, poggia la testa contro quel florido petto, ad occhi chiusi, per tornare, lentamente, a respirare con calma.
Gan'ka/51
La stanza è più piccola di quelle che la bambina ha visto finora, persino il letto è una singola piazza, quando tutti gli altri sembrano essere matrimoniali. Dalla scrivania emergono uno schermo, una tastiera, ma la Custode che ha davanti, la Prima, è ora concentrata interamente su di lei.
Che sporco trucco, pensa la bambina, sbolognarmi così alla diretta interessata. Con quale faccia posso farle la domanda ora? Come posso chiederle una cosa del genere? Come fa la gente a ficcare il naso nella vita degli altri?
E la Custode è lì che aspetta, una Custode la cui ombra è su tutta la casa, ma con la quale lei non è mai entrata, nemmeno superficialmente, in confidenza; per quella sua vicinanza all'uomo, forse? Sarebbe tanto più semplice parlare con Lena, con Nana, forse persino con Hiromi —no, con Hiromi no, nonostante quella sensazione di leggerezza c'è qualcosa di duro, forte dentro di lei che la rende irraggiungibile, lontana.
«C'era qualcosa che dovevi chiedermi?» indaga la Prima. La bambina abbassa lo sguardo, travolta dall'imbarazzo; e quando finalmente trova il coraggio di parlare si pente subito della sua prima parola: «Valentina» come se fosse uno scarica barile, non una spiegazione, una scusa per l'intimità della domanda «Valentina mi ha … Valentina dice che sei in una condizione come la mia. Che anche tu non sei libera di andartene quando vuoi. Che …»
«Il gan'ka mi ha comprata.»
«No, non questo!» la bambina solleva lo sguardo di scatto «Dice …» La Custode scuote il capo, interrompendola di nuovo: «Era una risposta.»
Allo sguardo esterrefatto della bambina, la donna riprende: «Il gan'ka mi ha comprata. È quello che è successo. Prima di … prima che esistesse tutto questo.» allarga le braccia in un gesto che vorrebbe indicare la tenuta in cui si trovano. «Ha riscattato il debito che avevo con il mio protettore —e credo anche qualcosa di più, anche se non ho mai saputo. Mi ha comprata, e mi ha tenuta come sua schiava.»
La Custode si interrompe, ponderando la reazione della bambina, i suoi occhi spalancati dalla sorpresa; poi riprende, quasi con noncuranza:
«E non era nemmeno un padrone gentile. Non è che fosse violento, anche se …» fa un gesto come a cancellare quella deviazione dal suo racconto «no. Ma era come se … come se non fossi una persona, come se fossi solo un corpo; era questa la sensazione che dava: e per me, che per sfuggire alla condizione in cui ero stata fino ad allora mi ero rivolta a …» di nuovo quel gesto, poi uno sbuffo «è un po' paradossale, se non avessi avuto quella pittura facciale probabilmente non mi avrebbe nemmeno dato retta.» il suo sguardo vaga, perso nel ricordo; continua a raccontare, ma senza più quasi accorgersi della bambina «Aveva un'aria così reclusa, quasi timida; pensavo fosse uno di quegli sfigatelli che passavano di là perché era l'unico modo che avevano per trovarsi una donna.»
Gomito puntellato sulla scrivania, mento sul palmo della mano, la Custode si picchetta la punta del naso con il mignolo. Sorride. «Accidenti quanto tempo è passato.» il suo sguardo è perso oltre i vetri della finestra, la sua mente è lontana «Mi ero persino dimenticata quanto fosse un periodo buio, per me. C'era questa forma di … non lo so, religione, misticismo, un'àncora per gli sperduti, o forse per gli sprovveduti, che chiamavano “la torre dell'Io”, che andava in voga allora; aveva i suoi simboli, il suo credo, persino la sua lingua. J'thur. Immagino si fossero ispirati al francese, o qualcosa del genere. Non ne sai niente tu, vero?» si rivolge alla bambina che la guarda con gli stessi occhi sbarrati di prima, incredula «Era una cosa talmente diffusa, ai tempi.» torna a guardare fuori dalla finestra «Quanti anni fa era? Se non sono venti poco ci manca. C'ero dentro in pieno, era il mio modo per scappare dalla mia vita, ed ora non so nemmeno se esiste ancora. Le Quattro Vie … eh» sbuffa «forse quello era solo il suo modo di farmi comprendere che la Via che intendevo perseguire era quella sbagliata.»
Il silenzio scende tra loro, mentre la Custode si perde nel ricordo.
«Ho avuto paura, sai?» riprendere improvvisamente «La prima notte. Doveva essere semplicemente un cliente come un altro, nemmeno dei più impegnativi. E invece. Dodici ore in preda alla sua follia. Era tutto così strano. Una tortura, ma non fisica; o almeno, non particolarmente fisica. Era più il fatto che fosse tutto insensato. Non c'era quasi nulla di … di erotico, che era invece quello che mi aspettavo. Era come se stesse semplicemente facendo sfoggio del proprio dominio sulla mia persona, ma senza alcuna relazione con i canoni del …» scuote il capo, l'ennesima deviazione da non prendere. «Non c'era nemmeno una vera cattiveria, nel suo modo di fare, era più come se fosse … infantile forse, ma soprattutto alieno.»
La donna si copre gli occhi con le mani. «E quando sono passate le dodici ore, lì è veramente stato … lì ho veramente avuto paura. E quel … dolore.» respira a fondo, per riprendere il controllo. «Un attimo, un tocco, ed è stato come se l'intestino mi bruciasse da dentro.» scuote il capo, si morde il pollice «Mi ha tenuta rinchiusa in una stanza per una settimana, e non era nemmeno una stanza normale: una specie di piccola palestra, dormivo sui tappetini, e per andare in bagno dovevo aspettare che venisse lui ad accompagnarmi.»
La Custode si volta verso la bambina, che nel frattempo si è seduta lì, sul pavimento, davanti la porta. Non è difficile leggere il terrore che le si è stampato sul volto.
«Senza parole, senza spiegazioni, ed io per prima ero troppo spaventata per chiedere, per fare alcunché. Ero in un totale stato di confusione, e quando mi ha lasciata libera di circolare —per casa, ovviamente, senza poter uscire— è stato di nuovo senza spiegazioni, senza parole. Ho cenato con lui, ho lavato i piatti, mi sono stesa sul suo letto e lui mi ha lasciata dormire. Il giorno dopo è uscito con una valigetta, ed è tornato con una semplice carpetta di cartone, chiusa a proteggere i documenti della transazione con cui mi aveva comprato. Non riesco nemmeno ad immaginare con quale coraggio si sia potuto presentare dal mio protettore, dopo avermi tenuta sequestrata per una settimana. Il potere del denaro, immagino. Mi sorprende che non l'abbiano fatto secco, tenendosi i soldi per poi venirmi a ripescare. Avrà avuto i suoi mezzi.»
Sospira.
«E improvvisamente è cambiato tutto, senza che fosse cambiato nulla. Mi sono ritrovata … libera, senza essere libera. Le stesse regole di ora, fare ciò che dice di fare, non disturbare il suo sonno. Regole molto semplici, e che sul momento non ero nemmeno sicura di aver capito correttamente —mi sembravano folli come il resto del suo comportamento. Mi lascia uscire di casa ‘per fare la spesa’, e per comprarmi dei vestiti, ed io esco, per comprarmi i vestiti: esco con i suoi vestiti addosso, perché i miei erano introvabili, e la prima cosa che faccio è proprio andarmi a comprare i vestiti. E appena fuori da quel negozio sono rimasta … vuota.»
Si prende la testa tra le mani, premendosi le tempie: «Mi dicevo che dovevo approfittare di quell'occasione per scappare, era la mia unica possibilità di fuga, avevo abbastanza soldi con me —soldi suoi, ovviamente— da poter sparire completamente dalla circolazione, non farmi più trovare, ricominciare una nuova vita da qualche altra parte. Ma avevo paura.» si volta nuovamente verso la bambina «Paura che mi ritrovasse, che mi riportasse indietro, che mi facesse nuovamente provare quel dolore, che mi tenesse nuovamente rinchiusa per una settimana legata in quella palestra.» La sua voce, che era salita in un crescendo, crolla di colpo, e la donna sembra parlare quasi a sé stessa: «Non che rimanendo non ci fosse la stessa possibilità; era tutto così folle, imprevedibile, insensato: rimanere significava affidarsi completamente alla sua pazzia.»
Riprende un tono normale, quasi distaccato: «Sono rimasta ore a riflettere su cosa fare. Che in questi casi è una cosa stupida da fare, perché più esiti meno possibilità hai di fuggire, sparire. Esitare significa scegliere di rimanere. È quello che ho scelto alla fine, comunque. Sono tornata a casa.»
Nuovamente un lungo sospiro. «Quando mi ha vista, sembrava quasi deluso. “Sei tornata.” mi fa, e io non avevo nulla da rispondere. “Hai avuto paura.”. Che cosa potevo dire? Non avevo nemmeno il coraggio di parlargli. Poi mi volta le spalle —era ancora sdraiato a letto, ora a pancia in giù— poggia il mento sulle braccia incrociate, e mi fa: “Mi dispiace.”»
La donna si alza, si stiracchia, poi si accoscia davanti alla bambina, che sobbalza al movimento repentino della Custode:
«Era deluso, vedi? Mi aveva messo alla prova, ed avevo ‘fallito’, perché voleva che me ne andassi. Non mi sarebbe nemmeno venuto dietro, se me ne fossi andata, era proprio quello che sperava che io facessi, che scegliessi di essere libera. Ed invece io avevo perso la mia occasione, perché avevo troppa paura di cosa sarebbe potuto succedere se la fuga fosse fallita —cosa che in realtà non poteva nemmeno succedere.»
Il suo sguardo si alza, fissa lo spazio tra la bambina e la porta. «Sarebbero dovuti essere altri i miei timori, in realtà. Con il senno di poi … Ma il mio pensiero era ancora troppo legato a quella settimana di clausura, a quel dolore impossibile, tutto il resto era solo nebbia. Mi c'è voluto un anno, per tornare a ragionare con chiarezza su tutto. Un anno in cui sono stata praticamente poco più che una ragazza alla pari, e l'unico vero problema era questo distacco, questo suo modo di interagire con me come se non fossi una vera e propria persona.»
Gan'ka/50
Potrei chiederle scusa. C'è una piccola parte di me che esprime questo flebile pensiero, facendosi forza del fatto che questo è un momento che potrebbe non capitare più, un momento in cui, forse per la prima volta, stiamo parlando, sebbene senza guardarci, sebbene voltandoci le spalle, per essere più liberi di comunicare. E davvero c'è da stupirsi che io pensi così poco di questa forma di comunicazione?
Potrei chiederle scusa, ma davvero, sarebbe un pensiero sincero? Ci sarebbe qualcosa da dire oltre ad un “mi dispiace”, soprattutto se mi dispiace più per me che per lei, se quello che veramente mi turba non è l'effetto sulla sua persona, ma quello sull'equilibrio della mia vita? Quanto sincere possono essere le mie scuse quando penso che la vita che le viene offerta ora è migliore di quella che aveva prima?
Potrei chiederle scusa, ed invece quello di cui vorrei parlare è quanto la stia accecando il dolore per lo strappo dei precedenti legami affettivi; ma so che non riuscirei a parlarne senza sembrare un automa insensibile. E forse è questo che sono, o quello che ero diventato, prima che la sua presenza tornasse a far riemergere in me dolorose memorie.
Vorrei tornare a casa. Non puoi. Perché? Perché tuo padre ti ha giocata a carte, e ha perso: ora sei di mia proprietà. Che te ne fai di me, se la mia presenza è solo un fastidio, una spina nella memoria?
Ecco, a questo non saprei rispondere. O forse l'ho già fatto, dando alla cosa un valore catartico, un riscatto per quello che non ho potuto fare per loro. O forse invece è perché questo dolore è l'unica cosa che riesco a provare, e tornare a sentirlo è l'unico modo che mi rimane per sentirmi vivo. O forse posso smetterla di fare psicologia spicciola, ed ammettere che mi sono lasciato trascinare dagli eventi, e tenerla qui è solo una inutile questione di principio, un riprendere il controllo della mia vita per andare fino in fondo a qualcosa, pur non avendola scelta.
Sì, potrei restituirla ai suoi. Sarei persino curioso, non lo nego, di sapere che reazione avrebbero, come si sentirebbero, come si sentirebbe lei stessa a tornare lì; ma è una curiosità talmente accademica, talmente superficiale, da lasciarmi sostanzialmente imperturbato. No, non lo farò. E non farò nemmeno lo sforzo di cercare una giustificazione per le mie scelte.
È a questo punto che la bambina interrompe i miei pensieri. «È vero» chiede «che la Prima non è libera?»
La sua voce è talmente bassa che stento a sentire la domanda; e la prima cosa che mi viene in mente è: che cosa le hai raccontato, Valentina? Non che possa averle raccontato molto, non conosce la nostra storia; ma quel poco che sa può essere servito, in qualche modo, a tranquillizzare la bambina.
«Vieni.» mi volto un momento, per assicurarmi che lei si alzi per seguirmi, mi immagino la sua reazione quando passiamo davanti alla mia camera, ma è alla porta accanto che ci fermiamo. Quando la apro, la Prima, seduta alla scrivani, sobbalza, si volta a vederci entrare. Non dico nulla, faccio un breve cenno di saluto, torno ad uscire.
Gan'ka/49
Un sospiro di sollievo sconvolge il petto della bambina quando finalmente la macchina attraversa i cancelli della villa e copre rapidamente la distanza fino alla rimessa. Con malcelata fretta, la bambina salta già dalla macchina, togliendosi le scarpe con un gesto ormai automatico entrando in casa. Si dirige quasi correndo in camera propria, dove si libera finalmente di zaino ed indumenti. Sopprime l'impulso di andare a farsi un lungo, caldo bagno, ben conscia della fame che la morde da dentro e del fatto che le altre Custodi saranno ormai già a pranzo, aspettando forse solo lei; si limita quindi a lavarsi le mani e sciacquarsi frettolosamente il viso nel bagno in camera, prima di precipitarsi a raggiungere la mensa.
A confermare i suoi timori e la sua fretta, le Custodi sono già lì, sedute a tavola, i piatti pieni. «Scusate, scusate, scusate il ritardo.» con una vocina che non riesce a riconoscere nemmeno lei stessa, la bambina si affretta verso il proprio posto, accanto alla gigantessa che si scosta per aiutarla ad accomodarsi. «Scusate» ripete ancora, sedendosi finalmente.
La gigantessa le riempie il piatto. «To'. Non c'è nulla come un bel piatto per rifarsi da una pessima giornata.» La bambina solleva lo sguardo, sorpresa; la Custode le fa l'occhiolino.
Adele si guarda intorno; forse Valentina ha già raccontato loro? Eppure la giovane non sembra essere lì al tavolo. La bambina si vergogna un po' della propria reazione in macchina, adesso, e si sente in colpa per l'imbarazzo in cui la mette l'idea di dover parlare ad estranei della propria situazione, sentendo il proprio imbarazzo come un insulto per quelle donne, la loro gentilezza, la loro disponibilità.
La bambina soffoca i propri pensieri concentrandosi sul cibo. È stanca, ha fame, ha incrociato lo sguardo dell'uomo, quel solito sguardo fisso, attento, eppur perso in chissà quali pensieri. Che cosa vuole da me?
Alla fine del pasto, quanto tutte le Custodi si alzano per aiutare a sistemare prima di lasciare la sala, rimangono seduti solo loro due, l'uomo con il proprio sguardo fisso sulla bambina, la bambina con il proprio sguardo fisso sul tavolo. E quando infine rimangono soli, l'uomo si alza, la raggiunge, le si siede accanto, ma rivolto nella direzione opposta.
Nel silenzio che segue, la bambina attende, facendo dondolare le gambe, gettando ogni tanto un sguardo all'uomo, cercando di muovere la testa il meno possibile, per non darlo a vedere.
«Non sei tenuta a rispondere.» dice infine l'uomo. La sua voce la coglie di sorpresa, il tono, ed ancora di più le sue parole; non le è subito chiaro a cosa si riferiscano, e nel silenzio che segue la bambina si aspetta una domanda. Invece, l'uomo continua: «Impara a dire di no. “Non mi va di parlarne” è una risposta perfettamente legittima, ed un modo cortese di dire che la domanda non è opportuna.»
La bambina sente il cuore pulsarle violentemente in petto. Non le è difficile immaginare che Valentina abbia raccontato all'uomo del suo sfogo in macchina, ed ora, ecco, sta per arrivare il rimprovero.
Ma l'uomo continua con lo stesso tono mesto. «Non so quanto questo possa aiutarti: non risponde davvero alla tua domanda su come parlare della tua situazione, non ti aiuta nemmeno a sentirti meglio tu stessa; ma è importante che tu sappia difenderti. L'indiscrezione è una violenza. Le parole verranno, quando avrai la giusta confidenza, quando sarai finalmente a tuo agio.»
Con un sospiro, l'uomo si alza. «“Nella vita degli altri si entra in punta di piedi.”» conclude.
«Come te, quindi.» la bambina si morde il labbro appena finita la frase. Da dove le è uscita? Non si volta, non vede la reazione dell'uomo. Sente solo il feroce battito del suo stesso cuore che le rimbomba nelle orecchie nel silenzio che segue.
Quando infine giunge la risposta, la voce dell'uomo è neutra, forse persino rassegnata: «Non sempre si fanno le cose che si vorrebbero fare, o nel modo in cui le si vorrebbe fare.» un attimo di vuoto, poi ancora: «E qualunque cosa io possa dire in proposito, foss'anche solo un “mi dispiace”, sarebbe inutile, o peggio, potrebbe sembrare ipocrita.»
Gan'ka/48
Si sente scioccamente orgogliosa di sé, Adele, nel raggiungere trotterellando i cancelli della scuola. È lieta che la giornata scolastica sia finita, ed è fiera di essere riuscita a chiedere alla compagna di banco le ultime cose da studiare e i compiti assegnati per le materie che non ha ancora avuto. È lieta del fatto che la compagna abbia accettato di attardarsi per darle le informazioni necessarie, ed è ancora più lieta del fatto che il tutto sia successo senza ulteriori imbarazzanti domande.
Si ferma appena fuori dai cancelli, perlustrando con lo sguardo la piazzuola antistante la scuola. Chi sarà venuta a prenderla?
Nel grumo di macchine e persone che affollano la strada e che giusto adesso sta cominciando a sciogliersi sembrano non esserci volti o veicoli familiari. L'espressione speranzosa della bambina si sgonfia in una più preoccupata; Adele comincia a temere di non riuscire a riconoscere la Custode o la macchina venuta a prenderla: e se è una di quelle con cui ha meno dimestichezza?
La risposta le giunge quando finalmente identifica un volto familiare. Ed improvvisamente la bambina vorrebbe sprofondare, sparire. Valentina le viene incontro, sorridendo, agitando un braccio teso in aria per farsi notare, e Adele vorrebbe poter fingere di non averla vista. Arrossisce, in preda all'imbarazzo, anche se la Custode sembra aver già dimenticato il loro breve incontro di qualche giorno prima. In pieno effetto Lakoff, cercando disperatamente di togliersi dalla mente l'immagine di Valentina sulla schiena dell'uomo (con l'effetto opposto), la bambina quasi non sente il saluto della Custode.
«Scusa il ritardo, ho dovuto parcheggiare qui dietro. Vuoi una mano a portare lo zaino?»
La bambina scuote il capo, silenziosa; si sistema meglio lo zaino sulle spalle, come ad indicare che sta bene così, e segue la giovane che intanto si è incamminata.
«Com'è andata la giornata?» le chiede la Custode, quando finalmente raggiungono la macchina.
«Orribile.» la bambina ritrova finalmente la voce.
«Così brutto, eh?»
La bambina non risponde subito, come a rimarcare quanto la giornata le sia pesata. Se l'imbarazzo di essere con Valentina sta ormai passando, ripensare alla scuola non la fa necessariamente sentire meglio. È solo quando la macchina è ormai immersa nel traffico che Adele trova le parole.
«È stato bruttissimo, tutto difficile, e poi i compagni nuovi, e i professori nuovi, e non riuscivo a seguire la lezione, e poi …» e la bambina si ferma, non sapendo come parlare del proprio disagio di fronte alla curiosità degli altri.
La Custode annuisce, ma il suo gesto non viene colto da Adele, il cui sguardo è fisso sul vano portaoggetti. È stanca, la bambina, ha fame. L'idea di giorni dopo giorni che si susseguano in quella maniera la spaventa. Ed è proprio mentre si ritrova a pensare a questo che la donna interviene:
«Andrà, meglio, vedrai. Le novità fanno sempre un po' paura, ma è solo da prenderci l'abitudine. Non è mai bello trovarsi in mezzo a persone che non si conoscono completamente, ma magari …» «Non è questo il problema.» la interrompe cupa la bambina. Valentina tace, finché nel silenzio che segue Adele non riesce più a trattenersi:
«Sono le domande!» sbotta «dover spiegare che … non lo so nemmeno io! Odio essere la nuova, odio essere … diversa.»
Passano alcuni secondi, prima che la Custode intervenga. «Ti vergogni della tua situazione.» Non è una domanda, più una costatazione. Adele risponde subito «No, non è …» si ferma a metà frase, come a rifletterci; non ha nemmeno il coraggio di parlare, il suo sguardo si abbassa ancora, si guarda le mani nervose, e quando finalmente parla di nuovo la sua voce è un mormorìo «Sì.»
Valentina fa spallucce, sorride «Ti vergogni persino del fatto che ti vergogni, figuriamoci.» Sbuffa. «E ovviamente ti mettono in imbarazzo le domande dei tuoi compagni. Brutta bestia, la curiosità.»
Fuori dal centro, il traffico ormai scorre fluido. La Custode si rilassa un po' alla guida, e finalmente continua: «Non so, magari gli potresti dare una risposta un po' più evasiva, tipo che ti sei trasferita.»
«È quella la domanda: perché ti sei trasferita?»
«No, intendevo …» la donna fa un gesto, come a scacciare la frase che aveva in mente «ma sì, ho capito, non cambia nulla.»
«“Sì, ho cambiato casa perché mio papà mi ha dato via.”» la bambina scimmiotta una ipotetica risposta «È … è una cosa senza nemmeno senso!» nella sua voce, la disperazione delle prime risposte ha ormai lasciato completamente il posto alla rabbia. «E non so nemmeno perché! Che senso ha?» solleva le braccia, e subito dopo le lascia crollare, in un gesto di disperazione «Eravamo troppo poveri. Qualcosa del genere. Di colpo, così, troppo poveri per mantenermi. E quindi troviamo qualcuno che mi può mantenere. È così che funziona? “Oggi vai con papà, ma ti devi vestire bene, perché …”» la voce le si spezza, con la fitta del ricordo. Stende le gambe improvvisamente, tirando involontariamente un calcio al vano portaoggetti, quindi le ritrae al petto, vi nasconde il volto per lasciarsi piangere.
La Custode stringe i denti, si morde il labbro inferiore. Non era questa la piega che doveva prendere la discussione, dovevano solo essere chiacchiere, parlare del più e del meno. Ed ora non sa nemmeno come agire, se cercare di consolarla o lasciarla sfogare. Forse è il caso di fermare la macchina?
Il pianto della bambina si esaurisce improvvisamente come era cominciato. Soffiatasi il naso, Adele torna a sedersi più composta, lo sguardo perso sulla strada che ormai corre libera davanti a loro. Quando riprende a parlare la sua voce ha ancora un tono nasale.
«E non saprei nemmeno come parlare di … di voi. Se almeno fossi finita in … in una casa normale; invece no, è tutto … è tutto difficile, troppo difficile.» E imbarazzante.
Scende nuovamente il silenzio, ed è nuovamente la bambina ad interromperlo, poco dopo: «Cosa siete, voi?»
La Custode sbuffa con un sorriso. Riflette, prima di rispondere: «Siamo donne che abbiamo scelto di vivere insieme in una piccola comunità, per aiutarci a vicenda ed essere …» più libere «e vivere meglio. O almeno, questa è come la vedo io, è possibile che le altre abbiano la loro personale idea sulla cosa.»
«E il … l'uomo in tutto questo cosa c'entra?»
La Custode ride: «Probabilmente realizza il suo sogno di vivere circondato da belle donne.» Torna improvvisamente seria «Non lo so, ma l'idea è sua. O è da lui che è partita. È lui che ha messo su tutto, e non so sinceramente quale sia il suo progetto. Ma non … non so nemmeno se è importante. Gli interessa più il come che il perché del nostro vivere lì. Credo.» Si ferma, come per riflettere. «Ma forse non sono la persona giusta a cui chiedere. Sono l'ultima arrivata,» guarda la bambina di sguincio «ero l'ultima arrivata, sono quella che sa di meno. Dovresti chiedere a qualcuna più …» ridacchia «alla Prima, probabilmente.»
«Da quanto tempo sei qui?»
«Tre anni. Quattro.» il suo sguardo si perde un attimo, come a rifare i conti «Oh bene, non mi ricordo nemmeno se questo è il quarto, o se il quarto è passato da poco.» si agita sul posto, e non si capisce se per un disagio mentale o per correggere la propria posizione. «A volte ho la sensazione che il tempo passi più lentamente, da quando sono lì.»
«Sei felice di essere una Custode.» non è proprio una domanda. E subito la bambina continua «Siete tutte felici di essere lì, altrimenti ve ne sareste andate. Non siete obbligate a rimanere.»
La Custode torna a guardarla di sguincio, non le piace la piega che sta prendendo nuovamente il discorso. «Non è … esattamente vero.» intercala.
Gan'ka/47
Dopo la prima ora, Adele comincia a riguadagnare la calma, proprio quando i suoi compagni cominciano invece ad entrare in tensione, nella breve pausa che la professoressa concede loro prima di procedere con le interrogazioni.
Persino il cambio di professore nell'ora ancora successiva, pur mettendola leggermente a disagio per la novità, non la stravolge. È invece con il suono della campanella della ricreazione che esplode nuovamente il panico. Mentre i compagni si alzano con immenso trambusto, Adele si restringe quanto più può nel suo banchetto isolato, aggrappandosi ai quaderni che si ritrova davanti, senza vedere via di scampo.
Potrebbe uscire in cortile, evadere dalla classe e dalla minaccia degli interrogatori dei compagni, ma significherebbe affrontare l'intera scuola, e questo la spaventa ancora di più, come se tutti i ragazzi fossero lì fuori ad aspettarla, per spiarla, incuriositi alla novità, pronti a interrogarla, a guardarla di sbieco, lei, la nuova, la strana, la diversa.
Sono invece i suoi compagni, o almeno la maggior parte di loro, ad abbandonare la classe, preferendo, nel quarto d'ora loro concesso, l'aria del cortile alla soddisfazione della curiosità circa la nuova arrivata. Solo un paio di sparuti gruppetti rimangono in classe, seduti ad angoli opposti, a chiacchierare fitto fitto, ad un volume sospettosamente basso. Sollevata dallo svuotamento della classe, Adele si dedica a consumare il proprio spuntino, pur non potendo fare a meno di pensare che sia di lei che quei gruppetti stanno parlando.
È solo sul finire della ricreazione, con il lungo stillicidio del rientro dei compagni, che la bambina si trova a dover fronteggiare le prime domande. Una delle ragazzine che può legittimamente chiamare ‘compagna di banco’, nel prendere posto, le chiede:
«Non sei uscita completamente?»
Adele scuote il capo, mormora «no», indecisa persino se voltarsi verso la compagna, come vorrebbe cortesia, o continuare a fissare il proprio banco, per non incoraggiare la conversazione.
«Ancora confusa dal trasferimento, eh?» la compagna sorride, ride quasi.
Confusa. Mi piacerebbe essere solo confusa, pensa la bambina. «Eh.» si ritrova a ripetere, come per conferma «Un po'.»
Lo sguardo attento, quasi entusiasta della compagna la mette un po' in imbarazzo, ma allo stesso tempo la invita a continuare.
«È tutto … troppo nuovo, ancora.» giocherella con le dita «E siete pure un po' più avanti per me.»
«Oh, vedrai che ti ambienterai presto,» la incoraggia la compagna «e approfittane finché puoi! Fossi in te,» e qui il sorriso della ragazzina si trasforma in un ghigno intrigante, mentre si china in avanti per sussurrarle all'orecchio: «cercherei di usarla come scusa il più possibile per non farmi interrogare.» le fa l'occhiolino.
Adele sorride, rasserenata anche dal fatto che la conversazione non stia prendendo la piega sbagliata. E puntualmente, con l'arrivo dell'altra compagna di banco, anche la temuta domanda:
«Ma come mai?»
Ed in quel momento salvifica risuona la campanella, mentre gli ultimi studenti rientrano rumorosamente in classe, subito seguiti dall'insegnante dell'ora successiva.
«È … una storia complicata.» riesce a mormorare la bambina, sperando che come risposta basti a placare la curiosità delle compagne, ed immediatamente pentendosene, temendo che la genericità della risposta, e persino il mistero che sembra svelare, sortiscano piuttosto l'effetto opposto.
Gan'ka/46
I suoi nuovi compagni la notano, infine, qualcuno le si avvicina. «Ciao, sei la nuova?»
La nuova, sempre la nuova. Sempre in un altro posto, senza conoscere nessuno, senza sapere cosa fare. La bambina annuisce, l'espressione sul suo volto ancora sconvolta dalla paura. I compagni che la circondano sorridono invece, curiosi. La invitano a entrare, le mostrano il suo banco —quello disposto diversamente dagli altri— e qualcuno ha persino la gentilezza di scusarsi per la posizione.
La bambina riesce finalmente a sorridere, imbarazzata, ed è con sollievo che accoglie l'arrivo dell'insegnante, non gradendo troppo l'attenzione rivoltale dai compagni, che spinti dalla curiosità stavano già lanciando le prime domande sul trasferimento.
L'ingresso della professoressa, in concomitanza con il suono della campana, porta un'istantanea, per quanto tesa, pace nella classe. I ragazzini tornano ciascuno al proprio posto, aspettano in silenzio ed in piedi che la professoressa raggiunga la cattedra, rispondono in coro al saluto della donna, quindi si siedono in un gran fracasso di sedie che si spostano, al quale la professoressa risponde con uno sguardo indignato, ma silenzioso.
È solo a questo punto che la donna sembra accorgersi della bambina. La fissa intensamente, con un cipiglio che ad Adele pare minaccioso e che presto si scioglie in quello che dovrebbe forse essere un sorriso, ma che alla bambina sembra piuttosto un ghigno malevolo, forse per le rughe che l'età ha inciso sul volto della donna.
Le parole con cui la professoressa la introduce alla classe sono brevi, anonime, e se pure vorrebbero suonare accoglienti, (incluso l'augurio «che tu possa ambientarti velocemente») finiscono quasi con il risuonare come una minaccia, dovesse Adele ritrovarsi troppo indietro con gli studi, piuttosto che un incoraggiamento.
Sbrigata la formalità, la professoressa procede quindi con l'appello. Sentirsi chiamare per nome e cognome è per la bambina una sgradevole sorpresa. Quel ricordo della sua famiglia d'origine le sembra fuori luogo, memoria dolorosamente inutile della cesura ancora fresca. È come se il mondo insistesse sadicamente su quell'indesiderato distacco, per riportarglielo alla mente nei momenti più inopportuni dopo settimane in cui distrazioni le avevano portato sollievo, seppur superficiale. Nuovamente quel nodo allo stomaco.
Nel rispondere “presente”, alzando la mano, nonostante sia inutile, vista l'introduzione, sente lei stessa la voce che le trema, nell'angoscia del ricordo, sensazione amplificata dalla sensazione di avere su di sé non solo gli occhi vigili della professoressa, ma anche quelli curiosi di tutti i suoi compagni.
Sanno? Non sanno? Quanto o cosa sanno? La bambina prova quasi orrore all'idea di doversi trovare a fronteggiare un torrente di domande sui come e perché del suo trasferimento, ed il timore di venirne sommersa, così come il dolore per i ricordi riaffiorati, le rendono difficile concentrarsi sulla lezione, finalmente incominciata.
La voce della professoressa le rimbomba nella testa, senza per questo trovarvi appiglio, dandole quasi un senso fisico di fastidio, che non fa altro che metterla ancora più a disagio. Vorrebbe potersi alzare per correre in bagno a sfogare in pianto la tensione che le cresce dentro; si agita sulla sedia, sentendosi sempre al centro dell'attenzione, nonostante i compagni siano in realtà molto più presi dalle domande che la professoressa inframezza a sorpresa nelle proprie spiegazioni, come a saggiare quanto la classe abbia dimenticato delle lezioni precedenti.
Gan'ka/45
Dalla scuola all'appartamento sono poco meno di quaranta minuti a piedi, alla fine dei quali sarò un bagno di sudore, vestigia evolutive di quanto permise ai nostri antenati di sviluppare le tecniche di caccia per esaustione. Quaranta minuti i cui primi cinque, dieci forse, li passo a liberarmi dell'immotivata ansia che mi opprime, fino ad avere la mente finalmente libera, focalizzata univocamente sul ritmo serrato della camminata, sugli ostacoli da evitare; ed infine, a piú di un quarto d'ora dalla destinazione, la mente che torna a divagare, a ripescare le fila di pensieri mai completamente pensati, di fantasie mai digerite.
Attraverso con fastidio il traffico urbano, e non posso fare a meno di tornare a considerare la stupidità di questo secolo, dove la cultura sociale è stata portata ad una ipocrita tecnofobia che non si traduce in altro che in un rigetto degli strumenti migliori in favore di una disastrosa inefficienza, una cultura costruita con fine saggezza in lunghi decenni, sottolineando la sociopatia del progresso della tecnologia, la pericolosità dell'intelligenza artificiale, salvo poi appoggiare nascostamente (presentato quando manifesto come “male necessario”) ciò che meglio permette il controllo dei singoli e delle masse, la loro manipolazione.
Vorrei poter dire che la cosa mi dispiace, mi turba, offende il mio senso di giustizia sociale, ma no, la verità è molto piú fredda: ho perso da una vita ormai ogni interesse nell'affrontare tali questioni, se non nella misura in cui disturbano la mia serenità.
Non ne valgono la pena.
Potrei costruire poetiche metafore, scrivere donchisciotteschi romanzi, sperimentare con qualunque forma d'arte per esprimere le mie riflessioni sull'inanità di certe lotte, su come gli utili idioti finiscono con il fare il gioco opposto di quello a cui credono di giocare, ma no, non ne valgono la pena al punto di non valere nemmeno il tempo di una giustificazione. La mia vita, i miei pensieri, le mie azioni, hanno come scopo precipuo null'altro che la mia serenità. E come potrebbe essere altrimenti?
Sollevo lo sguardo, uno sguardo automatico alla ricerca delle finestre dell'appartamento. Sono arrivato. Mi soffermo un attimo lí, sul marciapiede di fronte, e finisco con il chiedermi se poi è davvero sempre cosí.
È solo un momento. Attraverso la strada, apro il portone, salgo le scale, apro la porta di casa, lascio che si richiuda alle mie spalle mentre con rapidi gesti mi spoglio dei vestiti impregnati di sudore. Sono a casa.
Ed ora, sotto la doccia, mi trovo a pensare a quanti posti diversi possa essere un medesimo posto. Questo appartamento, sostanzialmente immutato dalla ristrutturazione cui lo sottoposi nel prenderne possesso, è stato per lunghissimi anni un piccolo angolo isolato dal resto del mondo, con me come unico residente, pur avendo spazio per una vita ben piú ricca di quella che avessi intenzione di viverci: perché la mia vita era pensata per essere una vita isolata quanto solitaria, e nonostante questo mi ero aperto alla possibilità di ricevere qualche rara visita dai miei consimili, e avevo voluto prevedere una stanza per gli ospiti, nonché una trasformista sala ricreativa, da palestra a sala proiezioni, da sala da gioco a sala da pranzo in quattro rapide mosse; ed il fatto che restassero vuote, inutilizzate, quelle stanze, era quasi per me un volontario memento del fatto che io volevo che lo restassero.
La parte piú semplice della mia vita, una routine di cui ancora, a volte, sento la mancanza, nonostante ora possa ben dire di vivere in agio ben piú che allora.
E poi quella folle scelta, quegli ospiti tutt'altro che miei consimili, e quello stesso appartamento che non era piú lo stesso, nonostante lo fosse. E tutto perché? Perché ogni stanza potesse diventare un nervo scoperto, una dolorosa fitta cui doversi abituare per ottundere, per non sentire piú nulla a ritrovarsi nelle stanze nuovamente vuote: la terza vita di quell'appartamento immutato, nuovi lunghissimi anni che cercavano di tornare ad essere quelli di prima della breve distrazione, senza poterci riuscire piú di quanto un foglio accartocciato possa tornare ad essere liscio.
E poi la nuova breve parentesi, la Prima, sempre in quella casa, almeno finché la sua presenza non è stato stimolo sufficiente, impulso a dare realtà al progetto delle Custodi, dando cosí inizio a quella che avrebbe dovuto essere l'ultima incarnazione dell'appartamento, un'appendice di celata importanza alla mia —nostra— nuova residenza.
Ed ora, senza che la bambina vi abbia messo piede, io mi ritrovo a viverlo in una sua quinta incarnazione che troppo riflette la sua terza, con ogni stanza che torna ad offrirmi i suoi fantasmi, al cui riemergere non so rispondere in altro modo che chiudendo gli occhi, fermandomi per respirare a fondo, con calma. Non succederà di nuovo, mi dico, non succederà di nuovo, per calmare la rabbiosa violenza che sento montarmi dentro. È passato troppo tempo, come possono questi ricordi riemergere cosí vivi da ridarmi le stesse sensazioni di allora?
Eppure l'appartamento rimane immutato, nella sua configurazione, nei suoi automatismi, come il servo meccanico —uno dei primi prototipi, senza ancora nulla di antropomorfo— che ora raccoglie i miei vestiti sudati per portarli a lavare, o come la spazzola meccanica che ripulisce il pavimento, lontana antenata di quelle che aiutano a tenere pulita la casa in montagna.
Mi tengo in disparte, a guardarli lavorare, e questo mi dà sollievo, conforto. Con un po' d'attenzione e quel tanto di manutenzione richiesta dall'inevitabile degenerazione dell'usura, questi macchinari sopravvivono praticamente da quando ho preso possesso dell'appartamento, invidiabili nella loro immutata operatività.
(Be', d'accordo, non immutata, il servo meccanico ha ripetutamente subíto miei interventi di raffinamento, di ‘educazione’ —dopo tutto, la sua manipolabilità fu proprio uno dei principali motivi che mi portarono a scegliere questo prototipo.)
L'equivalente tecnologico del contemplare un paesaggio da cartolina: lí ci si perde a contemplare come il caso, il caos della natura, abbia prodotto un'armonica associazione di elementi piacevoli allo sguardo, un angolo di mondo dove l'intervento umano non abbia —ancora— lasciato la sua indelebile e distruttiva traccia; qui, una tiepida eleganza, una apparente semplicità, un funzionale minimalismo che incarnano la speranza che lo stesso intervento umano si possa spingere oltre il distruttivo.
E c'era un periodo in cui questa era una delle poche cose che mi interessasse fare: rendere operativi, animare, questi meccanismi piú o meno complessi, dotarli di una intelligenza che permettesse loro di agire con grande autonomia nel raggiungimento di specifici obiettivi funzionali. Un appassionante passatempo, trattato seriamente come seriamente si dovrebbero sempre trattare i giochi, che al giorno d'oggi è invece per altri un estenuante lavoro, i cui benefici sono goduti principalmente da una ristretta, facoltosa élite e dai pochi che, come me, hanno con questa attività uno storico legame.
Quando, e perché, mi sono fatto distrarre dall'astratta serenità che ero riuscito a costruirmi intorno? No, non è nemmeno questa la domanda che mi dovrei porre, giacché la serenità di allora, nella sua semplicità, non poteva darmi la soddisfazione che ho raggiunto con il progetto delle Custodi, e mentirei a negare di preferire la mia vita di ora a quella di allora.
Di ‘ora’. Meglio: di prima che decidessi di minarne la serenità portandovi dentro questa bambina. La decisione impulsiva di allora, la decisione impulsiva di ora. E sempre, in mezzo, queste piccole vite insignificanti. Perché lo faccio? Che cosa mi porta a dimenticare, in momenti cosí critici, il mio mantra?
Mi ritrovo a fissare il vuoto, senza una risposta, senza pensieri, per un tempo interminabile.
Noia.
È per noia che mi ritrovo in queste condizioni? Non ho piú un'idea, un progetto che mi occupi la mente, che mi impegni, che mi dia uno scopo, che diriga i miei pensieri, le mie azioni, che focalizzi la mia attenzione, la mia intenzione. È cosí che si scivola nella stupidità, o meglio nella stoltezza: con la mancanza di un obiettivo.
Gan'ka/44
Non è l'ora a cui deve svegliarsi, quasi la stessa a cui si era ormai abituata per raggiungere Hiromi nel bosco. Non è la presenza dell'uomo, che pur non allietandola le è sempre meno greve, ed ancor meno ormai che ha visto l'ombra di qualcosa dietro la sua freddezza. Non è nemmeno l'idea di stare andando a scuola, che dopo il primo, sproporzionatamente traumatico impatto al momento della notizia, l'ha ormai avvolta nella sua ottusa inevitabilità. A sconvolgerla è il caos.
Rumori, luci, aria irrespirabile. Un tuffo improvviso, drammatico, senza progressione, senza acclimatamento.
Dalle brevi fermate nella discesa verso la città, con qualche Custode che saltava già dal minipullman, chi salutando appena con un rapido cenno, chi dispensando baci alle vicine di posto, si è arrivati improvvisamente in città, strade non più isolate, traffico, come creato dal nulla, e il fluido moto del mezzo che si fa quasi singhiozzante.
La bambina si distacca quasi con disgusto dal finestrino contro cui fino ad allora ha tenuto poggiata la fronte, lo sguardo distratto dai rapidi cambiamenti di scena durante la discesa, ed è con sollievo che vede il minipullman imboccare infine una strada laterale che li porta rapidamente lontano dal traffico.
Scendono tutti. La bambina rimane a guardarsi i piedi contro le basole del marciapiede mentre saluti ed accordi si intrecciano sopra la sua testa, qualche mano affettuosa le carezza i capelli in un gesto di congedo. Un arido «Andiamo.» mentre il gruppo si disperde richiama la sua attenzione, e mentre il minipullman riparte, con a bordo solo due Custodi, la bambina si incammina, lo sguardo fisso sulle scarpe dell'uomo, il passo affrettato per tener dietro alle sue lunghe falcate.
Pochi incroci dopo sono di nuovo nel caos. Rumori, luci, aria irrespirabile. Un'opprimente senso di angoscia avvolge la bambina, come se le passate settimane di vita di campagna —isolata, silenziosa, pulita, tranquilla— l'avessero resa aliena alla confusione, agli spazi ristretti in cui è nata, in cui ha vissuto per anni. Un nodo le stringe lo stomaco, e la bambina si trova ad accelerare il passo per accorciare la pur breve distanza che la separa dall'uomo, fermo ad attenere il verde al semaforo.
«Vuoi che ti porti lo zaino?»
La bambina solleva un attimo lo sguardo ad incontrare quello dell'uomo, torna ad abbassarlo quasi di scatto. Scrolla le spalle, come ad aggiustarvi sopra meglio lo zaino, scuote il capo in segno di diniego.
In condizioni diverse, con una mente piú serena, la bambina si sarebbe interrogata, perplessa, su quell'offerta, quella inusuale manifestazione di gentilezza, avrebbe forse ponderato il mese passato, come a filtrare quell'evento, a valutarlo contro l'atteggiamento che l'uomo ha tenuto con lei fino ad allora; ma al momento la sua mente sta combattendo altre battaglie, cercando familiarità in un ambiente che —inesplicabilmente, per lei— non gliene offre: ed è cosí con sollievo che la bambina accoglie il loro arrivo davanti ai cancelli della scuola, l'ondata dei coetanei che la trascina dentro, dandole appena il tempo di rispondere con un cenno di assenso all'avviso con cui l'uomo si congeda da lei:
«Ti verranno a prendere all'uscita.»
Il temuto rientro nelle costrizioni della vita precedente le è ora una distrazione quasi anelata.
La Pizza
Buona la pizza
Tonda la pizza
Col pomodoro
e la mozzarella
quanto ci piace
la pizza, che bella.
Glory Hole
Mia sorella torna dal bagno con un ghigno crudelmente soddisfatto stampato sulla faccia. Accomodandosi al suo posto, ci informa del fatto che qualche furbone è riuscito a ricavare un buco, non piú largo di un mignolo in verità, sulla parete d una delle toilette femminili.
«E sí,» conclude, dita tese, polpastrelli di una mano a sfiorare quelli dell'altra «c'era qualcuno dietro, e sí, dubito abbia apprezzato la spruzzatina di peperoncino che ho pensato di regalargli. Almeno a giudicare dal trambusto.»
C'è sincera, sadica cattiveria nella sua voce, il piacere dell'aver inflitto dolore a qualcuno, supportato dalla convinzione dell'essere stata nel giusto nel farlo.
«È la prima volta in vita mia che vengo a sapere di una cosa del genere che esiste davvero.» commenta la mia ragazza «Finora pensavo sinceramente fossero cose da libri, o da porno. Voglio dire, nemmeno a scuola, o nei campeggi, mi era mai capitato.»
«Nei porno sinceramente i buchi sono in genere piú larghi.» commenta suo fratello, accorgendosi solo dalle risate della tavolata del possibile doppio senso. «No, non in quel senso, siete dei cretini.» sbuffa, soffocando anche lui una mezza risatina. «Intendevo i glory hole, visto che ci deve passare …»
«Ah, io sono attrezzata anche per quello!» interviene mia sorella, stendendo un braccio, indice sollevato, a richiamare l'attenzione di tutti. Tira fuori dalla borsa un anello di metallo con due manici di gomma, mostrandolo in giro con una certa soddisfazione.
«È una … molletta?» chiede la mia ragazza.
«È uno di quei cosi che si usano per bloccare i pesi sul bilanciere.» risponde suo fratello.
«Esatto! Qualcuno mi fa lo scherzetto di farmi spuntare un pistolone mentre sono al cesso, gli metto questo.» stringe i manici allargando l'anello, lo passa intorno a due dita tese unite, molla i manici «E poi ti ci voglio vedere a uscire di là senza tagliartelo.»
Di nuovo quella sincera, sadica cattiveria. E sono meravigliato dalla geniale semplicità dell'idea: la molla può stringere abbastanza da bloccare la circolazione e mantenere l'erezione, ed i manici impedirebbero alla ‘vittima’ di ritirare l'arnese dal buco.
Immagino mia sorella giustiziera mascherata che va in giro di notte nei piú sordidi cessi pubblici ad incastrare, fisicamente, i pervertiti alle pareti. C'è qualcosa di magicamente malato nella scena, eppure —vedendola sbandierare cosí la sua trovata— non di totalmente incredibile.
E quando infine dai bagni maschili emerge un individuo che con affettata disinvoltura cerca di nascondere il viso arrossato, il capello umido che tradisce una disperata sciacquata di faccia, è il sadismo con cui mia sorella lo fissa, aprendo e chiudendo la molla come un'aragosta le chele prima di gustare il pasto che mi fa capire che forse è un bene per l'umanità che da noi bagni pubblici non ce ne siano nemmeno.
Il racket dei lavavetri
Fateci caso. Il vento riesce a sospingere le sabbie del deserto del Sahara fino alle nostre città. Ai semafori ci aspettano orde di nordafricani pronti a pulire i vetri delle nostre macchine, vetri sporcati dalle sabbie del Nord Africa. Ed è ben noto che siamo ormai in grado di controllare il tempo atmosferico.
È quindi evidente che gli americani sono in combutta con i paesi del Nord Africa: sfruttano HAARP per controllare i venti ed insabbiarci le macchine con le sabbie del deserto, per poi farsi i miliardi ai semafori con le loro orde di lavavetri.
Gan'ka/43
Ho perso il mio equilibrio, dice; e quando parla di equilibrio lei non è di quello fisico che sta parlando, o non solo. Tecnicamente, non è nemmeno che me lo dica, in questo caso, non direttamente; piuttosto, mi propone quest'idea con uno di quei lunghi, tortuosi discorsi, che toccano tre lingue ed altrettanti registri, perché non può dirmi direttamente qualcosa che potrebbe offendermi.
Ho perso il mio equilibrio, dice; perché alla fine, per quanto possa esere tortuosa la via, per quanto possa essere indiretta la proposta, il messaggio alla fine è chiaro.
La mia risposta, per contro, è un breve gesto d'assenso; null'altro, ed è lei ora a non sapere come reagire.
Non sono offeso. Perché mai dovrei sentirmi offeso? Perché mai avrei dovuto, potuto offendermi? Rassegnato, piuttosto, questo sí. Rassegnato, non foss'altro perché so, sapevo già, prima che me lo dicesse lei, perché me lo sono detto io stesso, senza tuttavia riuscire, pur con la presa di coscienza, a recuperare l'equilibrio perduto, a trovare un nuovo equilibrio.
Carezzo distrattamente la lunga cicatrice che le segna il fianco, un gesto che pochi possono permettersi impunemente, e prendo coscienza di come il reiterare quel gesto sia un modo per affermare il mio dominio su quella persona.
Oppure sono io a leggerlo così, con il riemergere di pensieri passati. Due sono le Custodi sulle quali —dovesse un giorno esserci un esodo— posso scommettere rimarranno comunque al mio fianco: la Prima, della quale sono informalmente in possesso per averla comprata —formalmente, per averne acquisito i debiti da lei accumulati nei confronti del protettore e precedente padrone— ed Hiromi, legata a me da un debito di riconoscenza che ha più valore per lei che per me.
Ed ora una terza, la bambina, comprata anche lei, nuovamente per debiti, ed è per questo —per questa— che mi ritrovo a pensare nuovamente in questi termini le altre due, come non succedeva da anni.
Non ha mai avuto importanza, allora come ora, eppure è sempre stata una differenza tra loro e le altre —tutte le altre— una differenza che trova unica manifestazione nella chain of command che raramente, se mai, ha avuto modo di essere esercitata.
Eppure ora, con la bambina, torna alla ribalta, ed è inutile negarlo, ma è proprio per la sua età, non foss'altro perché altrimenti non sarebbe stata una costrizione. Ma non è questo che mi ha fatto perdere l'equilibrio. Non direttamente, almeno.
È stata una mia scelta, dopo tutto. Avrei potuto dire di no in qualunque momento. Non l'ho fatto.
Ed ora l'età del soggetto comporta delle nuove obbligazioni nei confronti del mondo esterno, obbligazioni alle quali non posso permettermi di mancare. Questo turba l'equilibrio, ma se è la ragione, lo è solo ora, non certo nelle settimane trascorse. E l'osservazione di Hiromi non è certo all'ora che si riferisce, o non solo.
No, la perturbazione viene da prima, da subito, con il suo ingresso nella nostra vita, nella mia vita, a fare da eco ad un altro periodo in cui l'equilibrio era stato perso, poi riguadagnato —con entusiasmo— poi perso di nuovo —in un crollo improvviso. Un periodo di cui —ora mi viene in mente— Hiromi —come tutte tranne la Prima e Nana a cui io stesso l'ho raccontato solo un mese fa— non sa.
Non sa? Provo a ricordarmi se ne ho mai parlato con lei, nelle nostre conversazioni a distanza che precorrono di anni persino il mio incontro con la Prima. Ho i log da qualche parte, potrei fare una rapida ricerca. A mano? Troppo tempo, o troppo facile farsi sfuggire un breve accenno, troppe possibilità di falsi negativi a rivederli troppo di fretta. Parole chiave? Non abbastanza sofisticate, quali termini avrei usato in quel periodo? Qualcosa di contestuale, analisi del linguaggio, motori d'inferenza? È il momento di ripescare qualcuno dei vecchi codici dei bei tempi andati.
Ecco, questo già mi piace di più, questo sono io, problemi deterministici da affrontare, risposte univoche —sì, no— da cercare, analisi razionali che prescindono —sostanzialmente— dall'elemento umano. Codice. Logica. Algoritmi. Computer. Queste sono le acque in cui mi trovo a mio agio.
Mi alzo a sedere, il corpo di lei —sempre attenta alle mie reazioni, benché non partecipe dei miei pensieri— che si scioglie dal mio. Non mi viene in mente subito che potrei semplicemente chiedere a lei, e quando finalmente ci penso, è alla condizione di riuscire a chiedere senza dirle qualcosa (perché poi?), senza rivelarle nulla che già non sappia, ma senza nemmeno farle intende di cosa si starebbe parlando, in caso di risposta negativa. Crittografia asimmetrica: puoi darmi la risposta senza conoscere la domanda?
No, più semplice senza contatto umano. Certo, è un po' che non mi aggiorno sui progressi nel campo; forse è il momento di rimettersi in pari, per quanto sia una cosa che odio. Secoli di informatica, ed ancora nessuno che abbia trovato un modo per imparare le cose senza studiare. Metto su qualcosa con i vecchi codici, e mentre si studiano i miei log vedremo se ci sono novità.
Gan'ka/42
Dormo. Sono sveglio. È cosí dagli anni in cui ho completato gli studi, quando, incoraggiato dalla compagnia degli altri partecipanti al Progetto, ho cominciato a coltivare il sonno frazionato. Ad attirarmi all'epoca era stata la possibilità di avere tempo, quantità indescrivibili di tempo a disposizione per tutto, senza però soffrire dei classici problemi di chi dorme poco. Disciplina, ritmi regolari seppure inusuali, e transizioni rapide dalla veglia al sonno, e viceversa.
Sono sveglio. Mi concedo qualche secondo prima di alzarmi, contemplando il soffitto, anche se serve solo a farmi chiedere se in un periodo come questo non sarebbe meglio, piuttosto, tornare ai cicli di sonno tradizionali. Nei periodi di grande attività, le tre, quattro ore guadagnate con il sonno frazionato, sono imperdibili ausilî, per di piú accompagnate da quella spinta creativa derivante dalla sensazione di sogno cosciente con cui si comincia a percepire la realtà; ma nei momenti di fiacca, è innegabile, quelle supplementari ore coscienti servono a poco altro che a concedere spazio alla mente per perdersi in tortuosi pensieri, oscuri meandri poco raccomandabili.
Sono sveglio. Mi volto su un fianco. Hiromi è ancora lí, inginocchiata sul pavimento, accanto a letto, volgendomi le spalle. Non reagisce al pur evidente fruscío delle lenzuola al mio movimento. Non si muove, il suo respiro non cambia ritmo. Medita? Medita.
Mi sento un po' infantile, ma non posso resistere alla tentazione. Mi alzo con cautela, cercando di non produrre alcun rumore. In piedi tra il letto ed Hiromi, ascolto il suo respiro, cercando di capire quanto profondamente sia immersa nella meditazione, quanto sia lontana dalla coscienza di questo mondo. Mi chino appena, per sentire meglio il respiro, per avvicinarmi, pronto alla mossa.
La spingo in avanti. O almeno, ci provo. Non so nemmeno se arrivo a toccarle la schiena, e lei si è già voltata, mi ha proiettato sopra di sé, facendomi involontariamente urtare un tallone contro il sommier. Accompagna la mia caduta, mi monta a cavalcioni, inchiodandomi al pavimento. So che a questo punto toccherebbe a me, dovrei cercare di liberarmi, spingerla lontano, forse invertire la posizione di controllo, ma non ho veramente voglia di procedere con una colluttazione, per quanto simulata.
Non ho voglia.
Appaio
Atto unico
Personaggi: la calza, la persona.
La persona ha davanti un certo numero di calze, tutte diverse tra loro. Si guarda attorno costernata. Ne prende due alla volta, controllando se per caso non siano uguali, nonostante siano ovviamente diverse.
- La calza
-
(fuori campo) Appaio. (appare)
- La persona
-
(prende la calza, trova la corrispondente) Appaio. (le piega, le mette da parte sorridendo)
Una trama
Ho avuto un'idea per un racconto di fantascienza. L'idea, grosso modo, è la seguente.
Una giovane aspirante scrittrice decide di contribuire ad una raccolta di racconti di fantascienza. Non è un concorso, non c'è un premio in denaro, e la raccolta verrà pubblicata online, gratuitamente. Non è certo per i soldi che lo fa, ma pensa che sia un buon modo per farsi conoscere.
Ben lontana dagli hipster con Moleskine® e penna d'oca, decide di mantenere la bozza direttamente in Rete, usando uno dei piú famosi servizi che offre una suite per ufficio nella ‘cloud’: in questo modo, qualunque sia il momento in cui la coglie l'ispirazione, può accedere al documento: da casa, dal computer dell'ufficio, persino con il cellulare per strada.
Questo è il futuro, si dice. E scrive di un gruppo di amici sparsi per il mondo che si organizza, in Rete, per incontrarsi —di persona— in occasione di un evento speciale, per celebrare la nascita di un mondo nuovo, con pace, libertà e giustizia per tutti. E allora via a cercare le date giuste, ed il luogo giusto, ed il modo giusto per festeggiare; fuochi d'artificio, botti, festoni; e perché limitarsi? perché dovremmo essere solo noi a festeggiare? diffondiamo l'idea, coinvolgiamo quanta piú gente possibile, apriamo la festa al mondo.
“È qui la festa?” sarà il titolo del racconto della giovane autrice. E finalmente, durante un lungo volo intercontinentale che la porta negli Stati Uniti per una conferenza sui topoi della letteratura moderna, le viene in mente il gran finale a sorpresa, scatole cinesi, una realtà virtuale dentro l'altra, un Internet dentro un Matrix dentro una simulazione dentro un fumetto dentro un racconto scritto e diffuso di nascosto in un mondo distopico.
In coda dopo lo sbarco è talmente entusiasta dalla conclusione che non vede l'ora di trovare una connessione ad internet per buttarla giú per iscritto, e nemmeno si accorge della C gialla fosforescente che la guardia le disegna e cerchia sul cartoncino azzurro.
È solo quando a pochi passi dall'uscita la dirottano verso un'altra stanza, e da qui ad un'altra ancora, che il mondo reale le sbatte in faccia, abbattendo il suo volo pindarico.
L'ambiente in cui la fanno sedere è angusto, poco illuminato, dotato solo di una scomoda panchina. Che succede, si chiede, cosa mi sono persa? Il tempo passa, lei comincia a sentire la paura che cresce. Spuntano ogni tanto delle guardie, parlottano tra loro, guardano i documenti che le hanno sottratto, e lei non riesce a trovare il coraggio nemmeno di chiedere loro, almeno, per cosa la stanno trattenendo.
È solo molto piú tardi, quando al disagio psicologico, alla pressione dell'attesa, si sono andati aggiungendo anche disagi fisici, per la scomodità della panchina, per esigenze fisiologiche sempre piú impellenti, che viene portata in una nuova stanza, dove finalmente comincia l'interrogatorio.
E finalmente, incredula, la giovane si trova davanti alla nuda realtà della stupidità del potere: la bozza del suo racconto non è passata inosservata, ed è stata presa sul serio, molto sul serio. Non è stato nemmeno difficile, le dicono, decifrare il codice. I nostri esperti sono all'opera, le dicono, per identificare gli altri membri della squadra. Il vostro progetto, le dicono, non potrà andare in porto; se anche non arrivassimo ad arrestare gli altri in tempo, le dicono, sappiamo già le date, i luoghi. Non lasceremo che i terroristi vincano cosí facilmente, le dicono, non ci lasceremo menare per il naso, stavolta.
Ora scusate, bussano alla porta, il finale ve lo svelo dopo.
Gan'ka/41
Nana non può fare a meno di notare l'espressione abbattuta stampata sul volto della bambina quando questa rientra in camera. La bambina solleva appena il capo, come ad assicurarsi della sua identità, quindi le corre incontro, nascondendo il volto contro il petto della donna.
La bambina non piange, e già questo solleva Nana dalla preoccupazione di quello che possa essere successo. Quando infine la bambina solleva il capo, è con più serenità che la donna le chiede come sia andata.
Adele distoglie lo sguardo. «L'ho … li ho disturbati. Era con …» deve riflettere per ricordarsi il nome della Custode «Valentina? Credo.» giocherella con le dita, guardandosele «Non stavano … cioè, non credo, però … insomma, lui le ha chiesto di uscire e lei non era contenta, comunque.»
Nana sospira. Non le è difficile immaginare cosa sia successo, e soprattutto come Valentina abbia preso l'interruzione, ma non può credere che sia solo questo il motivo dello sconforto della bambina; ed è la stessa a continuare, dopo un momento di silenzio.
«Lui non …» inizia, per poi subito fermarsi; non sa nemmeno come spiegarsi, vorrebbe chiedere, senza averne davvero il coraggio «sembrava … non contento di mandarmi a scuola.» I suoi occhi, finora rimasti fissi sulle mani che si tormentavano a vicenda, si sollevano a cercare quelli della donna. «Sembrava stesse per mettersi a piangere.»
Nana sospira nuovamente. L'indifferenza con cui l'uomo aveva delegato quelle incombenze, dalla ricerca di una scuola alla comunicazione della notizia alla bambina, le era sembrata l'ennesima manifestazione di quel disprezzo, o forse ribrezzo, che sempre l'uomo manifesta per le questioni del mondo esterno; ed ora le torna invece in mente quello che l'uomo le ha raccontato ormai quasi un mese fa.
Un brivido le percorre la schiena. Si pente di aver spinto la bambina ad andare a parlare col gan'ka, sebbene quell'incontro sembri aver rasserenato la bambina, o quanto meno averla distratta dai pensieri che le avevano reso l'idea del ritorno a scuola tanto drammatica.
La bambina, che ha trovato sconvolgente quella manifestazione di emozioni da parte dell'uomo, trova ora sospetto, ed un po' preoccupante, il prolungarsi del silenzio della Custode. Intuisce che c'è qualcosa di grave, ma ben più grande di lei, alla base di quelle preoccupazioni, e se questo pensiero da un lato la tranquillizza sulla propria responsabilità, dall'altro la spinge a cerca un via d'uscita, una distrazione da quella catena di malumori.
«Quindi tornerò a scuola.» lo dice con calma, sebbene il suo tono non riesce a nascondere un'ombra di rassegnazione; ed il fatto che queste sue parole sembrano riportare il sorriso sulle labbra di Nana la rasserena.
«Dobbiamo andare a fare la spesa, allora.» le ricorda la donna.
Gan'ka/40
Non dovrebbe fare così male, come se fosse qualcosa di adesso. È passato tanto di quel tempo, il tempo dovrebbe attutire il dolore, smorzare. E invece no, mi invade la sensazione di essere sul punto di rivivere le stesse cose di allora. E la cosa assurda è che non posso rivivere le stesse cose di allora, perché questa bambina non è nessuno per me, nient'altro che una crudele eco di vite passate.
Non dovrebbe fare così male. Ho vissuto per anni da solo, in quelle stesse stanze in cui avevo vissuto con loro, fino a perdere completamente la sensibilità, finché ciascuno di quegli ambienti, di quegli oggetti, non aveva smesso di essere un nervo scoperto, un richiamo, una memoria.
Ed ora una cosa talmente banale, che non dovrebbe preludere a nulla, che non può finire nello stesso modo, è una fitta al petto, uno spillone conficcato nel cuore, un dolore fisico, lacrime che non riesco a trattenere.
Piangere mi dà un po' di sollievo, mi fa riguadagnare serenità, mi porta a riflettere sulla sciocchezza della cosa, nonostante la necessità di trovare sfogo. Vorrei poter dire che la mia preoccupazione è anche legittima, che notizie che possano consolidarla non mancano, ed invece mi dico che è tutto dentro di me. Mi trovo persino quasi a ridacchiare, pur senza ilarità, pensando a quello che succederebbe se alla bambina dovesse succedere qualcosa. Ma è una risata che sa di rabbia, e non serve ad altro che a ricordarmi vendette passate.
Farei davvero come allora? Sono gesti in cui non mi sono mai riconosciuto, pur avendoli compiuti; e tutt'ora, anche adesso in cui il dolore ritorna quasi fresco come allora, li rivivo come un'esperienza extracorporea, e senza alcun coinvolgimento emotivo.
Quando la porta si apre, sono ormai quasi sereno. Sono in poche a potersi permettere di venirmi a trovare quando ho chiesto di essere lasciato solo, e non apro nemmeno gli occhi per vedere chi sia. Quando mi copre con un lenzuolo, come a proteggermi dal freddo del pomeriggio che avanza, penso che possa essere Nana, o la Prima: ma non si stende al mio fianco, e non esce silenziosamente dalla stanza; invece, la sento che si accomoda sul pavimento, a fianco del letto.
Sospiro, immaginandola inginocchiata lì accanto, che mi volge le spalle, in silenzio, eppure non in attesa; e trovo persino sorprendete quanto mi possa consolare, senza motivo, sapere che Hiromi veglierà sul mio incipiente riposo.
Gan'ka/39
L'uomo è sdraiato sul letto, prono, le braccia incrociate, il capo poggiato sopra. La Custode seduta cavalcioni sulla sua schiena si volta di scatto verso la porta quando la bambina irrompe nella stanza, e Adele subito si ferma, fulminata da quello sguardo. Non riesce nemmeno a chiedere scusa: deglutisce a vuoto, mentre la porta si chiude alle sue spalle, e si chiede perché le due Custodi fuori non l'abbiano fermata.
«È la bambina?» la voce dell'uomo è bassa, quasi un mormorío, ma chiaramente udibile. La Custode distoglie lo sguardo da Adele, si china appena in avanti, bisbiglia una risposta affermativa. L'uomo sospira. La Custode torna a voltarsi verso la bambina, che non può fare a meno di notare l'ostilità che cova dietro quegli occhi. Per la prima volta Adele sente un brivido di paura al cospetto di una Custode, come se quella giovane donna fosse una leonessa pronta a saltarle addosso; retrocede di un passo, involontariamente.
«Che c'è?» il tono dell'uomo è neutro, quasi indifferente. Adele sente nuovamente il fastidio che sempre le suscita quel distacco, ma non riesce a rispondere, intimorita dallo sguardo della Custode, imbarazzata da come le sembra banale, infantile la sua rimostranza.
Nel silenzio che segue, la Custode torna a voltarsi in avanti, ma l'uomo scioglie le braccia, le picchetta un ginocchio; la giovane donna si alza, con uno sbuffo mal represso, a lunghe falcate si dirige verso la porta, passando accanto alla bambina che si scansa impaurita.
Quando la porta si chiude alle spalle della Custode, la bambina torna a guardare verso il letto, da dove l'uomo non si è mosso.
«Avvicinati.»
La bambina avanza con cautela, a piccoli passi. Arriva all'altezza del letto, ma se ne tiene a debita distanza, quasi contro la parete di fronte.
«È per la scuola?» L'uomo guarda davanti a sé, nel vuoto, come se non stesse veramente prestando attenzione alla bambina, come se stesse conversando con un ente incorporeo la cui voce potrebbe giungere da qualunque punto.
«Sì.» No. Non solo. Non lo so più.
L'uomo sospira di nuovo, annuisce.
«Non ha senso che tu vada a scuola.»
La bambina è interdetta. Non era questa la discussione che si era preparata ad avere.
«Non c'è nulla che tu possa imparare lì che non potresti imparare anche qui, anzi probabilmente meglio.»
La bambina china il capo di lato, sporgendosi, cercando di vedere meglio il viso dell'uomo, sperando di capire che senso abbiano quelle parole, se sono una presa in giro o cosa. L'uomo si volta appena verso di lei, poi torna a guardare davanti a sé.
«Fosse per me, non ti ci manderei.»
La bambina ha intravisto qualcosa di strano in quello sguardo, qualcosa che potrebbe essere dolore, tristezza.
L'uomo stende un braccio, tamburella sul ripiano di legno che sporge da sotto il letto. «Purtroppo, non è una mia scelta. Sei ancora nell'età della scuola dell'obbligo, e qui non siamo attrezzati per questo. Ma come tuo mentore sono obbligato a garantirti un'istruzione formalmente riconosciuta.»
Confusa, la bambina si siede a terra. C'è una strana tensione sul viso dell'uomo, e le sue parole non hanno senso. Di cosa sta parlando? «Non … non vuoi che io vada a scuola?»
L'uomo sospira di nuovo, smette di tamburellare, si volta verso la bambina. «No. Preferirei di no.» distoglie lo sguardo, torna a guardare davanti a sé, nel vuoto. «C'è ben poco che potresti imparare a scuola che non potresti imparare qui. Personalmente, penso non ci sia proprio nulla. Ma la legge prevede che tu debba andarci, e purtroppo non posso farci nulla. E c'è, effettivamente, qualcosa che puoi avere a scuola, ma non qui.»
Nel silenzio che scende, la bambina non può fare a meno di chiedersi a cosa si stia riferendo l'uomo, ma è evidente che c'è qualcosa che lo mette a disagio, lo turba, lo trattiene dal rispondere. E così è la bambina a trovarsi infine costretta a chiedere: «che cosa?»
«Interazioni sociali con tuoi coetanei.» sbuffa l'uomo.
Tutto qui? Ma no, non può essere semplicemente quello, ed il viso dell'uomo non le sembra più sereno. C'è qualcos'altro, qualcosa di cui l'uomo non sta parlando.
«I miei coetanei sono stupidi. E noiosi.» borbotta la bambina, lo sguardo chino.
L'uomo si volta verso di lei, abbozza un sorriso che a lei sfugge, torna ancora una volta a guardare davanti a sé, ed il suo viso è un po' più sereno. «Magari stavolta avrai compagni più interessanti.»
La bambina risponde facendo spallucce, senza alzare lo sguardo. Ha altro per la testa, adesso. Si sta chiedendo se è la sua presenza a mettere l'uomo a disagio, se è per qualcosa legato all'espressione di astio nello sguardo della Custode con cui l'ha trovato; e potrebbe capire una reazione di fastidio, nell'uomo, ma non quella che sta vedendo.
«Mi … mi dispiace avervi disturbato.» riesce a mormorare infine.
«Eh.» l'uomo sorride di nuovo, con un piccolo sbuffo. «Mi sa che è soprattutto a Vale che dovrai chiedere scusa.»
Torna a scendere il silenzio tra loro, e la bambina si dice che dovrebbe alzarsi, andarsene; l'impeto con cui ha fatto irruzione in quella camera si è esaurito, al punto che ormai anche le emozioni che vi erano dietro ora le sembrano esagerate, forse persino immotivate. C'è qualcosa nel turbamento dell'uomo che la impressiona, forse addirittura la spaventa. E proprio per questo non riesce a muoversi da dove si trova: non perché l'uomo in sé le faccia paura, ma al contrario perché attratta da questa crepa nella quasi crudele freddezza che l'uomo ha manifestato con lei finora.
Ed è l'uomo, infine, ad allontanarla. «Vattene,» dice «per favore.» e la bambina sente che la voce è tirata, fragile «Lasciami solo.»
Ha gli occhi chiusi, la mascella ora contratta. La bambina si alza, raggiunge la porta senza distogliere lo sguardo da lui, ma non riesce a nascondere un piccolo sospiro di sollievo appena fuori.
«Vuole essere lasciato solo.» dice alle due guardie, e si incammina mesta per il corridoio.
Gan'ka/38
Nuove abitudini, costruite giorno per giorno quasi per caso. Nuove familiarità con volti, nomi, gesti. E con la nuova, fragile vita che emerge cominciano a sfumare la confusione sul suo rapporto con il nuovo ambiente, i pensieri cupi sulla propria solitudine, le angosce della nostalgia; tutto il prima viene assorbito in un sfondo sempre più distante, sempre meno prominente, sempre meno doloroso.
Ed un pomeriggio Nana la raggiunge in camera, si siede sul bordo del letto, e le ricorda qualcosa di spaventosamente banale, e che in un altro contesto quasi non le avrebbe fatto effetto.
Ed invece lì, ora, sboccia in un dramma. Perché? Perché io, perché questo, perché ora? Perché? Fermate tutto, fatemi scendere, fatemi scappare via, lasciatemi in pace. La sensazione che prova la bambina è quella di ingranaggi che si inceppano, di risvegli improvvisi, di urti contro invisibili pareti di vetro. Tutto metaforico, ma non meno reale.
Il tablet da cui l'ha appena distratta l'arrivo della donna le scivola di mano, le urta il ginocchio, e la gamba improvvisamente è muta, indolenzita, formicolante.
«Perché!?» esclama finalmente a voce alta. Eppure è una cosa talmente ovvia, talmente prevedibile … e ciononostante, prendere coscienza del dover riprendere ad andare a scuola è doloroso.
Non è la scuola in sé a farle paura, o a darle fastidio, o a minacciarla di noia: è la sensazione della nuova, fragile vita che torna a sfuggirle di mano; è l'attrito con la crudezza della realtà, la presa di coscienza del fatto che quella vita spensierata che ha appena abbozzato in quelle settimane, di cui ha appena cominciato a godere, era poco più che un sogno, una breve parentesi, una inaspettata vacanza che giunge al termine.
Troppo presto.
E torna, potente, la sensazione di essere sballottata in giro per il mondo, strattonata dalla vita. Ed inevitabilmente torna il dolore, sopito in quelle settimane, della lontananza dalla famiglia, quella vera. Qui ora c'è solo Nana, che la tira a sé, la abbraccia, le carezza il capo, le bacia i capelli, mormora qualcosa di consolatorio che la bambina non riesce nemmeno a sentire, immersa nell'angoscia del nuovo spaesamento.
E con l'angoscia torna, aggressivo, l'odio per quell'uomo che si è impossessato della sua vita, che sembra divertirsi a farla soffrire, a metterla a disagio, ad illuderla con promesse di serenità da cui strapparla poi improvvisamente; e con l'odio, una rabbia che la aggredisce da dentro, che la fa accartocciare su sé stessa come le prime notti.
La pazienza infinita di Nana, le sue lente, continue carezze, il suo pacifico silenzio aiutano la bambina a riemergere da quel tunnel di dolore e angoscia e rabbia, ritrovare un po' di calma, almeno abbastanza da sentire il bisogno di giustificare la propria reazione. E Nana la ascolta, senza dire nulla, fino alla fine. Ed infine, senza smettere di carezzarla, le chiede:
«Pensi che ce l'abbia con te?»
«Sì.» borbotta la bambina in risposta, ma allo stesso tempo la domanda della donna la fa riconsiderare «No. Non lo so. Ogni volta che fa qualcosa mi …» rovina la vita, ma le parole non le escono dalla bocca. Deglutisce a vuoto, volta le spalle alla donna «Vorrei solo che mi lasciasse in pace.»
Non è nemmeno vero, sta pensando. Sto bene qui, sto davvero bene. Sono felice. Ero felice. Sono stata meglio qui che … no, non vuole nemmeno pensarlo, perché l'idea la fa ancora stare male, non è giusto che sia così, anche se è vero, ed è questo forse più di tutto a metterla a disagio.
Vorrebbe essere prigioniera, prigioniera come sono prigionieri gli eroi delle storie che legge, con un fuoco interiore alimentato dal desiderio di evadere, di tornare alla vita fuori dalla prigione, nel mondo. E lei invece si ritrova a godere della sua permanenza in quella casa, senza più nessun desiderio di scappare, senza più nemmeno una nostalgia della sua vita di prima, solo una piccola fitta per la lontananza da casa, dai suoi, una fitta che si fa sentire solo in quei momenti in cui si ritrova a pensarci, momenti che sono sempre più radi, sempre meno intensi.
Nessun desiderio di evasione, come se fosse quella l'evasione, una fuga al contrario, dal mondo di fuori verso quella vita tranquilla e senza pensieri; e l'unico sentimento che la brucia dentro ancora è l'odio, la rabbia verso quell'uomo, la sua freddezza, la sua indifferenza, la sua distanza, fin all'assurdo di pensare che si sentirebbe tanto meglio, lei, se almeno l'uomo l'avesse portata lì per qualcosa, avesse fatto qualcosa, qualunque cosa, per farsi odiare veramente, se l'avesse insultata, picchiata, se avesse abusato di lei. E invece, la cosa peggiore che sta facendo, dopo averla strappata alla sua famiglia, è soltanto mandarla a scuola.
Ed improvvisamente Nana le suggerisce, sottovoce, come se non fosse una cosa troppo importante, che volendo potrebbe anche andare a parlarne direttamente con lui, se ha qualcosa da ridire sulla questione. Che quando c'è un disaccordo, uno screzio, parlarne con la persona interessata è il primo passo per spianare, per chiarire.
«Non c'è niente da chiarire.» la bambina si ritrova a rispondere secca, imbronciata. Di cosa mai dovrebbe parlare con l'uomo, lei? Andare a dirgli che lo odia, prenderlo a calci, a pugni? È questa l'unica cosa che le viene in mente.
Si alza di scatto, scende dal letto, corre fuori dalla stanza.
Gan'ka/37
All'inizio è solo un'intuizione, amorfa, incompleta, solo una sensazione che nidifica in fondo alla mente, in qualche angolo poco illuminato. Ogni tanto riemerge, per conto proprio o sotto qualche stimolo esterno, ed ogni volta è più nitida, più definita, ma soprattutto più convincente. Infine sboccia, una vera e propria idea, anche se forse non ancora un progetto, e comincia a richiamare la tua attenzione in continuazione, ti rendi conto che, per quanto folle, la sua realizzazione è qualcosa a cui non puoi non dedicarti.
Sono le idee migliori, quelle che ti rivoluzionano la vita; come il progetto delle Custodi, il primo dopo anni di silenzio, di mente spenta, morta, resuscitata, dapprima con discrezione, dal fortuito incontro con la Prima.
La mente che torna nuovamente in azione, with a vengeance, un'esplosione di creatività, le piccole discrete indagini per collaborazioni apparentemente insignificanti, fino a trovare le persone giuste, l'architetto, la biologa, persino il capo mastro: tutte rigorosamente donne, loro stesse future Custodi, segnate per il futuro da quanto fosse stimolante discutere con loro il progetto, farsi aiutare a dargli una forma solida, funzionante.
E poi seguire il progetto, vederlo concretizzarsi un passo per volta, scheletri irriconoscibili dapprima, e poco per volta sempre più loro, davvero, finalmente. Il progetto forse più importante, perché con questo ricominciava, finalmente, la mia vita.
È una sorpresa che io sia preoccupato?
Solo una volta ho avuto necessità di chiedermi quanto avrebbe potuto essere diversa la mia vita se mi fosse mancato, volta per volta, il coraggio o la forza di volontà di perseguirle, queste grandi idee. Come avrei potuto pensare ad altro, quando la mia vita aveva raggiunto un punto morto, strappata con crudele violenza dalla sua condizione quasi onirica? Ed allora era inevitabile pensare che forse sarebbe stato meglio avere avuto una vita normale, modesta, discreta, invisibile, non più per scelta, ma per uniformità con lo sfondo.
Ma già prima dello strappo c'era qualcosa che mi diceva che sarebbe finita male, e a tutt'oggi mi dico che quella sensazione di disagio era guidata sostanzialmente da un unico fattore, la latente coscienza che le cose mi stessero sfuggendo di mano. Ed ora non posso non dirmi che è lo stesso fattore, con in più l'esperienza pregressa, a parlarmi di un disastro che non mancherà di arrivare.
Fuori dal mio controllo. Come non posso essere preoccupato?
Eppure non riesco a non guardarne il progresso con la stessa curiosità, forse persino con lo stesso entusiasmo, che se fosse un mio personale progetto. È inevitabile, in un certo senso. Dopo tutto, sto anche assistendo a come il mio più importante progetto interagisce con una situazione nuova, estranea seppure non più esterna, come finora è stato, ma interna.
Ed in tutto questo sono io, forse, quello che sta reagendo peggio. La Prima, l'unica ad avere manifestato preoccupazione per la giovane età del soggetto, è ormai serena. Le altre hanno accettato la bambina con entusiasmo quasi sospetto: fossi in vena di psicologia spicciola, scommetterei sull'emergere dell'istinto materno.
So che la mattina raggiunge Hiromi nel bosco, che dopo pranzo spesso passa da Lena, che la sera si addormenta su un libro. So che mi evita, per quanto le è possibile; è impossibile non notare come ostenti di ignorarmi, nelle immancabili occasioni in cui ci ritroviamo nella stessa stanza: e confesso che questa sua ostentazione rende tanto più difficile resistere alla tentazione di imporle di tanto in tanto la mia presenza, giusto per sfregio.
Ma alla fine mi dà anche soddisfazione vederla immergersi con cautela, lentamente, giorno dopo giorno, nella sottile rete impalpabile delle Custodi, dalle piccole collaborazioni quotidiane ai momenti di compagnia: attardarsi dopo pranzo, aiutando a sparecchiare, a pulire la cucina; aiutare a raccogliere o distribuire la biancheria, prima e dopo i lavaggi; affacciarsi curiosa in cucina al momento della preparazione del pasto; essere la scusa, spesso inconsapevole, per un incremento nella produzione dolciaria, per rivedere film, per riascoltare musica.
Apprezzo la discrezione con cui le Custodi accolgono i suoi dubbi, le sue paure, le sue confessioni; so che con alcune si è aperta più che con altre, e posso, per ora, convivere con la curiosità, lasciare le mie donne libere dal dilemma: tradire l'implicita fiducia che ella ha concesso loro, obbedire ad una mia richiesta.
Mi basta saperla sempre più serena, meno confusa, meno spaventata, meno combattuta. Bastano davvero due, tre settimane per cominciare una vita nuova?
Gan'ka/36
Crisi. Euforia. Angoscia. Entusiasmo. Un'altalena di emozioni, di sensazioni. Ogni poche ore una risalita, poi un crollo improvviso, il terreno che le sfugge da sotto i piedi. Confusione. I libri, la famiglia, i notiziari, i film, il mondo come cominciava a pensare che fosse, no, è tutto da ripensare, è tutto molto meglio, è tutto molto peggio. Le piccole idee che cominciava ad avere, e nemmeno il tempo di farle maturare, è già il momento di ripensarle.
Spiazzata da quelle semplici domande di Hiromi, domande a cui non sa, no, non può saper rispondere, la bambina si ritrova al pranzo senza parole, assorbita da quel dilemma che le pare insensato, come se la risposta dovesse essere tanto ovvia da non poter essere espressa, ma al contempo sentendo che il fatto che non si possa rispondere tanto semplicemente sia un indizio di qualcosa di molto meno ovvio, e forse inafferrabile, nascosto dietro la semplicità di quelle domande.
E l'uomo seduto lì, a capotavola, con Hiromi che gli si siede accanto, dopo un inchino senza parole; e Adele non può fare a meno di odiarlo un altro po', quasi con gelosia: la infastidisce la presenza dell'uomo, ma ancora di più la indispettisce quell'ossequio che Hiromi gli riserva, e che la bambina sente quasi come un tradimento nei proprî confronti.
Cerca il posto più lontano, all'altro estremo del tavolo, nascosta dietro la montagna di carne della gigantessa che le sorride, la accoglie festosa, le serve porzioni esagerate che stavolta lei si ritrova a mangiare senza problemi, spinta dall'immensa fame di cui si era quasi dimenticata.
La bambina non può fare a meno di domandarsi se tutte quelle donne la pensino così sull'essere liberi, se è per questo che si trovano bene lì, che anche avendo la possibilità di andarsene preferiscono restare.
“Così”.
Così come?
Davvero quelle domande di Hiromi erano un modo per farle riconsiderare l'importanza dell'essere liberi? O erano forse solo una provocazione, un modo per metterla in difficoltà, per costringerla a pensare? O una battuta, come quella sulla durezza dell'allenamento che la aspettava?
Nuovamente la bambina prende coscienza di quanto poco sappia di quella donna, di quelle donne, e nuovamente questo fa emergere quella sensazione di isolamento, di solitudine che la coglie quando si trova tra loro; eppure è con loro che dovrà vivere i suoi prossimi anni, è un dato di fatto a cui ormai si è quasi abituata, e sa che quelle donne sono lì che la aspettano, pronte, disponibili, amichevoli. E l'altalena compie una nuova oscillazione.
Ma perché dovrebbe trovarsi, lei, alla sua età, in una situazione del genere? E queste donne, cosa mai ne possono sapere di cosa significa per lei vivere lì? È una scelta, per loro, non una costrizione.
E certo, per loro è anche una scelta facile, come potrebbero non scegliere di restare lì, unite come sono in quella specie di grande famiglia? Anche lei, se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito restare con la famiglia. Dolore, di nuovo. Per quanto tempo ancora le farà male?
La bambina si alza da tavola, scappa in camera, si butta sul letto, a piangere nel buio, a lungo, fino a dimenticare il trascorrere del tempo, raggomitolarsi quasi nel sonno. Ed è solo quando finalmente ritrova un po' di calma che percepisce la presenza seduta ai piedi del letto, che aspetta, paziente, vegliando.
Lena le si sdraia accanto, la abbraccia, senza turbare il silenzio che le circonda, lasciando che la bambina trovi nella semplicità di quelle emozioni consolazione dai pensieri che la tormentano.
Gan'ka/35
Vorrebbe poter smettere di pensare, ora, la bambina. Hiromi non ha più parlato, e le asciuga i capelli, massaggiandole lentamente il capo. E lei si sente stupida, o quanto meno confusa, con la mente affollata di pensieri, di idee, e vorrebbe che tutto questo facesse silenzio, la lasciasse in pace.
Non una prigione, ma una fortezza; anzi, qualcosa ancora di più, con quella ricchezza, con quella varietà: è un piccolo mondo fuori dal mondo. Fantasia: se il mondo finisse domani, se domani l'umanità dovesse estinguersi, potrebbe ripartire da lì.
È questo che sta facendo quell'uomo? Collezionare persone, talenti? Non sono delle semplici custodi, non sono delle semplici guardie del corpo, un piccolo esercito. Sono Custodi con la C maiuscola, ed è come se fossero loro stesse il tesoro che dovrebbero proteggere, custodire.
E daccapo la invade quella sensazione di essere un'estranea; anche lì, anche in quel posto che sembrava potesse accoglierla, torna, aggressiva, quella sensazione di non appartenere che tanto spesso la prendeva lì fuori, senza punti di contatto con gli altri bambini: il topo di biblioteca, la secchiona, noiosa, fuori dal mondo, con quei suoi amori, quelle sue passioni che venivano dai libri, e che agli altri erano tanto alieni. E ora, lì, si sente la piccola cosa inutile, insignificante, quella che può solo ricevere, che non ha nulla da dare, e questo è improvvisamente importante, una mancanza di reciprocità che la schiaccia.
Senza altro motivo, peraltro, che la sua stessa coscienza, verso quelle donne sempre presenti, sempre disponibili, sempre pronte a venirle incontro, ad aiutarla, ad insegnarle, a mostrarle. E lei adesso vorrebbe imparare tutto, da tutte, ma allo stesso tempo vorrebbe sparire, non essere più lì, in un posto che non le spetta, senza un ruolo, ed anzi sentendosi un peso, un ostacolo, un granello di sabbia che non può altro che dare fastidio.
Occhi chiusi, la bambina li sente gonfi, pesanti di pianto, seppure senza lacrime; non ancora, non subito.
«Bambina.» e Hiromi improvvisamente parla, e quella parola non ha un tono dolce, ma nemmeno sofisticato, o crudele. E potrebbe essere, da sola, una spiegazione, ma la donna continua, con quel suo accento strano, quelle consonanti anomale «Seme nella foresta, circondato da alberi, pensa: cosa sono io? Cosa faccio qui, piccolo, insignificante, sotto questi alberi alti e forti?»
La bambina sospira. Se quello è un antico proverbio cinese, o qualcosa del genere, è piuttosto deludente; ma se non altro, quelle parole le danno un po' di sollievo. «Vorrei essere già grande.» mormora.
Le mani di Hiromi si fermano, ma la donna non dice niente.
«E no,» continua la bambina, con una rabbia soffocata, soffocante, che non è diretta a nessuno in particolare «non voglio sentire le storie dei grandi che vogliono tornare bambini: sono solo storie di persone che dell'essere bambini ricordano solo gli altri che si prendono cura. Non serve essere bambini per quello. Ma essere grandi significa essere qualcosa, significa essere. I bambini non sono niente, non sanno niente, non sanno fare niente, e la vita non è la loro, ma dei grandi che decidono per loro. E io sono stufa di non essere niente, sono stufa di avere altri che decidono cosa potrò essere, cosa dovrò essere, che cosa posso e non posso fare.»
Si ferma, travolta dalla valanga dei suoi stessi pensieri, troppe cose da dire. Quanto quel posto le stesse cominciando a piacere, quanto le fosse cominciato a sembrare che ci si potesse trovare bene, a suo agio. E quella follia, quell'assurda sensazione di essere libera lì, dove era obbligata a stare. E di tutto questo, alla fine, le esce solo un grido di frustrazione.
Nel silenzio che segue, la donna continua imperterrita a massaggiarle il capo. Poi prende una spazzola, e con la stessa immutabile pacatezza comincia a stenderle i capelli, con movimenti morbidi e lenti come carezze. Con un immenso sospiro, Adele comincia a ritrovare la calma, e con questa a provare un po' di vergogna per lo sfogo, sentendosi una bambina capricciosa. Non saprebbe nemmeno cosa farsene, lei, della libertà. Non sa cosa fare, non sa nemmeno cosa pensare, in questo momento.
«È possibile?» chiede mestamente «È possibile che mi senta più libera qui, dove sono costretta a stare, che … che prima?»
Hiromi non risponde alla domanda, ma le lascia finalmente liberi i capelli, le si siede accanto, sciogliendo i proprî dall'asciugamano in cui erano avvolti, e comincia a ripetere per sé le azioni che aveva compiuto per Adele.
Nel silenzio che segue, la bambina aspetta una risposta, vorrebbe sentirle dire qualcosa, qualsiasi cosa, foss'anche solo per avere una scusa per parlare ancora, non essere lasciata ai proprî pensieri. Ed è in quell'attesa, sollevando finalmente lo sguardo verso la donna, che comincia a rendersi conto di cosa sia fatta la trama più fine di quella impalpabile rete che lega le Custodi tra loro.
Si alza. «Vuoi … vuoi che ti aiuti?»
La donna si ferma, le braccia ancora sollevata; la guarda negli occhi, sorride. Lascia i capelli, si inchina appena in avanti. «はい。 おねがいします。 Grazie.»
È con timore che la bambina comincia a prendersi cura della chioma di Hiromi, sentendosi goffa, impacciata, incerta sul da farsi; ma la donna si lascia asciugare i capelli in silenzio, con gli occhi chiusi, senza perdere il sorriso.
Quando i capelli le sembrano sufficientemente asciutti, la bambina raccoglie la spazzola, con quel lieve profumo che ancora non sa riconoscere, e rimane affascinata da come questa passi senza intoppi in quei capelli lisci, folti. Tutto è bellissimo in quella donna.
Adele affonda le dita in quella pesante cascata nera, non nasconde di esserne affascinata «Che bei capelli …» e poi, un'idea improvvisa, un ricordo «Posso farti una treccia?». La stessa risposta, gli stessi gesti, come un rito, e la bambina si perde nella massa di capelli, nell'alternanza delle ciocche, trovando nella concentrazione dell'attività manuale una distrazione dai pensieri, dal loro tormento.
Ed improvvisamente la donna chiede: «Cosa significa essere liberi?» Le mani della bambina si fermano. Hiromi afferra le code delle ciocche, le lega tra loro per chiudere la treccia ormai finita, insiste: «Perché è importante essere liberi?»
Gan'ka/34
«Ora di pranzo.» Poche parole improvvise, che fanno tornare bruscamente Adele nel mondo reale, facendole sentire la fame, la stanchezza mentale e fisica che la concentrazione, l'esercizio fino ad allora hanno esatto dal suo corpo, che per una piccola finestra di tempo ha sentito solo la propria postura, la propria respirazione, il proprio 氣, e sfere immaginarie di tutte le dimensioni attorno a cui muoversi, in una bolla fuori dal mondo, in un ritmo cadenzato dagli «ancora» di Hiromi, dalle sue poche altre parole.
«Di già?» la bambina è sorpresa, guarda al cielo, si volge in quella che dovrebbe essere la direzione della casa, invisibile oltre gli alberi; ma la donna si sta già incamminando, con passo rapido, e Adele si affretta a seguirla, fermandosi solo a raccogliere il tablet abbandonato tra le radici di un albero.
La bambina è affascinata da quella donna, le sue poche parole, i suoi gesti misurati; si scopre ad imitarla, nel rientrare in casa, nel modo di togliersi le scarpe sorpassando il piccolo scalino; si scopre a seguirla fino al bagno.
C'è qualcosa che ancora la sorprende nella frequenza con cui si fanno il bagno, in quella casa; una, due volte al giorno, tutte quelle donne, quanta acqua useranno? E però è innegabile quanto la sensazione di freschezza, pulizia, generale benessere con cui si esce ogni volta da quei bagni sia superiore alla frettolosa attenzione dedicata all'igiene personale che sembra regnare là fuori, anche nei momenti di riposo, nei periodi di vacanza.
Persa in questi pensieri, la bambina si ritrova anche qui ad imitare la donna, svestendosi nell'antibagno, piegando i vestiti, seguendola poi nella sala da bagno. Anche il corpo di Hiromi richiama la sua attenzione, dalla sua piccola statura —è appena più alta di lei— alle forme femminili appena accennate; ed ogni gesto della donna, attento, misurato, mostra muscoli ben definiti, ma non esagerati, guizzanti sotto la lucida pelle. Una piccola statua vivente, che Adele si trova a guardare con desiderio, invidia: mi piacerebbe diventare così.
Ed improvvisamente lo sguardo di Adele viene attratto dalla lunga cicatrice che corre dietro il fianco destro della donna, dalla scapola giù fino alla fossetta sopra il bacino. La bambina distoglie subito lo sguardo quando Hiromi si volta, ma sa di averla fissata troppo.
«Katana.» si limita a commentare la donna. Sposta il braccio in avanti, come a scoprire ulteriormente la cicatrice, poi afferra il polso di Adele con l'altra mano, le fa scorrere le dita lungo il segno. «Taglio molto pulito.» spiega «Molto fortunata in mio unico errore.» E con questo si volta nuovamente, e torna a lavarsi.
Come se fosse sufficiente, mentre la bambina si ritrova mangiata dalla curiosità. Quelle poche parole, quanta vita nascondono dietro? Adele scava nella memoria, immaginandosi fantasiosi scenari da antico Giappone, duelli all'arma bianca, classici samurai. Non certo roba di questo secolo. Che cosa faceva Hiromi prima di venire a vivere qui? Cosa fa adesso?
Persa nelle sue domande, nelle sue fantasiose ricostruzioni, la bambina non si accorge quando la donna le si affianca. Sobbalza, scoprendosi osservata, arrossisce, vergognandosi senza nemmeno sapere il perché. «Più energia.» dice la donna. Prende la spugna, la passa sul corpo di Adele con decisione; la bambina chiude gli occhi, si lascia insaponare, fare lo shampoo, sciacquare.
«Sei stanca?» La bambina annuisce. «Vieni.» la donna la conduce alla vasca, ed appena sono entrambe dentro, le comincia a massaggiare le spalle, la base del collo, le braccia, i fianchi, le gambe. È la seconda volta che la bambina si ritrova così sotto le mani di una Custode, ma il tocco di Hiromi è completamente diverso da quello della sera prima; con Stella, Adele si era ritrovata completamente rilassata, pronta a stendersi per dormire: il massaggio di Hiromi, invece, le rivitalizza i muscoli, e la bambina sente una sensazione come di calore diffondersi per il corpo.
«Grazie.» mormora Adele quando la donna finisce «Ne avevo proprio bisogno.»
«Primi giorni sempre molto difficili.» spiega Hiromi. «Dopo sarà peggio.»
La bambina alza il capo, sorpresa, chiedendosi se la donna abbia sbagliato attributo, ma quando incontra il suo sguardo Hiromi le fa l'occhiolino, e Adele si ritrova a ridacchiare come una scema.
Rilassandosi nel tepore del bagno, la bambina si ritrova ad affrontare quella sorta di ammirazione, di desiderio di emulazione, che la donna le ha suscitato. E non è solo quel modello di perfezione fisica, ad attirarla, ma anche la sua indole composta, discreta, persino riservata, quasi pacifica; e quel tocco magico, che fa da contrappeso a quello di Stella. E Priyā, con i suoi tessuti e i suoi colori. E quella (chi?) che suonava il pianoforte la scorsa sera. E ciascuna delle altre, probabilmente, il proprio talento. È una piccola epifania che la fa sobbalzare: «le Custodi!»
Ritrovarsi davanti lo sguardo curioso, forse perplesso di Hiromi la ammansisce. Senza che la donna dica una parola, Adele si ritrova a giustificare quel piccolo scatto, chinando il capo, arrossendo, perdendo le parole «Ho … ho solo pensato che tutte, voi, siete … siete così brave, avete qualcosa che …» ed improvvisamente il suo pensiero non è più sull'appellativo di quelle donne, e si sente come schiacciata da un inesistente paragone; che cosa mai è, che cosa mai potrà essere lei, in confronto a loro?
Gan'ka/33
L'indomani, la bambina si sveglia molto presto, ma sentendosi fresca e riposata come non le succedeva da chissà quando. Scende dal letto carica d'energia, pronta per una giornata di ozî e piaceri.
Ieri, ieri è stata una bella giornata, pensa. E dopo i giochi, quel bagno prima di cena: la Custode aveva proprio ragione, ci si sente gloriosamente dopo. (Ma esisteva davvero, poi, quella parola?) Sarebbe bello se tutti i giorni fossero così, d'ora in poi. Portarsi un libro da leggersi in un angolino del bosco, tornare a casa per pranzo, passare un pomeriggio in compagnia delle Custodi.
Tablet in mano, la bambina si avvia pimpante verso la cucina, pregustando la gloriosa colazione che la aspetta. Eppure c'è qualcosa di diverso, questa mattina, come se la casa fosse più tranquilla, più silenziosa, meno … viva. Sulla soglia della cucina, la bambina si ferma, perplessa: ci sono solo un paio di Custodi, e la differenza con la folla della mattina precedente stronca per un momento il suo entusiasmo.
Non c'è qualcosa di cattivo nell'aria, ed i saluti sono gli stessi del giorno prima; solo … di meno. La bambina si muove guardinga, quasi con la paura di risvegliare qualcosa o qualcuno, preparandosi un posto vicino alle Custodi —ma non troppo. «Oh, è presto ancora.» mormora a mezza voce, accorgendosi finalmente dell'ora. «O tardi …» allusiva, le giunge la voce della Custode seduta accanto che, vedendo il suo sguardo confuso, completa «È lunedì, quelle che lavorano fuori sono già andate.»
«Pensavo che …» la bambina si interrompe. Non è un piccolo mondo isolato. Prendere coscienza di questo, improvvisamente, le insinua un sottile disagio, senza tuttavia che il motivo di questa sensazione le appaia chiaro. Scuote il capo, per rimarcare di non voler finire la frase, di non volersi soffermare su quei pensieri, e completa la colazione.
Respirare la fresca aria del mattino la aiuta a sentirsi meglio. Con la salita verso il bosco ritrova il buon umore del risveglio, i grandi, pacifici piani per quel giorno, per i giorni futuri. La sua attenzione viene assorbita dalla ricerca di un buon posto dove sistemarsi, un albero comodo contro cui poggiarsi, un angolo tra le radici dove arrivi il sole, e possibilmente senza vista sulla casa, sulle sue minacciose finestre, delle quali già il semplice ricordo le dà un brivido.
Esplorando, provando, la bambina comincia ad allontanarsi dal sentiero, attirata ora da quella nicchia alla base di un castagno, ora dalla biforcazione del tronco di quell'altro. Alla fine, scoraggiata, si ferma a riprendere fiato; si siede in terra, butta indietro il capo, rimane a guardare il cielo, ad ascoltare i piccoli, saltuari rumori che interrompono il silenzio del bosco.
C'è qualche suono particolare che le giunge alle orecchie di tanto in tanto, come se qualcuno pestasse il terreno, o strisciasse i piedi. La bambina si fa più vigile, attenta; tende le orecchie, sorpresa dalla natura inusuale di quei rumori, confusa tra curiosità e paura. Si alza con cautela, cercando di non fare rumore lei stessa, di non perdere traccia di quei radi tonfi, strusciamenti, di capirne l'origine.
Infine, superata la paura, decide di avviarsi, lentamente, nella loro direzione, pronta a voltarsi e fuggire alla minima impressione di pericolo.
Ed è solo una Custode. La bambina riprende fiato, continua ad avvicinarsi, con rinnovata curiosità, fermandosi infine sotto un albero, quasi nascondendosi dietro il suo tronco, a spiare. Rimane così a guardare, come ipnotizzata, quel corpo minuto che passa da una figura alla successiva senza soluzione di continuità, con movimenti morbidi, pacati, fluidi, in una sorta di lenta danza; e tuttavia dietro ogni gesto la bambina indovina una grande energia, dominata ma non sopita.
La donna non dà segno di accorgersi della presenza della bambina nemmeno quando le due si ritrovano l'una di fronte all'altra, nemmeno quando i loro sguardi si incrociano, e la bambina si sente più imbarazzata dal proprio essere quasi nascosta dietro l'albero che dall'essere stata vista. È solo quando quella sua strana danza giunge all'attesa conclusione che la Custode si ferma, torna a voltarsi verso la bambina e la saluta con un sorriso e un piccolo inchino, gambe unite, busto in avanti, la mano sinistra a coprire il pungo della destra.
Scende il silenzio sulla distanza che le separa, mentre le due si guardano negli occhi; la bambina rimane aggrappata all'albero, incerta, timorosa, pur sotto il pacato sorriso con cui la donna risponde al suo sguardo. Ed infine, Adele trova il coraggio di mormorare: «Era molto bello.» per poi aggiungere, dopo una lunga pausa «Cos'era?»
«太極拳» risponde la donna «Vuoi imparare?»
«Oh no, io non … non sono capace, con queste cose.» si schermisce la bambina.
«Nessuno sa fare, prima di imparare.»
«Sì, ma no, davvero, non è … non sono cose per me. Io non sono … non ho …» lo sguardo della donna persiste, fisso, la voce della bambina si fa più debole, le parole svaniscono.
«Vieni,» conclude la Custode, sorridendo, offrendole una mano, invitante. Con uno sbuffo, la bambina esce dall'ombra dell'albero, copre i pochi passi che la separano dalla donna, le sfiora la mano.
Gan'ka/32
«Dài, scendiamo giù.» Sarà un invito, sarà un ordine, ma il fatto stesso che io mi ritrovi a seguirlo così, passivamente, senza entusiasmo, senza obiezioni, semplicemente perché lei l'ha proposto ed ora mi guida fino al salotto, mi mostra quanto io mi stia sentendo improvvisamente vuoto.
E le custodi sono già lì, a preparare i tavoli, il té, i biscotti. Non ho nemmeno voglia di giocare, mi butto sul divano della stanza accanto, e la Prima, che mi ha condotto fin qui, si siede in modo da permettermi di poggiare nuovamente il capo sulle sue gambe. Non ho nemmeno visto chi è che sta suonando il pianoforte: chiudo gli occhi, e lascio che la musica dirompente mi inondi il cranio.
È uno di quei momenti in cui vorrei soltanto che fosse già dopo, senza aver attraversato tutto il tempo in mezzo. Da quanto tempo non mi sentivo più così? I primi esami all'università? I primi colloqui di lavoro? I primi problemi hardware di un mio computer?
No, non è nulla del genere, non c'è nulla da aspettare, stavolta, nessuna angoscia nell'attesa di affrontare un esame, un giudizio, nessuna preoccupazione nel sapere cosa si riuscirà a recuperare, cosa no. Stavolta c'è solo da aspettare di uscire da questa sensazione; è più l'attesa del malato: quando mi passerà la febbre? quando non avrò più questo malessere diffuso?
“Non cambierà niente,” avevo detto, avevo deciso. Come se fosse una cosa che si delibera; ma va bene, l'ho detto sapendo io per primo che qualcosa, tutto sarebbe cambiato. Wishful thinking. Mi credevo al di sopra di questi piccoli giochi psicologici di autoinganno. Ma l'unica cosa che non sapevo veramente era come le cose sarebbero cambiate.
Sono proprio conciato male, e nemmeno la violenza del pianoforte riesce a farsi abbastanza spazio; mi posso ancora sentire pensare. E quando il pezzo finisce, sento la perplessa tensione nell'aria, ed un bisbìglio, per non disturbare, per non disturbarmi: «quelque chose plus douce?» Héloïse. Avrei potuto indovinare. Scuoto il capo. Preferisco venir aggredito dalla musica di Liszt che trovare il sottofondo giusto per i miei pensieri. Non ho più niente da pensare, non voglio aver più niente da pensare. Meglio godermi un po' di sano virtuosismo, una musica vivace che tiri su di morale, che comunichi forza allo spirito. Ma Héloïse fa di testa sua, e trova un compromesso nella Campanella. Sorrido. Mi piace, è una buona scelta, con quel delicato inizio, e la crescente foga.
Sospiro. Questo è il mio mondo. Un grembo su cui poter poggiare il capo a riposare, dita fatate che corrono su una tastiera, la presenza silenziosa di Hiromi, spuntata dal nulla, silenziosa come un fantasma, come sempre, per sedersi sul pavimento accanto al divano, volgendomi le spalle, le gambe incrociate, a meditare.
Ed improvvisamente, oltre le note del pianoforte, oltre le chiacchiere nella stanza accanto, la voce della bambina. Sperduta in quel caos di suoni, la percepisco appena. Apro gli occhi, il mio sguardo incrocia quello della Prima, la cui figura mi sovrasta. Le sue mani continuano lente, imperterrite, a scivolare tra i miei capelli, pacate; ed io leggo negli occhi della Custode che è anche un modo per trattenermi. Di sguincio, guardo verso la porta, ma della stanza accanto si vede solo un angolo di divano.
Dalle parole che riesco a sentire capisco che le stanno facendo provare un gioco. Potrei alzarmi, andare di là a giocare anch'io, sedermi a un tavolo, anche non lo stesso, fare la mia piccola scenetta del campione invincibile e un po' sborone, quel piccolo vizio che non mi passa mai. Non lo farò. Rimarrò qui, ad ascoltare la musica, a farmi carezzare i capelli; la lascerò in pace, la bambina, da sola, minimizzando le occasioni di contatto; le darò il tempo di acclimatarsi, di ricostruire la sua vita qui. Di entrare, venire assorbita, infine, nel mio piccolo mondo.
Gan'ka/31
Sdraiata sul letto della propria camera, la bambina contempla il tablet, fermo ancora alla mappa del suo percorso della mattina. Non riesce a scrollarsi di dosso quella sensazione di essere in prigione, una prigione in cui le piace stare, una prigione in cui può fare quello che vuole, a patto che qualcuno o qualcosa possa sempre sapere dov'è, forse anche cosa fa. Può leggere i libri che vuole, mangiare quello che vuole, andare dove vuole, quando vuole. Potrebbe persino scappare, probabilmente, ma la verità è che ormai lei per prima non è più tanto sicura di voler tornare alla vita di prima.
Pensare questo la angoscia. Si sente una traditrice nei confronti della sua famiglia, ma allo stesso tempo non riesce a trovare un motivo per cui dovrebbe preferire quella vita a questa nuova che le si sta parando davanti, se non quella nostalgia che le stringe il cuore. Pensa che se deve scappare è quello il momento giusto, prima che la nuova vita diventi un'abitudine, avvinghiandola in un'inestricabile rete di legami affettivi; ma non è una decisione che vuole prendere.
Non che ci siano decisioni che lei voglia prendere; non si è mai nemmeno posta la questione del prendere decisioni. Decisioni, decisioni, spetta ai grandi prendere decisioni, non ai bambini. Come fanno i bambini a scegliere, a scegliere bene? Se potesse scegliere, un bambino chiederebbe di mangiare solo biscotti, dolci, cioccolato; ma solo il bambino potrebbe pensare che questa sarebbe una buona scelta, e solo fino a non avere la nausea o il mal di pancia per i troppi dolci.
Per questo sono gli adulti a scegliere, pensa la bambina, e allo stesso tempo si chiede se scelgano poi meglio, gli adulti. Tutta la sua vita finora è stata scelta dagli adulti, e nessuna delle scelte le è mai piaciuta: cosa mangiare e cosa non mangiare, come vestire, cosa imparare, cosa leggere e cosa non leggere; e poi improvvisamente questo. E nuovamente la bambina si sente travolgere dall'orrore, dal disgusto, dal senso di abbandono, e dalla voglia di ritornare a prima, e dalla repulsione di ritrovarsi da capo a subire le stesse scelte che a questo hanno portato.
Questo. Vivere da sola in mezzo a questa gente, in questa splendida prigione da cui nessuna vuole andare via, dove ha mangiato le cose più buone della sua vita, dove nessuno sembra aspettarsi che lei faccia qualcosa, dove toccherà a lei, ora, prendere decisioni, ma l'unica decisione che lei vuole prendere è quello che leggerà domani, seduta sotto un albero, o su uno dei tavoli del barbecue, magari con accanto un pacco di biscotti. Chi mai le dirà qualcosa?
La bambina torna a guardare la linea rossa sulla mappa. Con le dita, fa scivolare la mappa a destra, a sinistra, in alto, in basso; scopre che c'è molto ancora da scoprire, che il ‘centro’, quella casa, occupa solo un misero angolino in basso a sinistra, che il percorso da lei seguito copre una minima parte della proprietà. Forse invece di starsene a leggere girerà un altro po', domani; potrebbe provare a vedere cosa c'è in quella casupola all'altro estremo della proprietà, per esempio. Quanto sarà distante? Cosa si dovrà portare?
È incredibile quanti posti sembrano esserci, lì, per potersene stare un po' da soli; ed allo stesso tempo, tanto poco bisogno; semmai, al contrario. È così che vanno le cose lì, ognuna se ne sta rinchiusa nella sua stanza, o c'è un posto, una stanza dove si incontrano? Si organizzeranno in qualche modo per usare quel piccolo cinema che la rossa le ha mostrato. Ci sarà qualcuno in palestra. Ci sarà qualcuno in biblioteca. È lei, Adele, piuttosto, a rimanersene tappata in camera.
Perché poi?, si chiede la bambina trovando il coraggio di uscire di nuovo per i corridoi, incamminandosi verso la biblioteca. Le Custodi sono simpatiche, gentili, disponibili, soprattutto quando ci si trova a parlare a tu per tu; ma ogni volta che le vede tutte insieme —tutte?— come durante i pasti, si sente così lontana da loro, così estranea.
Ed ora saranno tutte là. Sente le voci già dal corridoio —ed i suoi passi si fanno più esitanti— poi ancora più nitide quando entra in biblioteca: si sente pure un pianoforte che suona. La bambina si ferma, ascolta, e lentamente, un cauto passo dopo l'altro, arriva ad affacciarsi alla porta che dà sul salotto.
C'è chi è seduta in poltrona, chi su un divano, chi sdraiata con la testa in grembo ad una compagna, e la maggior parte è però seduta ai tavoli al centro della sala: chiacchierano, ridono, prendono il té, e giocano. È questo che fanno le Custodi la domenica pomeriggio? Mangiano torte e pasticcini col té, e giocano. Giocano a carte, giocano a Mikado, giocano a giochi che la bambina non ha mai visto prima. Qualcuna suona il pianoforte, in una stanza attigua.
A richiamare la sua attenzione è la stessa Custode che a colazione l'aveva invitata a sederlesi accanto. Come allora, la saluta agitando la mano con il braccio teso verso l'alto, e la bambina si incammina verso il tavolo a cui la Custode è seduta; la sua comparsa non desta particolari reazioni, come se la sua presenza lì fosse ormai normale. E di questo la bambina ne è lieta, perché la fa sentire più rilassata, anche se sente allo stesso tempo una punta di delusione, perché proprio ora che è più serena non le dispiacerebbe un po' di curiosità da parte di quelle donna: ma l'unica cosa che le chiedono, quando infine arriva al tavolo, è: «vuoi giocare con noi?»
La bambina guarda i pezzi, i dadi, le carte, confusa. «Non lo conosco, questo gioco.» «Se è solo per quello, te lo spieghiamo.»
Gan'ka/30
È a questo punto che la bambina comincia a rilassarsi, ad aprirsi. «È che mi sento che non so fare niente.» borbotta. Lena stringe l'abbraccio «Oh piccola, ma è normale. Sei appena arrivata, e nessuno ti ha spiegato come funzionano le cose qui. Certo non è bello trovarsi proiettate così in un mondo tutto nuovo,» la bambina scuote il capo in segno di diniego, a conferma «ma vedo che ti sei già data da fare. Hai scoperto da sola come aprire la finestra?» la bambina annuisce, in un piccolo scatto d'orgoglio: è una cosa talmente sciocca, un motivo talmente futile per essere orgogliosa, ma ne va comunque fiera.
«Sei una ragazzina sveglia, sono sicura che ti saprai dare da fare.»
«Ma come avete fatto voi ad imparare?»
«Oh be', la maggior parte di noi è stata … sponsorizzata da qualcuno che c'era già, e quando stai molto con qualcuno impari; per emulazione, se vuoi. E poi puoi sempre chiedere al tablet.» La bambina solleva il capo, dubbiosa, al che la donna trova spontaneo chiederle «Dov'è il tuo tablet?»
«L'ho lasciato in camera.» la bambina distoglie lo sguardo «Non mi piace.» china il capo, pronta a ricevere un inevitabile rimprovero sulla stoltezza di quella reazione, rimprovero che non arriva; ed è la bambina stessa a continuare, come se dovesse giustificarsi: «E poi c'ha quella strana sensazione quando lo tocco, come se … come se fosse qualcosa di vivo, una pelle.» la bambina ha un brivido a ripensarci.
«Ma quella è qualcosa che puoi cambiare. Se vuoi ti mostro come.» pausa; i loro sguardi si incontrano «Ma non è solo per questo che non ti piace, vero?» insiste la donna. La risposta è secca: «No.» mentre la bambina torna a distogliere lo sguardo, sentendosi nuovamente stupidamente capricciosa. «Vallo a prendere, su.» la invita Lena; e mentre la bambina si allontana, trascinandosi via come a fatica, la donna le manda dietro, a mo' di esortazione: «non lasciare mai che la rabbia, il dolore ti rovinino la vita.»
Quando la bambina torna, il tablet in braccio, il capo chino, sta ancora pensando alle parole della donna, sentendole come un rimprovero, senza rendersi conto di a chi fossero veramente rivolte. «Oh, su, piccola, non fare quella faccia,» Lena le solleva il mento con un dito «non era un rimprovero …» la donna esita, poi tace, non gradendo la piega che sta prendendo il suo stesso discorso.
La bambina si arrampica sul letto, sedendosi nuovamente accanto a lei, la schiena contro la testiera, il tablet sulle ginocchia sollevate. La donna si sporge verso di lei, poggiandosi ad un gomito; con la mano libera, le indica i passi da seguire per modificare le proprietà tattili dello schermo stesso, e la bambina si trova davanti una quantità sorprendente di opzioni.
Carta. La reazione è quasi istantanea, ma la sensazione di rattrappimento che la finta pelle dello schermo comunica alle sue dita la costringe a staccare la mano, disgustata. È solo per incitamento della donna che la bambina ritrova il coraggio di sfiorare lo schermo. E le sembra davvero, al tatto, come la pagina di un vecchio libro, ruvida e saggia.
«E ora?» le piace la sensazione di quella superficie, le fa persino tornare la voglia di andarsene in biblioteca a prenderne uno vero, ma si aspetta che la donna ora le possa spiegare perché quel coso sia così importante. E la donna le mostra la rubrica, che lei aveva già visto quando l'uomo le aveva consegnato il tablet; le mostra la mappa, che la rossa le aveva già mostrato portandola in giro per la casa: ma stavolta è diversa, sembra una di quelle mappe del tesoro nei video dei pirati.
«È perché hai scelto la carta come superficie. Alcune funzioni cercano di adattarsi.» «Mi piace di più così.» «Anche a me. E poi guarda questo. Il tuo percorso di stamattina.» Con rapidi tocchi la donna le mostra come vedere la strada fatta quel giorno: la vista sulla mappa si allontana, mostrando anche parte del terreno attorno alla casa, ed un tracciato rosso segue il cammino fatto dalla bambina quella mattina.
Ma Adele non è contenta. Con un sospiro, solleva il polso con il braccialetto. «È questo, vero? È come pensavo. È per questo che non vuole che ce lo togliamo? Per sapere sempre dove siamo?»
«Pensi davvero che il padrone si passi il tempo a spiare gli spostamenti delle sue Custodi?» Lena vorrebbe che la situazione fosse comica, per poterci ridere su; e invece è angosciante «No, ha altro a cui pensare. C'è solo un caso in cui la tua posizione diventa importante, ed è se ti dovesse succedere qualcosa; allora sì, questa viene comunicata tempestivamente, ma non solo a lui, anche a tutte noi.» Lena abbraccia la bambina, le deponde un bacio sulla fronte «Lo so, è brutto, pensarci ti fa sentire meno libera, come se fossi continuamente spiata. Ti consola un po' sapere che a ‘spiarti’ normalmente è solo un computer?» «È un gan'ka. Probabilmente vive più col computer che con una qualunque di voi.»
Passano lunghi minuti di silenzio, ed è la donna a romperlo. «Vedi, è di questo che parlavo. Tu ti senti in prigione, vorresti essere altrove, vorresti che nulla di tutto questo fosse mai successo, e quel braccialetto per te è solo un indizio della sorveglianza che ti è imposta. Per noi … be', dipende ovviamente. Io non ci penso nemmeno per la maggior parte del tempo, al limite è una piccola cosa ornamentale che tengo sempre con me; ci sono quelle che lo usano per controllare il battito cardiaco in palestra, o per sapere quanti chilometri di corsa hanno fatto. E lo stesso per il tablet: ci puoi leggere libri, ascoltare musica, guardare video, giocare, scrivere, disegnare. O tenerlo in disparte perché te l'ha dato il padrone. Ma loro sono solo strumenti, è il tuo modo di viverli che li rende quello che sono per te.»
Nel silenzio che nuovamente scende tra loro, Lena si tormenta, conscia di quanto le sue parole possano continuare a suonare come un rimprovero. «È come con i vestiti, con il cibo. Ti ho visto mangiare con entusiasmo, i vestiti ti sono piaciuti. Il braccialetto, il tablet, è perché sono elettronici? Più … vicini al padrone?»
«Non lo so. Forse. È che a me non piace essere qui, ma non è un brutto posto. E allora se non penso al gan'ka sono anche felice di stare qui. E queste cose mi fanno pensare a lui, e quindi le odio. Ma in realtà è bello stare qui, e mi trovo bene con voi. Almeno quelle di voi che conosco.»
«È per questo che non te ne sei scappata via subito? Ti togli il bracciale, te ne scappi via.» «Mi lascerebbe andare via? Mi farebbe inseguire e riportare qui. E sarebbe arrabbiato.»
«Tu pensi? Io penso che ti lascerebbe andare via. E penso anche che ti farebbe seguire da qualcuna di noi, a distanza, discretamente, giusto per essere sicuro che non ti succeda niente.» La bambina non risponde subito, come per riflettere su cosa dire. «Non penso che gli interessi di me fino a questo punto.» conclude infine. «Ma pensi che gli interessi al punto di seguire dove vai, cosa fai, o farti riacchiappare se dovessi scappare?»
Gan'ka/29
Dopo aver bussato due volte senza risposta, la bambina raccoglie il coraggio necessario e sprova la maniglia. La porta si schiude, e la bambina si affaccia nell'oscurità, finché alla luce che trapela dalla porta socchiusa non riesce ad identificare Lena stesa sul letto, con un'alta pila di cuscini a sorreggerle il capo, lo sguardo perso nel vuoto.
«È permesso?» bisbiglia la bambina. Lena si volta verso di lei, si riscuote, ed un sorriso stanco le tende le guance. «Piccola …», la invita.
«Ho portato qualcosa da mangiare.» mormora la bambina, facendosi strada nella semioscurità trascinandosi dietro il carrello con cautela, per non fare troppo rumore.
«Che cara che sei.» la voce di Lena ha qualcosa di distratto, sognante, come se non fosse del tutto cosciente, e la bambina sente crescere dentro di sé una strana paura per questo suo modo di parlare.
«Vuoi … vuoi che apro un po' la finestra?» chiede esitante, a disagio in quella mancanza di luce che sente quasi morbosa. «Ma sì, un po' sì.» le risponde la voce sognante.
La bambina trova quasi a tentoni la finestra, fa scorrere le dita sullo stipite sinistro, lasciando che la luce del pomeriggio filtri appena, proiettandosi sul pavimento, quanto basta perché nella stanza si possa finalmente dire che c'è luce. Nel compiere quel gesto, non può fare a meno di sentire un po' di orgoglio per il semplice sapere come far funzionare la finestra; e nello stesso momento, accorgendosi di non sapere come aprire i vetri senza spalancare le persiane che vi sono incorporate, si sente di nuovo piccola e ignorante.
«C'è un sacco di roba …» sta commentando intanto Lena, che sembra essersi risvegliata, tirandosi a sedere sul letto, sporgendosi verso il carrello. «Nana ha aggiunto qualcosa anche per me,» spiega la bambina, arrossendo «nel caso mi venisse fame.» «Non hai mangiato?»
E così la bambina le racconta la sua mattina, della frutta nel pozzo, della lunga passeggiata nella pineta e tra i castagni, dell'orto e del giardino, delle angoscianti cariatidi, delle spaventose finestre chiuse; ma soprattutto del silenzio e della pace tra gli alberi, e della voglia di tornare lì e lasciarsi scorrere addosso e l'aria e il sole e il tempo. Lena annuisce, conferma, mentre la bambina continua, e conclude con la sua perplessità, se tutto quello che quello che ha mangiato finora sia prodotto lì.
La donna ride, scuote il capo e le spiega che no, non sono autosufficienti, anche se probabilmente al padrone piacerebbe; ma che là vicino c'è anche una fattoria, una delle poche a non essere caduta nella trappola della produzione industriale, di quelle con terreni a pascolo, galline che razzolano, e pochi selezionati clienti disposti a pagare un sovrapprezzo per avere prodotti sani, naturali. «E al padrone piacciono i cibi naturali.»
«All'uomo» ripete la bambina «piacciono le cose naturali.» «Sì.» risponde con semplicità Lena. «Al gan'ka.» insiste la bambina «Sì!» reitera la donna, senza comprendere il motivo di quello stupore. Poi improvvisamente capisce, ride.
La bambina distoglie lo sguardo, mormora «Lo so, non è per nulla come penso che siano, non è per nulla come ci insegnano. Ma in realtà non mi interessa.» pausa, capo chino «Non voglio averci nulla a che fare.» solleva lo sguardo, sgambetta, seduta sul bordo del letto «È un bel posto qui, ci sono un sacco di belle cose da fare, un sacco di cose da imparare.» torna a guadare Lena «Penso che starò bene con voi.» E la donna capisce che quel voi si riferisce alle Custodi, che esclude espressamente il padrone di casa. Guarda con tenerezza quella povera piccola che ha deciso di amare la sua nuova vita, di goderne pur continuando a odiare, a disprezzare, chissà, colui che l'ha causata. Si sporge in avanti, la abbraccia, le carezza il capo.
«Sono sicura che ti troverai benissimo, piccola cara.» le mormora.
Gan'ka/28
Senza più la fretta della fame, la bambina giunge a quello che riconosce facilmente come ingresso principale, dal lato opposto alla rimessa da cui è uscita. Ad accoglierla è una doppia coppia di porte a vetri, che isolano il clima di fuori da quello di dentro, che si aprono su un grande atrio diviso in due da un singolo scalino che stacca la piastrellatura in ceramica del tratto più esterno dal rialzo in legno che conduce ai corridoi interni.
Lungo lo scalino, una filiera di scarpe le indica silenziosamente cosa fare. La bambina arriva fino allo scalino, cercando un buco nella filiera, si toglie le scarpe, si sfila le calze, e rimane quindi esitante sullo scalino, conscia del fatto che anche i vestiti che indossa portano la polvere di fuori. Con un sospiro di rassegnazione, si toglie anche maglietta e pantaloni, avvolgendoli in un imbarazzante fagotto, sperando di potersene disfare quanto prima.
Passando davanti la porta della cucina, scorge le Custodi indaffarate a rassettare dopo il pranzo, e riprende quindi a camminare con più cautela, per non farle accorgere della sua presenza. Invano, perché un paio di secondi dopo sente Nana che la chiama. La bambina si ferma, si volta, mentre Nana la raggiunge per chiederle se ha mangiato.
La bambina sente le guance che le si infiammano per l'imbarazzo, si aggrappa con disperazione al fagotto che tiene in mano, e balbetta: «Ho … ho preso la frutta … quella del pozzo.» e poi d'un fiato, per scusarsi «Ma poi ne ho messa altra! Ho riempito di nuovo il secchio …»
Ma l'unica cosa che Nana le chiede è: «Ti basterà un po' di frutta?» e la bambina rimane un attimo interdetta; poi, chinando il capo, mormora: «Non era solo un po',» la voce è tesa «mi sono abbuffata.»
«Ma era solo frutta, ti verrà fame di nuovo tra dieci minuti. Senti, facciamo così. Io stavo per portare qualcosa da mangiare a Lena. Faccio un vassoio un po' più grande, e glielo porti tu, così se ti viene fame c'è qualcosa anche per te, va bene?»
La domanda è retorica, Nana torna in cucina per riemergerne poco dopo con un carrello che spinge fino alla bambina rimasta ferma, un po' sbalordita, in corridoio.
«Ecco qua. Oh, sono i vestiti quelli? Come ti sei trovata?» «Bene, ma sono tutti sporchi ora. E non so …» «Dalli a me, li porto in lavanderia.»
Con un gesto automatico, la bambina le porge i vestiti, per poi poggiare le mani al manubrio del carrello. Nana prende il fagotto, accenna ad allontanarsi, ma lo sguardo ancora confuso della bambina la trattiene.
«È tutto a posto?»
Adele scuote il capo, si riprende. Afferra più saldamente il manubrio, e comincia a spingere il carrello, con vaghe parole di diniego, un vago gesto di saluto, senza voltarsi a guardare Nana che la osserva mentre si allontana.
Non se la sente di parlare, per ora, della sensazione di non sapere cosa fare in cui si imbatte ogni volta che ha davanti situazioni che dovrebbero essere normali, quotidiane. Non se la sente di parlarne ora, un po' è perché il tempo —con un pranzo che aspetta— il luogo —in mezzo al corridoio— non sono adatti, ma in larga misura è per l'imbarazzo.
È come essere una bambina nei primi anni di vita, quando nulla ancora è pratico, abitudinario, ma senza quella continuità di direttive, consigli, sorveglianza anche, cui i bambini sono sottoposti —e da cui imparano— nei primi anni di vita. E lei, invece, è senza nulla di tutto ciò; ignorante, innocente, ma senza guida: sarà perché non è una bambina nei primi anni di vita, biologicamente, e quindi da lei ci si aspetta che possa destreggiarsi usando l'intelligenza, la logica, le conoscenze pregresse.
E se quel piccolo mondo lì dentro fosse come quel mondo là fuori, la cosa avrebbe anche un senso. Ma tutto qui dentro sembra guidato da leggi diverse, e per quanto possano essere naturali a lei appaiono sul momento aliene, sorprendenti. Dove può trovare un metro di paragone? L'unico pensiero che può avere è «cosa farei io in questa situazione?» Un paradosso senz'altra via d'uscita che chiedere a persone sconosciute, con cui non ha familiarità.
Non sa nemmeno quali siano le fondamenta della convivenza delle Custodi. Come si organizzano per mantenere quel posto così pulito, così ordinato, così funzionante? Le regole non possono essere semplicemente “fai quello che vuoi”, “rispetta la privacy delle altre”.
Bussa alla porta di Lena.
Gan'ka/27
La strada per la pineta è lunga e stancante. Ansimante, la bambina si ferma infine a prendere fiato sul limitare del bosco di castagni, dove il sentiero attraversa quello che sembra il greto di un torrente, oltre il quale finalmente comincia la nuova vegetazione.
Fra un affannoso respiro e l'altro la bambina comincia a chiedersi quale follia la stia spingendo a questa estenuante camminata. L'idea di essere immersa in una realtà virtuale le appare ora assurda, perché nemmeno il più pazzo dei pazzi spenderebbe tante risorse per ricreare un mondo virtuale tanto uguale a quello reale. A che pro il caldo, la stanchezza, il sudore, la fatica? Eppure sono proprio queste le cosa che sta vivendo, che sta cercando lei stessa, e che nel pesarle le danno una sensazione di vitalità, la fanno sentire viva e reale dopo la confusione, il soffocante vuoto del giorno precedente. Con cipiglio, la bambina riprende la strada. Per lei c'è solo il rinnovato entusiasmo, ora, la rinnovata curiosità.
E quando infine arriva al centro della pineta, ad attenderla è un largo spiazzo, grandi tavoli con panche in legno, e leggermente in disparte una grande tettoia, a proteggere un grande forno a legna, ed accanto un lungo ripiano sopra una struttura a muretto nel quale, in alcove semicircolari ad altezza del terreno, è ammassata legna da ardere; il ripiano stesso termina in grandi scanalature su cui poggiano solide griglie metalliche, sopra fornacelle scavate nella struttura stessa.
La bambina non ha difficoltà ad immaginare pranzi e cene condotte lì, sotto l'ombra dei pini e della tettoia, con un gran daffare a preparare pizze, bruschette, carni per le grigliate. Si chiede se anche il pane è fatto in casa, se anche la carne è, in qualche modo, locale. Quanto ancora di quel piccolo mondo deve scoprire?
Si siede all'angolo di un tavolo, a riprendere fiato. Le panche sono larghe, invitanti. Si sdraia, le gambe penzoloni, a contemplare il cielo, oltre lo spigolo del tavolo, tra gli aghi dei pini, tra le connessure del tavolo, tra i pali di sostegno della tettoia, tra le dita delle sue mani.
Riprende coscienza improvvisamente, con un sobbalzo, senza nemmeno essersi resa conto di essere scivolata in un dormiveglia durato un paio d'ore. Si rende conto del tempo trascorso dal nuovo angolo della luce, dalle nuove ombre, e più di tutto dalla nuova fame. Si alza, si guarda intorno. È sempre sola, immersa in quello splendido silenzio, con solo il leggero soffio del vento, il ronzio di qualche insetto a tenerle compagnia; e già pianifica di tornare a passare altro tempo lì, magari portarsi una coperta, stendersi a terra a leggere un libro. E ricordandosi di portare qualcosa da mangiare.
Con uno sbadiglio da slogare le mascelle, la bambina si alza, si guarda intorno con più attenzione, per ritrovare la strada; l'idea di dover riaffrontare il lungo cammino dell'andata la scoraggia, ed è ben magra consolazione pensare che, almeno, è tutta discesa.
Ma anche qui ritrova il palo, e le indicazioni, con le ARNIE, stavolta alla sua destra, e le CASTAGNE, da quel che si capisce, nella direzione da cui è venuta, ed infine il CENTRO, verso un nuovo sentiero. Fiduciosa del fatto che nessuno indicherebbe la via più lunga, la bambina si avvia infine ad attraversare la pineta riscendendo a valle per la nuova strada.
In discesa, la bambina cammina spedita, quasi precipitosa, finché la pineta non finisce, bruscamente, quando il sentiero nuovamente incrocia il greto del torrente. Guardandosi intorno per orientarsi, la bambina crede di riconoscere, un po' distante su un lato, il retro del capannone degli attrezzi che aveva intravisto in fondo all'orto; ma il sentiero la conduce oltre, e finalmente Adele si ritrova in mezzo agli alberi da frutto di cui le aveva parlato la gigantessa.
I suoi passi rallentano, il suo sguardo punta desideroso i rami, i frutti che ne pendono. Si chiede se può prenderne qualcuno, per placare la fame. La ferma il timore di venire scoperta, si immagina occhi sgranati che la fissano, stupiti, mentre le sue mani, il suo viso, i suoi vestiti sono ricoperti del succo di quelle susine, di quelle pesche, come un bimbo sporco di marmellata.
Attraversa stoicamente il frutteto costringendosi ad ignorare i gemiti del suo stomaco. Ha appena mangiato, e mangiato in abbondanza, non può essere passato tanto tempo! Quanto a lungo avrà perso coscienza nella pineta? Da quanto tempo è fuori?
A distrarla dalla fame, dai dubbi, è un pozzo, un vero pozzo, con muro a secco, ponte di metallo, carrucola, catena. La bambina è stupita, entusiasta; non ne ha mai visto uno dal vivo, finora, e trovarselo così davanti. Tira su la catena, bracciata dopo bracciata, sentendo il peso del secchio pieno, e quando infine riesce ad afferrarlo ed a poggiarlo sul muretto —operazione che si dimostra più difficile di quello che pensasse— lo scopre pieno non di acqua ma di frutta.
È come se qualcosa le si spezzasse dentro; senza quasi accorgersene si ritrova la bocca, le mani piene, ed è solo quando ormai il secchio è quasi vuoto, e la fame placata, che emergono i rimorsi per il gesto compiuto. Torna a riempire il secchio, raccogliendo la frutta dagli alberi, e lentamente lo accompagna giù per il pozzo, fino a sentire il tonfo che segnala il raggiungimento dell'acqua. Lega la catena come l'ha trovata, e spera di non aver fatto troppo danno.
Gan'ka/26
Tornando verso la casa, la bambina sente la lieve pendenza del viale, nella fatica che comincia a farsi sentire, e nell'imponenza della casa che pur distante, pur parzialmente nascosta dall'agrumeto, troneggia sopra di lei.
Nel guardare l'edificio, la bambina è morbosamente attratta dall'innaturale, persino terrificante effetto creato dalle larghe finestre che ne interrompono le mura con cavità che sembrano assorbire ogni colore, cancellare completamente la luce, apparendo nere e profonde come pozzi senza fondo.
La bambina distoglie lo sguardo con un brivido, ed accoglie quasi con un sospiro di sollievo lo slargo che si apre davanti la rimessa e da cui si diparte un secondo vialetto che costeggia la casa in un anello e che presto la riporta al punto di partenza, dopo averle mostrato ulteriori possibilità, con stradine che puntano verso un giardino visibile poco lontano, un orto, un bosco. Ed ognuna di quelle vie la chiama, le chiede di esplorare.
Prima il giardino, con le sue aiuole multicolori e le sue basse siepi, che la portano fino ad un gazebo sotto cui alcune custodi parlano, ridono; la bambina scappa via, timida, prima che quelle abbiano il tempo di chiamarla.
Poi l'orto, dal quale la saluta a gesti la gigantessa delle cipolle del giorno prima. La bambina si avvicina curiosa, la segue un po' in giro, la guarda lavorare, con la gigantessa che ogni tanto si ferma, le mostra le piante, le offre uno degli ultimi pomodori della stagione.
La bambina comincia ad avere conferma dei sospetti, e commenta quasi in un mormorio «Avete tutto, qui, vero?». La donna sorride, dondola il capo, sbuffa con u sorriso «Eh, tutto tutto no, ma a frutta e ortaggi siamo combinati bene.» «Ho visto le arance, e l'uva.» commenta la bambina; e la donna continua «E tutto il resto? Ciliege, pesche, susine, fichi …» e allo sguardo interdetto della bambina, al suo scuotere il capo, indica il gazebo che si intravede anche da lì «Sono lì, attorno al gazebo.» «Non ci sono stata ancora.» si schermisce la bambina, arrossendo, ma la donna non indaga ulteriormente, anzi continua: «E al bosco? In questa stagione è meraviglioso, e tra qualche mese ci darà anche le castagne.»
Il bosco è più lontano di quanto alla bambina non sembrasse inizialmente, e la pendenza della strada ora si fa sentire di più. Sul sentiero Adele incontra un'altra custode che corre nella direzione opposta e che la saluta con un cenno del capo e un breve gesto della mano passandole accanto. La bambina risponde al saluto, e si ritrova perplessa a cercare di ricordare chi sia quella donna; sa di averla già vista, o forse si sta facendo confondere dai suoi tratti orientali? E subito, per la prima volta in vita sua, la bambina si preoccupa di aver pensato qualcosa di razzista; è razzista pensare che i cinesi sembrano tutti uguali? E sarà cinese, poi, o sarà giapponese?
Ma non ha il tempo nemmeno di approfondire quei dubbi, che subito le viene in mente che dovrà imparare i nomi di tutte quelle donne, ed ora si spaventa di questo. Come si fa? Quante sono? A scuola c'è l'appello tutti i giorni, e dopo un po' si imparano tutti i nomi, anche di quelli con cui normalmente non parli; ma qui?
La coglie improvvisamente la sensazione che tutte quelle domande nella sua testa, tutti quei pensieri, stiano facendo troppo rumore. O forse sono i suoi passi. Si ferma, unisce le gambe, trattiene il respiro. Intorno, silenzio. È entrata nel bosco quasi senza accorgersene. Si guarda intorno. Indietro, riesce a vedere gli alberi più radi nella direzione da cui è venuta; intorno a lei, l'ombra più fresca, più densa, sotto la luce dorata delle foglie di castagno. Anche il terreno, sotto i suoi passi, le sembra diverso, più scuro, più ricco, ma anche meno ordinato, meno pulito.
Avanza lentamente, misurando i passi, senza smettere di guardarsi intorno affascinata, curiosa. Non tutti gli alberi sono uguali. Ci sono molti castagni, e vecchi ricci aperti, vuoti, rinsecchiti a terra a mostrarne la diffusione; ma addentrandosi tra gli alberi la bambina riesce anche a distinguere qualche quercia, ed alberi che con qualche difficoltà riconosce come platani.
Nel silenzio che la circonda, rotto solo dal rumore dei suoi passi e saltuariamente dal lieve stormire delle foglie al passare del vento, la bambina comincia a sentirsi osservata. I passi le si fanno guardinghi, lo sguardo ora intento a cercare indizi di umanità, forse tecnologia. Si ferma sotto un albero, aspetta, ascolta. Si guarda il braccialetto, come nella speranza che le segnali in qualche modo un eventuale pericolo, ma il metallo rimane inerte.
Con un sospiro, senza sapere se sentirsi scoraggiata o rincuorata, e pur senza riuscire a scrollarsi di dosso quella sensazione, la bambina riprende il cammino, fino ad incrociare un palo conficcato nel terreno al centro di una piccola radura che le si apre davanti. Nel palo, in legno, sono conficcate tre frecce, ugualmente in legno, su cui sono scolpite parole che la bambina decifra con qualche difficoltà.
La freccia che punta alla direzione da cui lei è venuta dice qualcosa come CENTRO, e la bambina immagina che sia un modo per indicare la casa. Alla sua sinistra un'altra freccia indica ARNIE, e la bambina rimane per qualche secondo a fissare il sentiero che si diparte in quella direzione; è da lì che viene il miele che ha consumato a colazione? La terza freccia dice PINETA, ed il sentiero da essa indicata è decisamente in salita. La bambina rimane perplessa a guardare in quella direzione, poi il sentiero delle arnie, poi di nuovo quello della pineta.
Siede su uno dei tronchi abbattuti posati intorno alla radura, aspetta un'ispirazione. Non ha nessuna intenzione di finire in mezzo alle api, ma nemmeno ha alcuna fretta di affrontare un'ulteriore salita. Si ferma a riposare, guarda sorridendo la fetta di cielo che si apre tra gli alberi, cerca di ricordare l'ultima volta che ha fatto una passeggiata del genere. Se non conta la gita con il parco-zoo l'ultimo anno delle elementari, l'unica volta che ha fatto qualcosa del genere è stato quando sono saliti in montagna con la famiglia, ed ora, a ripensarci, prova quasi dolore.
Ricorda distintamente le interminabili ore di macchina, lo spiazzo affollato in cui si sono fermati, pochi metri nel bosco, tavolini in mezzo a tanti altri, ed i richiami ogni volta che lei curiosa si allontanava, finché i cugini che erano con loro, più grandi, non riuscirono a convincere i genitori a portarla un po' in giro.
Nostalgia. È questo, si dice, quello che prova, quello che dovrebbe provare. Sono passati solo due giorni. E la nostalgia c'è, c'è il desiderio di rivederli, di riabbracciarli; ma il resto è vuoto, e una rabbia sorda, e un senso soffocante di abbandono, di tradimento.
Stizzita, la bambina si alza, cammina nervosa da un tronco riverso all'altro, si siede, si rialza, gesticola, scalcia la terra. Sarebbe tutto immensamente più semplice se non fosse così bello qui, così libero, se non ci fossero quelle buonissime colazioni, quell'immensa casa, questo bellissimo bosco, quest'immenso desiderio di prendersi un libro, no, una pila di libri e di sedersi tra le radici di quell'albero a leggerli uno dopo l'altro, fuori dal mondo. E già la sola idea di poterlo fare …
È come se l'avessero strappata via alla vita reale e, prima che il dolore per il distacco potesse superare la confusione, l'avessero infilata nel sogno di qualcuno, a dirle: questo sogno è migliore da vivere. Ma se fosse un sogno, soprattutto se fosse il sogno di qualcun altro, non farebbe così male dentro, non si dovrebbe sentire la corteccia degli alberi, la puntura del riccio.
Forse non è un sogno, è una realtà virtuale, l'hanno attaccata ad una delle macchine del gan'ka, l'hanno ridotta ad un vegetale la cui mente vaga tra i circuiti, a rendere più realistico il suo mondo inesistente, dove l'intelligenza artificiale non basta più?
Come si fa a capire se si vive nel mondo reale o in una realtà virtuale? È per questo che il gan'ka sembra una persona normale, anche se un po' pazza? È per questo che i sapori, gli odori sembrano più vivi, più veri? È per questo che il gan'ka le dice che lì sarà al sicuro?
«Io non ci sto, capito? Non ci sto!» grida a nessuno in particolare.
Gan'ka/25
L'entusiamo della bambina si placa quando i suoi passi riecheggiano nella rimessa. La bambina si guarda intorno: l'ambiente è grande abbastanza da poter ospitare forse una decina di automobili, ma in quel momento è quasi vuoto; rimangono solo la macchina con cui l'uomo l'ha portata fin lì, ed un minipullman.
Infastidita, la bambina si avvia rapidamente verso una delle tre uscite che si aprono nelle pareti della rimessa, cercando di muoversi con cautela, come a nascondere il rumore dei proprî passi.
Fuori, le si presenta davanti il lungo viale da cui sono arrivati, dritto sparato fino al cancello che dà sulla strada. La bambina comincia a percorrerlo lentamente, lo sguardo che si perde quando sui vigneti che le si aprono a destra, quando sull'agrumento che le chiude la sinistra.
Non c'è anima viva, ed è con passo titubante che alla fine la bambina giunge a pochi passi dal cancello. Le coltivazioni finiscono, delimitate da un terrapieno, alto forse una trentina di centimetri e largo più del doppio, che le separata da ciò che per la bambina non può che essere un fossato: un solco nel terreno largo un paio di metri e dalla profondità inestimabile nascosta sotto un folto roveto. Oltre il fossato, un breve tratto di nuda terra prelude la barriera che separa la proprietà dalla strada, un muro a secco alto non più di mezzo metro su cui sono piantati, ad intervalli periodici, pali collegati da filo spinato.
Il viale su cui la bambina continua ad avanzare, in corrispondenza del fossato, è costeggiato da un muretto molto basso, come ad indicare la presenza di un ponte; sui capisaldi che ne fortificano l'inizio e la fine, la aspettano le cariatidi. La bambina ha ricordi fumosi di queste figure umane, nella notte in cui è arrivata; le ricorda che tengono il cancello aperto, ma non riesce a ricordare se l'avessero poi chiuso, se si muovessero; non riesce nemmeno a capire se siano solo statue, o persone reali, immobili come sono nella loro posizione, con quella fascia sugli occhi che potrebbe essere semplicemente ornamentale, ma anche una visiera. La loro presenza la mette a disagio: si sente osservata, e passa in mezzo a loro timorosa di vederle improvvisamente muovere, per venirle addosso, fermarla.
E invece, la bambina si ritrova infine a poggiare le mani sul freddo metallo del cancello, ad un passo dalla strada. Sente il cuore che le batte forte, mentre le cresce la sensazione di poter fare qualcosa di folle come aprire quel cancello, correre fuori in strada, scappare da lì. Le sue mani stringono forte le sbarre, ma non serve forza: il cancello si schiude quasi da solo, e le basta un mezzo passo indietro perché tra le due ante vi sia spazio abbastanza per farla passare.
La bambina, impaurita dal proprio stesso gesto, si guarda oltre le spalle, ma le cariatidi sono immobili, impassibili. Sempre con lo sguardo puntato verso di loro, la bambina scivola oltre il cancello, ed improvvisamente è sulla strada.
Potrebbe sfilarsi il bracciale, correre via. Sarebbe libera. Potrebbe tornare dalla propria famiglia, scappare via insieme a loro. Per qualche motivo, è sicura che l'uomo non le correrebbe dietro; potrebbe liberarlo dalla propria presenza, e riprendere la vita che le è stata rubata.
Ma non fa nulla di tutto questo. Rimane immobile lì, appena fuori dal cancello, a contemplare la strada, ma non fa nessun passo avanti. Lo spazio aperto che le si offre davanti non la attira. Non riesce nemmeno a pensare a cosa fare; nella sua mente vi sono solo domande, cosa? perché? dove? quando? e nessuna di queste aspetta una risposta.
Forse è il modo in cui l'uomo ha insistito sull'essere al sicuro lì, forse è la volontà con cui le Custodi vi rimangono, forse sono le parole della rossa, forse è la visione di quei brevi spaccati di vita comune che ha visto, forse non è niente di tutto questo, ma solo la sensazione di libertà che le viene dal poter ridefinire la propria vita, senza genitori, senza guardiani, senza rimproveri, senza obblighi, senza nemici: la bambina si ritrae, richiude il cancello davanti a sé, si volta verso quella che ormai sa essere la sua nuova casa.
Gan'ka/24
La bambina riconosce la donna dal lento, morbido passo prima ancora che dai segni dell'età sul viso. Le corre incontro giù per il lungo corridoio, chiamandola «Nana!». Non sa bene nemmeno lei perché il vederla le metta tanta gioia, ma quando finalmente arriva quasi a buttarlesi addosso, è pervasa dalla stessa sensazione che si prova nel reincontrare un vecchio, caro amico con cui da tempo si sono persi i contatti.
«Cara,» la saluta la donna con semplicità, carezzandole i capelli, sorridendole «mi fa piacere vederti. Ti vedo bene, allegra, pimpante addirittura.»
La bambina si accorge che la donna si porta dietro un carrello. «Che fai?» le chiede stupita. «La biancheria.» risponde la donna. Poggia la mano sulla porta davanti a cui sono ferme, quindi la apre. La bambina la segue, la osserva mentre con rapidi gesti prende alcuni capi di biancheria dal carrello, li piega, li poggia sul letto. «Vedi se ci sono asciugamani per terra in bagno?» chiede la donna. La bambina si affaccia, torna in camera scuotendo il capo.
Stanza dopo stanza, la bambina segue la donna, in quel rito ripetuto. Di tanto in tanto ad accoglierle è una delle occupanti, che le ringrazia, prende la biancheria pulita e consegna loro quella da lavare; ma la maggior parte delle stanze sono vuote, e Adele non può fare a meno di notare la varietà di odori che le permeano, e spesso le caratterizzano: spezie, profumi, incensi diversi, e talvolta odori più umani, che però la bambina non riesce a identificare; e quando sono questi odori ad essere dominanti, Adele nota che la donna, con un sospiro di cui lei non coglie il valore, spalanca le finestre, lasciando che sole ad aria fresca invadano la stanza.
Aiutando la donna, la bambina impara la routine del cambio della biancheria, come distinguere le cose da portare a lavare e quelle da lasciare, e pure qualche trucco per piegare la biancheria più rapidamente; la donna le mostra dove trovare, su vestiti e lenzuola, le etichette che ne marcano la proprietà, le spiega l'ovvio trucco di raggruppare la biancheria per stanza già mentre la si ritira; ma in tutto questo, c'è solo una cosa che veramente sorprende la bambina: quanta biancheria vi sia.
All'iniziale stupore della donna, la bambina cerca di spiegare la propria perplessità: «be', pensavo che andando in giro sempre nude …», al che la donna non può fare a meno di ridere: «Sì, è vero, qui dentro non si fa troppo uso di indumenti.» ammette «Ma, innanzi tutto, come avrai notato, non tutte trovano confortevole la piena libertà che la maggior parte di noi apprezza. E soprattutto, non viviamo certo solo qua dentro; e allora ci servono i vestiti; e sai, anche solo una piccola cosa ciascuna … si sommano. Le lavatrici giù in lavanderia sono macchine instancabili, e sempre in movimento.»
E parlando sono arrivate davanti alla porta della stanza di Adele. La bambina non può fare a meno di notare che hanno saltato la stanza di Lena, ma prima che abbia il tempo di chiedere, e sono tante le cose che vorrebbe chiedere sulla sua vicina, si accorge che Nana è entrata in camera sua, ed ha iniziato a svuotare l'ultima delle ceste, allineando sul letto una tuta, un paio di jeans, una gonna, una camicia, un paio di magliette, mutandine, canottiere.
È tutta roba molto semplice, ma mentre la donna spiega che per il momento hanno preso solo queste, giusto perché lei potesse avere qualcosa da indossare, e che poi sarebbero andati a fare compere, secondo i suoi gusti e le sue necessità, e che per ora però si sarebbe dovuta provare quelle cose, la bambina si sente cadere in pianto. E quando la donna la abbraccia, sorpresa, per consolarla, carezzandole i capelli e mormorando ripetutamente «piccola, piccola», Adele esplode in singhiozzi, ricambiando l'abbraccio della donna e balbettandole in grembo spezzoni confusi di parole e frasi senza senso, in un tentativo di esprimere qualcosa che è riconoscenza, sorpresa, perplessa incredulità.
E dopo lo sfogo la bambina può finalmente provare quegli indumenti, uno per uno, e rimane stupita da come le calzino a pennello, come la vestano con precisione. «Mi stanno … mi stanno benissimo! È incredibile, è meraviglioso!» «Mi fa piacere,» risponde la donna con un pacato sorriso «così intanto hai qualcosa da mettere. Poi, uno di questi giorni, andiamo a farti un guardaroba più serio. Ah, ed ecco, ovviamente ci sono anche queste.» La donna si prende, dall'ultimo del ripiano del carrello, quattro scatole «Ecco qua. Scarpe, un paio di ciabatte, un paio di pantofole. Dovrai provarti anche queste.» E mentre la bambina è indaffarata con le calzature, la donna ripone con calma i nuovi indumenti nei cassetti, e senza grossa pubblicità porta via quelli con cui la bambina era arriva tra loro.
Quando finalmente la donna la saluta, Adele si ritrova infine vestita in maglietta, tuta e scarpe da ginnastica, ricordandosi del parco che l'aspetta fuori.
Gan'ka/23
«Non ti ho mai visto così.»
La voce della prima. Sobbalzo. Sono steso sul letto, a fissare il soffitto. Mi sono perso in qualche sorta di trance. A cosa stavo pensando? Un passato che non è stato, un futuro che avrebbe dovuto essere.
Non ne vale la pena. Ecco com'era. Non ne vale la pena. Da tempo non più per gli altri, ora nemmeno per me stesso. Una chiusura senza soddisfazione. Ed improvvisamente una macchina a vapore senza più pressione, che si muove solo per inerzia. Ecco com'era, com'ero.
È di nuovo così? Non ha senso. È l'ombra del ricordo di allora.
La prima sale sul letto, si inginocchia dietro di me, lasciandomi poggiare il capo sulle sue cosce. Mi carezza la fronte, alternando le due mani in un movimento lento, ripetuto, infinito, un sottile invito al sonno.
«Non sarebbe dovuto cambiare niente.» dice improvvisamente. È un rimprovero, a modo suo, quel tanto che basta perché io lo percepisca, senza calcare la mano. Ma abbiamo capito entrambi ormai che quelle parole, che dovevano servire a tranquillizzare lei, a segnalare una direttiva generale per il comportamento delle altre Custodi, per me erano poco più che una speranza. Ed è proprio questo che sta dicendo lei: «È buffo, se ci pensi. In questi due giorni, per le altre non è davvero cambiato praticamente nulla. E tu invece sei stravolto.»
Stravolto.
Non è il termine che userei io. Ma è anche evidente che il ritmo sul quale conducevo la mia vita è stato interrotto. E non è tanto il fatto in sé che mi dia fastidio —perché è fastidio quello che sento— quanto che alla radice vi sia qualcosa per il quale non sarebbe dovuto cambiare niente. E non riesco neanche a dirmi che avrei dovuto, o anche solo potuto, prevederlo, perché è solo dopo l'altra notte che è cominciata questa percezione di stare rivedendo, rivivendo la fine di quella parte della mia vita, senza averne potuto rivivere il resto.
Era questo che speravo inconsciamente quando ho accettato, solo il preponderante desiderio di non avere più nulla a che fare con quel meschino? La possibilità di rivivere l'allora, con un finale diverso? Sarebbe piuttosto ironica allora, l'imprescindibile legge del contrappasso, questa sensazione da cui adesso non riesco a liberarmi, la sensazione di stare rivivendo il finale senza aver rivissuto il resto.
«Andrà a finire male.» Ecco quello che penso.
«Perché dici questo?» «Perché è quello che penso, è la sensazione che ho.»
Tace, la prima, continua la sua infinita carezza. Riflette. I suoi gesti rallentano. Ed infine:
«Sai, penso di poter capire perché tu ti senta così. Non … non pretendo di … di sentirlo anche io, ma posso capirlo, da quello che mi hai raccontato. Penso di … di vederne le ragioni. E penso che … sia diverso, ora. Tu senti questo parallelo perché è qualcosa che ti ha segnato, ed è … non so se dire giusto, normale che sia così. Ma non è la stessa cosa.»
Fa una pausa, come se si aspettasse che io le chiedessi qualcosa, forse di dimostrarmi in che modo e perché ora non è come allora, ma non ho nulla da dire. Sappiamo entrambi cosa sta per dire. E così lei continua:
«Non sei solo.» ok, non era quello che mi aspettavo «Non siamo qui, noialtre, solo per il tuo piacere o per tenerti la casa. Siamo tante, e siamo attente le une alle altre.»
So cosa sta dicendo, e mi fa piacere sentirglielo dire; ma allo stesso tempo so che farò l'avvocato del diavolo, e so già cosa le risponderò su questo, ma lei intanto continua.
«E poi, lo dovresti sapere meglio di me, ha il braccialetto.» ecco, era questo che pensavo avrebbe detto; e stavolta davvero pensiamo alla stessa cosa: «E funziona.» conclude.
Lo so da me che non c'è motivo per cui le cose debbano andare come allora; nessuno conosce meglio di me la rete che protegge me e le mie Custodi, rete della quale anche la nuova arrivata fa ormai parte. Se bastassero questi ragionamenti a mettere a tacere questa sensazione che mi perseguita, questa si sarebbe già estinta. Ed è troppo facile trovare scuse per cui la sensazione debba permanere, scuse come: è solo formalmente che la bambina è una di noi, come: la rete non è, non può essere, perfetta. Ed io non riesco a non dirlo:
«La bambina non è una Custode. Non è come voi. La sua presenza qui non è volontaria.» «Nemmeno la mia, tecnicamente.»
Mi sorprende la rapidità con cui ribatte. La fisso negli occhi, lei fa spallucce.
«Non stai seriamente paragonando la tua situazione alla sua.» «No, ovviamente no. Ma mi sembra importante puntualizzarlo. Abbiamo tutte storie diverse, ma siamo tutte qui.» «Quasi tutte.» «Quasi tutte. Va bene, non sappiamo se deciderà di rimanere o meno, quando avrà la possibilità di scegliere; ma saranno passati più di dieci anni da ora, e non è di quel momento che tu ti stai preoccupando, o sbaglio?» scuoto la testa «Appunto. E prima di allora, cambia molto se la sua presenza, la sua partecipazione qui è volontaria o meno, ai fini della sua sicurezza? Di cosa hai paura, che decida di mettersi intenzionalmente in pericolo? O che sia il suo stesso essere una di noi a metterla potenzialmente in pericolo?»
«Non lo so. Non lo so, va bene? Non lo so. Se lo sapessi, saprei anche cosa fare, ma non lo so. Non so da dove viene questa sensazione. O meglio, lo so, ma so anche di non poter fare nulla per scrollarmela di dosso.» pausa «Devo solo aspettare che maturi, che passi da sé.»
«E nel frattempo? Resterai qui sdraiato sul letto a fissare il soffitto, con la mente chissà dove? Da quanto tempo eri così? Hai mangiato? Hai lavorato? Quanti cicli di sonno hai saltato?»
Sbuffo. Le sue domande mi renderebbero rabbioso, ma nonostante l'insistenza, la ferocia quasi con cui me le rivolge, la sua infinita carezza mi mantiene più calmo. «Non lo so. Non so nemmeno questo. Ma non ho sonno, e sono ancora lucido.»
«Ho i miei dubbi in proposito.» mormora lei. E dopo qualche secondo di silenzio, nuovamente a voce normale, serena, come se stesse raccontando un fattoide senza importanza, riprende: «La rossa mi ha raccontato delle loro chiacchiere, ieri. È rimasta colpita, la rossa, da come la bambina percepisce questa storia, questa casa, la nostra stessa presenza qui.» di nuovo inquisitiva «È a questo, che ti riferisci? Al fatto che lei lo senta come una prigionia, che veda il braccialetto come quelli per la sorveglianza elettronica degli arresti domiciliari? Hai paura che tenti la fuga?»
Scuoto il capo stancamente. No, non ho paura di questo. Ma lei ha già ripreso, e sta parlando d'altro:
«E mi ha raccontato, la rossa, che la bambina è convinta che ci siano telecamere di sorveglianza dappertutto.» si sporge in avanti, costringendomi a incrociare il suo sguardo «“Buffo, vero?”» e so che sta scimmiottando la rossa «Ne sai niente tu?» insiste, con un ironico sorriso a cui non posso fare a meno di rispondere con la stessa espressione.
«È sveglia, la bambina,» riprende «acuta. Si troverà bene qui.»
«Si troverà molto meno bene là fuori.»
La prima sospira. Probabilmente si sta stancando anche lei di sentirmi fare il menagramo. «Fuori si sarebbe trovata comunque allo stesso modo. E qui possiamo offrirle qualcosa che altrimenti non potrebbe avere.»
Lo so; è quello che continuo a dirmi io stesso. Ma ha in realtà poca importanza, perché non è di lei o per lei, in realtà che sono sommerso da questa sensazione. È per quelli che sono stati. E forse è questo che mi devo chiedere, cosa sarebbe stato per loro, di loro, altrimenti. Come avrebbero vissuto, se non li avessi incontrati? Che fine avrebbero avuto?
Alla fine è questo il punto: avrebbero avuto una sorte diversa, se non li avessi incontrati? E da un lato razionalmente mi posso anche dire che non sarebbe finita meglio, che magari in tempi e in modi leggermente diversi avrebbero fatto la stessa fine; ma rimane un'eco in fondo ai pensieri, la coscienza che non potrò mai sapere veramente come sarebbe andata altrimenti, il dubbio che in realtà sarebbe potuta andare diversamente, meglio per loro, se non li avessi incontrati.
Ma in realtà non importa nemmeno davvero il come avrebbe potuto essere; ciò che importa è che nel momento in cui sono entrati nella mia vita, sono diventati una mia responsabilità, e che tutto quello che è loro successo dopo è sulle mie spalle, anche se sarebbe comunque successo a prescindere.
E adesso la sorte di questa bambina è anche mia responsabilità; e non riesco a sentire che lo sia come per le altre Custodi, ma solamente come allora, e tuttora, avevo cominciato a sentire che era per gli altri due.
È nel lungo silenzio in cui mi perdo in questi pensieri che improvvisamente mi ricordo dell'altra obiezione al discorso che la prima mi ha fatto per tranquillizzarmi. «Lena.» dico soltanto, ed è la mia stoccata finale, ed ovviamente non mi dà nessuna soddisfazione darla.
La prima annuisce, china il capo. Sapeva che sarebbe arrivata.
«Lena.» pausa «Lena è … una situazione diversa. Non so … non so più nemmeno cosa. Non so nemmeno più se è “semplicemente”» e fa il gesto delle virgolette con le dita «depressione nel suo caso. È una cosa che ha colpito tutte, quando fu, e che era inevitabile che colpisse lei più di altri; e l'ha colpita dove era particolarmente fragile.»
Si ferma, deglutisce, riprende.
«A volte mi chiedo se sarebbe stato più semplice se fosse stata improvvisa, la sua reazione. Se si fosse improvvisamente isolata da tutto e da tutti, senza più voler vedere o sentire nessuno. Invece è stato tutto così lento, progressivo … come se avesse spento il motore, ma stesse continuando ad andare avanti, per inerzia. Da quanto tempo ci siamo accorte che non era soltanto “un po' giù”?»
Da un bel po', avrei voluto dire, ma non è il momento di rivangare quella discussione. Anche lei fa una pausa, come a riprendere fiato, o forse anche lei a darsi la risposta che le avrei dato io. Poi, quasi con rassegnazione:
«Sì, lo so cosa stai dicendo. Non vediamo tutto, non possiamo tutto. Non vediamo tutto quello che succede, non possiamo tutto contro quello che può succedere, non possiamo tutto nemmeno nel venirci in aiuto le une alle altre. Ma continua a non essere la stessa cosa.»
E poi, improvvisa.
«Sai cosa? Ti stai riducendo come lei. Ieri Lena è uscita dalla stanza, ha pranzato con noi, ha persino fatto le analisi del sangue senza fare storie. E oggi tu sei qui, completamente spento, fuori dal mondo. Avete fatto cambio?»
Gita scolastica/5
L'uomo trova una rinnovata tranquillità —forse più una distrazione— nel dirigere le azioni per il pranzo, assegnare i compiti ai ragazzi che si propongono, dare un occhio o qualche consiglio durante l'opera: chi alla dispensa, chi alla cucina, chi a preparare i tavoli, i ragazzi si mettono all'opera; sotto tono, ma già rasserenati dalla determinazione del professore.
Quando finalmente tutto si ferma, e rimane solo da aspettare che sia pronto, l'uomo sente tornare le domande sul destino della collega, degli studenti spariti nel nulla. Si ritrova davanti la grande porta a vetri —chiusa— del locale, a guardare fuori le strade vuote, un debole riflesso della propria immagine contro il vetro.
Mosso dal desiderio di affacciarsi un attimo, guardare fuori, cercare indizi sulla sparizione della collega, l'uomo afferra la maniglia, e nel momento preciso in cui la sua mano vi si serra intorno, la voce della collega riecheggia chiara, nitida: Non aprite!
L'uomo si ferma, interdetto. Si guarda intorno, ma nessuno degli studenti sembra aver sentito nulla: continuano nelle loro chiacchiere a bassa voce; qualcuno, annoiato, chiede a che punto sia la pasta. Nessuno sembra nemmeno prestare attenzione al professore, al suo sguardo nuovamente sbigottito.
“Non sto uscendo pazzo,” si dice il l'uomo “ho solo ricordato l'avviso che ci aveva già dato sul pullman, non aprire, non uscire: dentro, siamo al sicuro; fuori, l'incognita.”
In quel mondo che sembra aver abbandonate il familiare per immergerli nell'inatteso, nell'inspiegabile, nel misterioso, la modesta rassegnazione della collega, il suo buon senso, diventano un'àncora, un caposaldo cui legarsi per non perdere la ragione. È per questo, si dice il professore, che ne sento ancora la voce; nessuna telepatia, nessuna comunicazione con i defunti, nessuna magia, nulla di soprannaturale: è solo il mio modo di mantenere il contatto con la realtà.
A distoglierlo da quei pensieri è l'entusiasmo dei ragazzi quando finalmente cominciano ad arrivare i primi piatti. Li guarda mentre gridano avanti e indietro, si passano i piatti, si alzano per aiutare, ed il suo ruolo gli appare ora chiaro ed evidente: dirigerli, guidarli attraverso quell'impossibile situazione.
Ed improvvisamente la sua mente è piena di pensieri sulla logistica, sull'organizzazione: un inventario delle risorse disponibili, l'organizzazione dei pasti, del sonno, dei tempi, i turni per la cucina, per la pulizia, per l'igiene personale.
Immerso in quelle riflessioni, vede a stento il piatto che gli viene servito, ed è solo quando si sente chiamare dagli studenti, preoccupati dalla sua distrazione, che comincia a mangiare; ma approfitta del richiamo per anticipare ai ragazzi la piccola riunione a cui dovranno partecipare dopo il pasto: non sono più una classe in gita, ma è come per un campo che si dovranno organizzare.
La reazione degli studenti lo sorprende, nuovamente: prendono la cosa con entusiasmo, passione. Hanno appena finito di mangiare, e già si sono spontaneamente divisi i compiti: c'è chi sparecchia, chi prepara la lavastoviglie, chi ridispone i tavoli, preparando un quadrato attorno a cui si possano sedere tutti. Bravi ragazzi. Brave ragazze. Il professore si scopre sorpreso a notare il maschilismo della lingua; è questo il momento di pensare a queste cose?
Le decisioni sul cosa fare e come farlo è breve, indolore; i turni vengono stabiliti in ordine alfabetico, con una semplice distribuzione ciclica di oneri e onori. L'uomo ha la sensazione che le cose stiano andando troppo lisce, e si chiede cosa succederà quando l'emozione dell'avventurosa novità sarà scemata, quando gli attriti della vita comune in quel piccolo spazio cominceranno a mostrare i primi effetti; ma per il momento, la più grande preoccupazione sono le domande che inevitabilmente emergono: cosa sta succedendo? per quanto tempo dovremo restare qui? per quanto tempo potremo?
È il momento di fare l'inventario. L'uomo prende con sé due studenti, e lascia gli altri liberi di passare il tempo come preferiscono, confidando che la lunga camminata ed il soddisfacente pranzo abbiano la meglio sui loro entusiasmi, e che li porti ad un pomeriggio di riposo: ed è proprio così che li ritrova tornando infine nella sala principale, completata la lista dei viveri, delle risorse. E loro, il professore conta rapidamente le teste, sono ancora tutti lì.
Ci sono quelle che si sono appisolate sedute dov'erano, chinate sul tavolo; c'è chi ha trovato una soluzione più comoda accostando delle sedie; c'è chi usa lo zaino come cuscino. E il professore fa ora mente locale sul fatto che dovranno, per la seconda notte consecutiva, dormire accampati. E già il pensiero gli corre all'indomani: che cosa li aspetta ancora?
Il cielo si rabbuia, ma è troppo presto perché faccia notte. Grossi nuvoloni cupi si vanno addensando, spinti da un vento che si fa sempre più violento, finché non lo si sente fischiare nelle strade, tra gli edifici; il suo ululato distrae gli studenti che chiacchieravano a mezza voce in un angolo, ne sveglia qualcuno di quelli appisolati.
Gli sguardi di tutti si volgono alla grande porta a vetri, alle finestre; si aspettano che accada qualcosa di spaventoso, forse solo lo scatenarsi di una bufera di potenza inaudita, forse lo spalancarsi improvviso di quella porta, di quelle finestre, a lasciare che la violenza del vento possa invadere quegli spazi.
I vetri tintinnano sotto le raffiche più feroci, ma resistono. Il vento persiste, con rabbia crescente, finché improvvisamente cede, lasciando che la polvere in strada ricada, che le cartacce si fermino. Nella trattoria, in un sospiro collettivo, ciascuno riconosce il placarsi dei timori che hanno condiviso, trattenendo il fiato.
I nuvoloni permangono, cupi, gonfi, oscurando il cielo; ma la loro minaccia pare distante, vuota. I ragazzi si intrattengono in chiacchiere, in giochi, forse senza più l'entusiasmo di prima, ma comunque con una distratta allegria, salvo soffocare le voci, fermarsi timorosi in attesa, in ascolto, ogni qualvolta il vento riprende forza, con raffiche improvvise o lenti crescendo. E verso sera anche il vento ha perso la sua minaccia, è diventata quasi un'abitudine, una breve pausa senza più vera paura al tintinnare dei vetri, prima del riprendere delle attività.
Quando infine si ritrovano a cena, il vento che ha ripreso foga, diventa un semplice argomento di conversazione; ma se si commenta la sua violenza quasi con nonchalance, rimane una sottile vena di nervosismo: non sorprende più, non lascia più con il fiato sospeso, ma la sua rinnovata, e stavolta perdurante, ferocia lascia a tutti un'ombra di disagio.
L'intero pasto viene accompagnato dall'ululare del vento, dal tintinnare dei vetri, e quando infine studenti e professori si alzano da tavola è la tempesta stessa che si è andata accumulando sopra le loro teste che trova improvvisamente sfogo, con il secco schioccare di un fulmine nelle vicinanze subito seguito dall'improvviso scrosciare della pioggia, preludendo ad una notte senza pace.
I ragazzi di turno sparecchiano precipitosamente, per tornare in fretta nella sala comune. Il professore vede ora, per la prima volta dall'inizio di quella assurda situazione, la paura crescere negli occhi dei suoi studenti, nel modo in cui questi si scambiano sguardi come a cercare aiuto, supporto, per trovarvi invece soltanto riflessa la paura dei compagni.
I commenti sono mesti, sul tono di “mammamia che brutto tempo” o “stanotte non si dorme”; mesti sono i movimenti con cui i tavoli vengono messi da parte per lasciare uno spazio centrare in cui dormire. Nessuno degli studenti sembra prendere l'idea di usarli come letti; piuttosto, non si capisce se consciamente o meno, i tavoli vengono spostati verso la porta, come a creare una barriera contro qualunque cosa possa riuscire ad entrare durante la notte.
Giacigli di fortuna vengono preparati sul pavimento, abiti e giubbotti per avere qualcosa di morbido su cui poggiarsi, zaini e borsoni a fungere da cuscini. Nessuno propone argomenti per una chiacchiera, nessuno propone un gioco; la stanchezza per la lunga giornata e la precedente scomoda notte, la paura per la tempesta la fuori, tutto invoglia solo alla pace, al silenzio, in attesa del sonno.
A luci spente, il professore non riesce a prendere sonno. Nell'oscurità che li circonda, saltuariamente interrotta dall'azzurra luce di un lampo, non può fare a meno di pensare quanto possa essere facile, lontani dal mondo, ricadere vittima di ancestrali paure, come i bambini. Sono soli, senza nulla che possa proteggerli dalla furia della natura. Si immagina la collega, là fuori, un Gandalf al femminile che li difende, urlando alla bufera il suo You shall not pass! È un pensiero che, nella sua infantile semplicità, gli dà sollievo, forza.
Si guarda intorno; nessuno dei ragazzi dorme, ed un passo per volta hanno spostato i giacigli, dapprima sparsi in giro per il pavimento, raccogliendoli intorno a lui. Circondato da quei visi impauriti, nervosi, il professore si commuove; vorrebbe abbracciarli, tutti insieme, per consolarli, tranquillizzarli; vorrebbe cantare loro una ninna nanna, per farli scivolare in un sonno sereno.
E invece rimane lì, immobile, a contemplare l'oscurità della sala, i bagliori alle finestre, ad ascoltare il tamburellare della pioggia contro i vetri; ed è così che lentamente si accorge di come il suono sia cambiato, non è più secco, scrosciante, ma ha qualcosa di molle, viscido, come è viscido il colare della scura pioggia sui vetri. E alla luce dei lampi che seguono, non è più di azzurra, bensí di rosso che si tinge la stanza.
«Professore,» mormora Sacchinelli «sta piovendo sangue.»
Gan'ka/22
Buongiorno. Una parola tanto semplice, un saluto tanto comune, eppure ogni volta che se lo sente dire, incrociando una Custode nei corridoi, la bambina si sente più felice. Prova sempre a rispondere, almeno con un gesto della mano quando la timidezza le serra la voce in gola, e quando arriva finalmente all'ingresso della cucina, riesce persino a prendere l'iniziativa, con un «buongiorno a tutti» di cui si pente quasi immediatamente, avendo sbagliato il genere del pronome; ma nel coro di «buongiorno» che le risponde, sembra che nessuna delle Custodi abbia fatto caso all'errore.
Nel contemplare quella sala affollata, con gente che entra, esce, si alza dal tavolo, si siede al tavolo, apre e chiude sportelli, sorveglia pentole sul fuoco, la bambina si chiede quante siano le Custodi, come facciano ad organizzarsi, come può imparare —lei personalmente— ad integrarsi nelle dinamiche di quel piccolo popolo.
Si rende conto di non sapere nemmeno come comportarsi in quel momento; si pente di non aver prestato abbastanza attenzione il giorno prima, quando era stata Lena a prepararle la colazione, ma anche così non ha idea nemmeno di dove potersi mettere a sedere. Quante cose dovrà reimparare?
Una Custode sembra notare la sua esitazione, richiama la sua attenzione con un gesto del braccio, indica un posto vuoto accanto a sé. La bambina entra finalmente in cucina, e scavalcando la panca ringrazia la Custode, che le risponde strizzando gli occhi su un larghissimo sorriso; anche senza parole, la bambina non ha problemi a leggere quell'espressione in un “non c'è di che”.
Appena accinge a sedersi, la bambina si sente fermare da una mano poggiata solidamente contro la schiena; è un'altra Custode, seduta accanto a lei dall'altra parte, che le chiede «non hai un'asciugamano?» Perplessa, confusa, Adele non sa cosa rispondere. «Ci penso io.» interviene una terza Custode, in piedi dietro di loro, e a passi veloci si allontana.
«Le schegge nelle chiappe non sono il massimo.» mormora intanto all'orecchio di Adele la donna che l'ha fermata, strizzandole un occhio «Se stai nuda ti conviene sempre avere un asciugamano a portata di mano.»
La terza Custode è già tornata, e stende un piccolo asciugamano bianco sulla panca, al posto della bambina. Adele ringrazia, arrossendo; si era persino dimenticata di essere nuda, e le parole della Custode l'hanno resa cosciente della propria condizione, imbarazzandola.
Si è appena seduta, e già si rende conto di essersi dimenticata di prendere una tazza. Si alza, guardandosi intorno, ed è la Custode che l'ha invitata a sedere ad indirizzarla, nuovamente con un semplice gesto, senza parole, semplicemente puntando il dito in direzione di uno degli armadi.
Ringraziando la Custode, imbarazzata, confusa, la bambina si alza, scavalca la panca, sentendosi incapace, ignorante, goffa, nuda. Ma nessuno sembra prestare attenzione alla sua condizione, alla sua goffaggine, alla sua ingenuità, alla sua inesperienza, se non per venirle incontro. E tutto questo, se pure appena, le dona un minimo di sollievo.
Tornata al suo posto con tazza e cucchiaino, la bambina vi trova davanti un bricco pieno di latte caldo, un barattolo di miele. Il tavolo è pieno di contenitori che cambiano continuamente posizione, pieni di biscotti, fette biscottate, tozzi di pane; e marmellate, confetture, burro, bevande, frutta.
La bambina comincia a servirsi, si riempie la tazza di latte, ci scioglie dentro del miele, prende una manciata di fette biscottate, chiede alla Custode che finora è stata tanto generosa di silenziose direzioni se può avvicinarle qualche marmellata.
Alla mancata reazione della Custode, la bambina si ritrova per un attimo perplessa; raccoglie il coraggio, e poggiando delicatamente una mano sul braccio della Custode mormora nuovamente «scusa …» per interrompersi sorpresa quando la Custode si volta verso di lei, sentendosi imbarazzata dal suo sguardo attento. «Potresti … potresti avvicinarmi la marmellata?» la bambina riesce a concludere, indicando con un gesto i barattoli al centro del tavolo.
La Custode si alza, poggia la mano su uno dei barattoli, voltandosi verso la bambina come a chiedere consenso; al cenno affermativo di Adele prende il barattolo, e quello accanto per buona misura, e li dispone entrambi davanti alla bambina, concludendo con quel suo tipico strizzare gli occhi sopra un largo sorriso in risposta ai ringraziamenti.
E la colazione ha finalmente la meglio su Adele, imprigionandola nella sua ricchezza, nei suoi profumi, nei suoi sapori. Già assaggiando il latte la bambina rimane sorpresa; ricco, denso, con un sapore netto di cui lei non riesce ad avere memoria, come se quello che ha bevuto fino ad allora non fosse stato altro che acqua. E le fette biscottate, che si lasciano sgranocchiare schiette nella loro fresca croccantezza, prima ancora di essere arricchite dal gusto delle marmellate. E la confettura di more …
Come fa tutto ad essere così buono? Quei sapori, che dovrebbere esserle familiari, sembrano ben più reali, più solidi di quelli di cui lei ha avuto esperienza finora; e lei si sente mossa dal desiderio di assaggiare tutto, di perdersi in quei sapori, di continuare a sentirli per sempre. Non mangia in fretta, ma non riesce a smettere di servirsi. E mentre mangia con calma, gustandosi quella ricchezza, si guarda intorno, a scoprire quel piccolo frammento di quotidianità che è la colazione delle Custodi.
Ci sono quelle che arrivano e sembrano sveglie da ore, con il corpo che profuma fresco di sapone, i capelli avvolti in un turbante di asciugamani; pimpanti, afferrano tazze e biscotti e si servono colazioni pantagrueliche.
Ci sono quelle che arrivano muovendosi come zombie, gli occhi appena socchiusi, le mani protese in avanti, e invece di «buongiorno» riescono solo a dire «ca-ffé», prima di crollare a sedere sul primo posto libero, accasciandosi sul tavolo, in un tentativo di nuovo sonno, finché qualche anima pia non porge loro una calda tazzina della droga richiesta.
Quando finiscono, le Custodi si alzano, raccolgono tazzine e cucchiaini e li portano ai lavabi, per ripulirli. Talvolta qualcuna si sofferma, prende le stoviglie lasciate ad asciugare, le passa eventualmente con uno strofinaccio, e le ripone nella dispensa.
La cucina è un ronzio di chiacchiere; ci sono quelle che si lamentano delle disavventure del giorno precedente, quelle che pianificano il nuovo giorno; qualcuna legge le notizie del giorno sul tablet, ed ogni tanto ne commenta qualcuna.
È da quel continuo parlare che la bambina, più di ogni altra cosa, si sente aliena: nomi, eventi, luoghi, tutto ciò che viene citato è riferito a contesti, interni ed esterni a quella casa, che a lei sono completamente ignoti, salvo per il suono familiare di qualche nome o situazione di cui aveva già vagamente sentito nella vita precedente.
Vorrebbe sapere, capire, ma le manca il coraggio di interrompere, di chiedere. Si accontenta, per il momento, quando finalmente la sazietà supera la gola, di alzarsi e seguire i gesti imparati dalle altre: porta la propria tazza al lavabo, la lava, la lascia ad asciugare; tornata, al tavolo, prende l'asciugamano su cui era seduta, e salutando si allontana, sentendosi scioccamente soddisfatta dall'aver saputo cosa fare.
Gan'ka/21
Adele si sveglia l'indomani da un sonno irrequieto, ma meno tormentato di quello della notte precedente. Rimane sdraiata al letto, attraversata da una sensazione di futilità, di vuoto che anche dopo il riposo la mantiene priva di energie, come se la forza vitale le fosse stata succhiata via, svanita con la sua vecchia vita di scuola, libri (molti), giochi (pochi).
Davanti a lei, ora, il vuoto assoluto di una nuova vita, una vita priva di indicazioni, di direttive, di tutto; una vita da imparare a vivere partendo da zero; senza famiglia, senza appoggio, senza nemmeno una quotidianità definita. Il vuoto assoluto.
Qualche piccolo frammento lo può raccogliere dal giorno prima, a partire dalla stanza che la circonda, quella stanza che, pur non essendole ancora familiare, già non le è più estranea.
La bambina si alza, seguita dalla stessa strana luce artificiale, incorporea della mattina precedente, e gira per la stanza, prendendone le misure con i propri passi, toccandone i mobili per prendere dimestichezza; mobili vuoti, per lo più, salvo il tablet poggiato sulla scrivania, il sari regalatole da Priyā adagiato su una sedia, gli indumenti con cui è arrivata la notte precedente piegati in un cassetto.
Rivederli le procura una fitta, le riporta alla mente la sensazione di atroce disperazione che aveva pervaso la sua famiglia, quei vestiti che tanto le erano alieni e che tanto il padre aveva insistito perché lei li indossasse, per essere “più preziosa”. Ed ora le parole del padre, le sue lacrime, quei vestiti, le danno un senso di disgusto. Richiude i cassetti con violenza, torna a sedersi a bordo del letto, lo sguardo perso nel vuoto.
C'è un grande specchio nella parete di fronte alla porta, talmente largo da sembrare una finestra. La bambina si avvicina, lo sfiora timidamente; contemplando la propria immagine, si trova a chiedersi cosa ci faccia lei lì, con quella faccia, con quell'incertezza sulla sua vita futura, sulla sua vita di ora.
Lo specchio è caldo al tocco; non scottante, non fastidiso, ma decisamente a temperatura più alta di quella della stanza; incuriosita, la bambina lascia scorrere le dita lungo il bordo inferiore, per ritrarre la mano con un sobbalzo quando lo specchio sembra spezzarsi in sottili lame verticali che, ruotando dietro il vetro, lasciando finalmente passare la luce del giorno.
Dopo la sorpresa iniziale, la bambina torna a far scorrere le dita avanti e indietro lungo il bordo di quella che adesso è diventata una finestra, incantata dai listelli che ruotano nella direzione in cui scivola la sua mano, svanendo nel nulla quando perpendicolari al vetro, tornando a trasformarlo in uno specchio quando completamente chiusi.
Soddisfatta, Adele torna a far sparire i listelli, lasciando che la luce del giorno inondi la sua stanza, e si sente già meglio. Riesce persino a vedere, adesso, le tre ante in cui è divisa la finestra, e le maniglie a incasso nella cornice di ciascuna di queste, con cui può farle scorrere l'una sull'altra.
La fresca aria mattutina porta dalla finestra sottili profumi che la bambina stenta a riconoscere, ma che le danno una crescente sensazione di sollievo, poi quasi di gioia. Davanti alla finestra, ad occhi chiusi, la testa reclinata all'indietro, Adele respira a pieni polmoni, in pace con il mondo.
Piccoli pensieri cominciano a farsi strada in lei, sensazioni che le sembrano quasi sciocche, ma che allo stesso tempo le danno un piccolo brivido di esaltazione. Vive quel piccolo gesto, la semplice apertura di quella finestra, come un gesto di liberazione, un'infrazione alla sensazione di clausura che quella casa immensa, con i suoi corridoi ben ordinati, la sua illuminazione indefinita, le stanze immerse nella penombra, le ha dato finora. Mai come adesso in vita sua la bambina ha sentito il bisogno di aria fresca, luce, spazi aperte. Dov'è finita la sua voglia di chiudersi in una stanza, lontana dal mondo, a leggere i suoi libri?
Affacciata alla finestra, Adele contempla gli spazi che le si aprono davanti, giardino, campi coltivati, alberi da frutta; si chiede fin dove si estenda la proprietà, chi se ne prenda cura, e come; pensa che le piacerebbe farsi una corsa fino a quegli alberi laggiù; e perché non dovrebbe farlo? in questa nuova vita, dalla quotidianità indefinita, dove nessuno le ha detto cosa fare, nessuno le ha detto nemmeno cosa non fare.
Con la fame che la spinge ad allontanarsi dalla finestra per raggiungere la porta, la bambina comincia a pianificare confusi progetti per la giornata che la attende. Si ferma un attimo, in corridoio, davanti alla porta di Lena, combattuta tra il desiderio di quella compagnia che ieri ha sentito così affine e la timidezza contro il richiamare su di sé l'attenzione di una persona che a stento conosce.
Senza più il coraggio della paura del giorno prima, senza ancora la dimestichezza della quotidianità, la bambina decide di soprassedere, e riparte alla volta della cucina.
Gan'ka/20
Cara mamma,
mi manchimi mancate tanto tanto tanto, anche se è solo un giorno che sono via.
Questo posto èterribilestrano e un po' spaventoso, ma anche molto bello. È pieno di donne, che il padrone chiama “Custodi”. Ne ho conosciuta qualcuna, e sono tutte molto gentili con me.
Una di loro, che credo sia indiana, mi ha insegnato come si preparano dei colori naturali per la pelle, tipo l'henné che però lei chiama henna, e mi ha anche disegnato un braccialetto di germogli sul polso. Poi mi ha insegnato a indossare il sari, me ne ha fatto provare alcuni e mi ha regalato quelli che secondo lei mi stavano meglio. A volte sembrava che stesse giocando con le bambole, e che ioerofossi la bambola, ma è stato comunque molto divertente.
Qui dentro sembra che ci sia tutto, ci sono anche una palestra e una biblioteca, e questo un po' mi mette paura perché mi sembra come una prigione. Però hanno ancora più cose, perché attorno a questa enorme villa c'è anche un sacco di terreno, anche coltivato.
Il padrone.
Il padrone secondo me è pazzo. Le altre dicono che è un ganka, uno diquei cosiquegli individui che vivono con e di computer. A me non sembra, l'ho visto vicino a un computer una sola volta, ed era questo tablet che mi ha dato. D'altra parte è anche vero che tutta la casa è un computer (una delle Custodi mi ha detto che la cosa si chiama “domotica”).
Non mi ha messo le mani addosso come temevi tu. Mi ha anche detto che qui non ho nulla da temere, e penso anche che le Custodi non glielo permetterebbero, anche se non so, perché a me il padrone mette molta paura e non so se le Custodi gli si metterebbero contro mai. Gli ho visto schiaffeggiare una Custode quando siamo arrivati, non ho capito il motivo, e nessuna delle altre presenti ha alzato un dito o detto una parola. Questo mi mette un po' paura, ma forse ha fatto qualcosa di grave e soltanto io non me ne sono accorta.
Ho un po' paura, no, ho molta paura per quello che verrà. Non ho mai nemmeno pensato al futuro prima, e ora ne ho paura. È vero, non so cosa aspettarmi, ma se anche tutti i giorni dovessero essere come oggi, almeno starei bene. E poi hanno una bellissima biblioteca con tantissimi libri che aspettano solo che io li legga. Perché allora ho così tanta paura?
Non voglio però che tu ti preoccupi per me, sono sicura che andrà benissimo. Vi voglio tanto bene a tutti,
Adele
La lettera non lasciò mai la testa della bambina, se non sotto forma di lacrime che l'accompagnarono fino al sonno.
Gan'ka/19
La bambina percepisce appena, ma distintamente, un odore di incenso, e da questo capisce, prima ancora di controllare il nome sulla porta, di essere arrivata. Bussa delicatamente, poi appena più forte, e mentre attende risposta si chiede se avrebbe dovuto avvertire in qualche modo, se quella mezza frase detta a pranzo contasse davvero come invito …
Ed intanto la porta si apre, e la bambina viene travolta dagli odori, stavolta più intensi, di incenso e spezie, con la sensazione che non sia solo la stanza ad esserne pregna, ma anche il corpo della donna che le sta davanti.
«Oh, eccoti, dunque, vieni, vieni,» la donna si fa da parte per farla entrare, le chiude la porta alle spalle «temevo che decidessi di non venire, alla fine. Vieni, vieni, entra, entra.»
Immersa in una penombra mantenuta da piccole candele sparse in giro in maniera apparentemente casuale, la stanza è attraversata da larghe falde di tessuto con toni arancioni, azzurri, verdi; la bambina accarezza affascinata quelle ali leggere, a volte quasi impalpabili, mentre ne percorre la labirintica suddivisione degli spazi seguendo la donna.
Nella penombra la bambina scorge un'alcova, un'altra donna lì stesa e forse dormiente, il cui corpo dalla carnagione pallida sembra emergere dal nulla; un sole blu stilizzato (due cerchi concentrici, fiamme ondulate a rappresentare i raggi) ne adornano la spalla.
«Oh, e per inciso, io sono Priyā. E tu?» «Adele.» la bambina risponde in un mormorio, non per timidezza, stavolta, ma per timore di svegliare la donna che dorme. «Oh, non ti preoccupare per lei, non la sveglierebbero nemmeno le cannonate. Pensiamo a te piuttosto. Hai già pensato a un disegno?»
La domanda coglie la bambina di sorpresa: aveva accettato l'invito più per la bellezza del disegno che ornava il corpo di Priyā che per altro, ed ora non sa cosa proporre per sé. Quando Adele trova infine il coraggio di rispondere con un debole «no, veramente no … non ci avevo pensato …», la donna prontamente risponde «Poco male. In attesa che ti venga un'idea ti insegno come preparare il colore; e se non ti viene in mente nessuna idea … ah, lo so! ma prima vediamo se trovi un'idea tua.»
La bambina perde la cognizione del tempo mentre la donna le illustra il ciclo di vita del colore, partendo dalle piante (le mostra l'henna, l'indaco, l'idraste), la creazione delle paste cromatiche; le offre del té (“a quest'ora si dovrebbe sempre prendere del té”), e le spiega come serva anche nella preparazione dei colori.
Affascinata e confusa, la bambina scopre che la stanza da letto sfocia in un vero e proprio laboratorio, dove la luce è già più intensa e tavoli e scaffali sono carichi di prodotti in vari stadi di preparazione (“e siccome devi farli riposare per alcune ore, nel frattempo puoi cominciare a preparare gli altri”).
«Vedo che hai trovato una nuova vittima.» la frase, un po' biasciacata, fa sobbalzare la bambina. «Oh, ben svegliata.» Priyā si volta verso l'alcova, fa le presentazioni «Adele, Aryana, Aryana, Adele.» La donna sul letto risponde con un vago gesto del braccio al saluto della bambina; sorride, poi, e chiede «Cosa ti farai disegnare?»
Nuovamente, la bambina si trova a non saper rispondere alla domanda, ed è nuovamente Priyā ad intervenire: «bene, visto che non hai un'idea, so io cosa ci vuole per te. È una cosa piccola e semplice, ma di buon auspicio quando si comincia una nuova vita.»
Pochi minuti dopo, la bambina si trova ad ammirare il disegno, una linea ondulata che le percorre il polso e dalla quale si diparte, ad ogni cresta e ad ogni valle, un germoglio.
«E adesso aspetteremo che asciughi. Cosa possiamo fare nel frattempo? Ah! Lo so!» Priyā si alza e si dirige verso uno degli scaffali in fondo al laboratorio. Aryana scoppia a ridere: «Lo sapevo, lo sapevo.»
Adele si guarda intorno, un po' preoccupata, ma Priyā e già tornata, con in braccio una pila di tessuti colorati. «Vuoi provare un sari?» chiede, ed allo sguardo interrogativo della bambina prende il primo dei tessuti e con rapidi gesti se lo avvolge attorno.
«Sono troppo grandi per lei.» interviene ancora Aryana. «Scommettiamo?» poi, rivolta alla bambina, a voce più bassa «Non farle caso, è una lagnona. Vieni, scegliamone uno insieme, ti insegno come si indossano.»
Postapocalittica/2
Oggi uno straniero ha raggiunto la nostra comunità. È arrivato dalle ombre, e si è fermato al limitare della comunità, com'è usuale.
L'arrivo di uno straniero è un evento raro: prima d'ora, nel corso della mia vita, è successo solo una volta, quando ero ancora un bambino. Come allora, l'evento ha causato una certa commozione, con i bambini che correvano gridando avanti e indietro, mentre gli adulti, tra i quali stavolta anch'io, hanno sospeso per qalche minuto le loro attività, rimanendo a guardare lo straniero da lontano.
È stato nell'attesa che è seguita che ho deciso di scrivere queste pelli. Per me, l'arrivo dello straniero significa la possibilità di imparare cose nuove, soddisfare la mia eterna curiosità; ed ho pensato che se la conoscenza delle antiche civiltà è svanita con loro e con chi di loro aveva memoria, l'unico modo per evitare che questo succeda è di registrare per iscritto gli eventi.
Se in futuro, quando persino la memoria di me sarà svanita, qualcuno vorrà soddisfare la propria curiosità, potrà farlo leggendo queste pelli. Ma so anche che non è detto che chi le leggerà conosca il mondo come lo conosciamo noi; per questo ho deciso che preparerò altre pelli in cui descrivere anche gli aspetti comuni della vita quotidiana, pur sapendo che sarà difficile indovinare quali cose nel futuro potranno essere diversa da ora, come ora lo è indovinare quali cose fossero diverse nei tempi antichi.
Dal centro è infine emerso il vecchio Guido, accompagnato da Cielo, con una brocca d'acqua da offrire allo straniero, che l'ha accettata con un inchino. Dissetatosi, lo straniero ha quindi restituito la brocca a Guido, ha raccolto la propria sacca, ed ha seguito il vecchio fin sotto la tettoia del centro, con i bambini più curiosi che si affollavano intorno a loro e Cielo che cercava di calmarli, ricordando loro che lo straniero doveva riposare.
Per noi adulti non è rimasto altro da fare che tornare alle nostre attività. Ho sbrigato rapidamente quello che dovevo fare, e sono corso in casa a scrivere. Non nascondo di sentirmi non meno curioso di quei bambini: ricordo ancora la delusione che avevo provato la volta precedente, nella quale lo straniero parlò poco, e per lo più in una lingua a me sconosciuta; spero che il nuovo arrivato —che non mi sembra essere lo stesso della volta scorsa— possa invece raccontarci qualcosa di interessante.
Postapocalittica/1
Sappiamo che civiltà più complesse della nostra hanno calpestato il nostro mondo, in epoche passate. Lo sappiamo perché del loro passaggio rimane tuttora traccia. Ma di queste civiltà sappiamo ben poco.
C'è chi sostiene che questi ruderi siano alieni d'origine, resti della visita di esseri venuti dalle stelle; ma la maggior parte della gente pensa che siano semplicemente civiltà umane che ci hanno preceduto, raggiungendo l'apice del proprio sviluppo prima di sparire.
Sinceramente, io trovo fantasiose entrambe le teorie. L'idea che una civiltà possa semplicemente svanire, lasciando come ricordo di sé solo questi ruderi, non mi sembra poi più credibile dell'idea di esseri che vivono tra le stelle.
Confesso di essere una persona molto curiosa. Mi piacerebbe poter incontrare uno di questi fantomatici esseri del nostro passato, umani o meno che fossero, e scoprire in cosa consistesse la loro vita, in cosa differisse dalla nostra, da dove venisse la loro civiltà, e come fosse poi sparita.
Quando ero più giovane, la mia curiosità mi ha talvolta portato persino ad abbandonare la mia comunità per lunghi giorni, attirato dal desiderio di andare a cercare segni che mi potessero dare un indizio; l'ho fatto sapendo di mettere a repentaglio la mia vità, perché trappole assurde, non si capisce se intenzionali o meno, si nascondono spesso in quegli spuntoni che emergono dalla polvere dei secoli: ricordo ancora lo scheletro di un esploratore meno fortunato di me, mezzo sepolto sotto un crollo improvviso.
In quelle scorribande giovanili mi accompagnava talvolta Terreo: il suo interesse principale, nonché l'inclinazione naturale della sua indole, era verso la tecnica, gli strumenti, e scoprire qualche artefatto lasciatoci dalle civiltà precedenti era il suo sogno.
Finché un giorno non mi disse che era tutto inutile, che troppo era il divario tra le nostre conoscenze e le loro, che persino i materiali delle loro costruzioni, figuriamoci le tecniche che vi stavano dietro, erano incomprensibili. E da allora non venne più con me, accontentandosi di trovare nuovi trucchi per rendere più sofisticati nostri strumenti di vita quotidiana.
Io continuai ad andare ancora per qualche anno, finché anch'io mi resi conto che era tutto inutile: se anche fossi riuscito a trovare qualche documento, qualcosa che potesse raccontarmi brandelli della vita di allora, cosa mai avrei potuto fare per riuscire a leggerli? Se anche fossi riuscito a interpretare la loro scrittura, finanche a decifrarne il linguaggio, quanto di assunto ci sarebbe stato nei loro testi? quanto di implicito, di ovvio per coloro che allora vivevano, ma incomprensibile per me?
Fu la presa di coscienza di questa insuperabile barriera che mi fece desistere da ogni curiosità; tornai alla mia comunità con un'aria più derelitta e sconfitta del solito, ma nessuno salvo Terreo sembrò prestarvi troppa attenzione. Quella sera mi consolò, tenendomi compagnia come non succedeva da anni, ed il giorno dopo mi regalò questo strumento meraviglioso che aveva inventato per scrivere più comodamente.
Una seconda presa di coscienza accompagnò la prima, ed è qualcosa che tuttora mi perseguita, che forse per sempre mi perseguiterà: quanto della nostra vita quotidiana diamo per scontato? Quanto saremmo in grado di spiegare ciascun gesto, ciascuna situazione che a noi appare normale, quasi invisibile, ma che magari a qualcuno che venisse da fuori, da un remoto passato o da un lontano futuro, apparirebbe assurdo, incomprensibile?
Se anche dovessimo descrivere la nostra tipica giornata, come potremmo sapere cosa evidenziare, cosa tacere? Cosa mangiavano, e quando, le antiche civiltà? Che tipo di cielo vedevano sopra le loro teste? Quando si svegliavano, quando andavano a dormire? Con cosa coprivano i loro corpi? Quanto a lungo vivevano? Dove vivevano? In compagnia di chi? Come erano le loro comunità?
Ciascuna di queste domande cominciò ad emergere in ogni gesto, parola, pensiero che nella quotidianità aveva assunto fino ad allora l'invisibilità dell'abitudine. Mi cominciò a capitare, e mi capita tuttora, di soffermarmi durante un atto e pensare: ecco, per me questo è naturale, ma è davvero tale, o è solo frutto della mia vita qui ed ora? come apparirebbe ad un membro di quelle antiche civiltà?
Ed ogni sera, raccolgo a fine giornata nella mia mente tutte queste domande, e cerco di dar loro risposta, in una forma o nell'altra.
Gan'ka/18
Corridoio dopo corridoio, la donna la porta in giro facendole prendere dimestichezza con la struttura dell'abitazione. “Casa”, l'aveva chiamata lei, ma nella mente della bambina l'estensione dell'edificio la promuove dapprima a villa, poi a condominio.
E forse quest'ultima scelta non è troppo lontano dalla verità: le
stanze adibite a residenza delle Custodi sono come
mini-
Periodicamente, la donna le mostra dove si trovano sulla mappa nel tablet. Le fa notare i diversi colori delle porte, che distinguono gli ambienti pubblici da quelli privati, da quelli ad accesso limitato: le famose porte nere.
Le porte sembrano in legno, con una forma un po' antiquata, due larghi pannelli quadrati in una cornice comune che somiglia ad un otto squadrato. Ma la donna le mostra come poggiare la mano al pannello superiore ne manifesta la vera natura, uno schermo con indicazioni su cosa si trova dall'altro lato.
Le porte nere sono rare, e per lo più impenetrabili. Apparentemente chiuse a chiave, rispondono all'interrogazione palmare con un semplice simbolo di divieto. L'unica delle porte che la donna ha il diritto di aprire emette un debole, ma chiaramente udibile, segnale acustico all'approssimarsi della bambina.
«È tutta così? Un enorme computer?»
Alla domanda della bambina, la donna risponde con una scrollata di spalle: «Domotica, la chiamano. Ma per i dettagli, dovrai chiedere al padrone.»
«Come fa sapere che sono io? È per via del braccialetto?» «Sì, immagino che ci sia anche quello; ma anche la mano, credo che venga riconosciuta.» «Quindi non basterebbe, che so, che usassi il tuo?» «Il braccialetto? Oh, non credo. Sono individuali, e ‘riconoscono’ la proprietaria. E non è una buona idea toglierlo.»
Dalla terrazza, il loro sguardo può spaziare sull'immenso terreno che circonda la villa, e la bambina rimane un po' sorpresa dalla ricca diversità dell'appezzamento. Si chiede quante delle cose che hanno consumato a pranzo siano state prodotte lì, e per un attimo dimentica il discorso.
Poi la reazione del braccialetto ad uno dei suoi gesti la riporta alla propria situazione. «Con questo» osservò «lui sa sempre tutto di voi: dove vi trovate, cosa state facendo.» Dopo un po' aggiunge: «E secondo me ci sono telecamere sparse in giro per tutta la casa.» La bambina si volta verso la donna, ma lo sguardo stupito di lei non le dice nulla. «I braccialetti» chiede ancora «funzionano anche fuori di qui?»
Con l'approssimarsi della sera, si è alzato un po' di vento, la temperatura ha cominciato ad abbassarsi. La donna ha un brivido, poi annuisce «Sì, è vero, con questo lui può sempre sapere dove ci troviamo. Non so se sa cosa facciamo, ma può sapere se siamo in pericolo. E non so se ci sono telecamere in tutta la casa; se ci sono, sono ben nascoste. Ma dubito che sia control freak a tal punto.»
«Cosa succede se una Custode vuole andare via?» «Lo comunica, e va via. E sì, restituisce il tablet e il braccialetto. Nulla di più, nulla di meno.» «È mai successo?» «Un paio di volte.»
Il silenzio dà loro una pausa, poi la donna chiede: «Vuoi andare via?» La bambina non risponde subito. Poi, con voce assente «Non servirebbe a nulla.» una nuova pausa «Aspetterò la scadenza legale del mentoraggio.» ancora qualche secondo di silenzio, poi si volta verso la donna «E no, non tenterò di fuggire dopo essermi tolta il braccialetto.»
I loro sguardi si perdono l'uno nell'altro per lunghi minuti di silenzio, e la donna vede in quello della bambina una domanda che non riesce a interpretare. Ma è la bambina stessa a verbalizzarla: «Perché restate qui?»
La donna rimane stupita, e la sua risposta si fa attendere. Quando infine parla, non vi è nessuna decisione nella sua voce: «Perché … non so, non posso rispondere per tutte le altre, ma per me … perché è il posto migliore in cui sia stata finora, e non credo che esistano posti in cui potrei stare meglio.» e poi, con un mormorio che la bambina percepisce appena «E perché Dora è qui.»
«Dora?» «La mia compagna.» la bambina non capisce il senso di quel termine in quel contesto —per lei ha ancora una valenza scolastica— ma non indaga. A colpirla è più il fatto che in qualche modo il motivo della permanenza delle Custodi in quel punto rimane confuso, o al più limitato a un “non c'è di meglio”.
«È una prigione.» la bambina parla senza rabbia, senza rancore, senza sorpresa; una semplice constatazione «Una prigione con barre dorate, ma pur sempre una prigione.»
Gan'ka/17
«Sono un rottame.» è la prima cosa che la donna riesce a dire appena ha riguadagnato compostezza. «Be', mi sa che avevo bisogno. Troppa tensione accumulata.» Si siede per terra, con la schiena contro il muro e le gambe stese in avanti, come a rimarcare l'intenzione di rilassarsi, lasciare che la tensione scorra via.
«Mi dispiace.» si scusa la bambina. «Non è colpa tua,» sospira la donna «evidentemente, nonostante tutto, il peso del mio passato si fa ancora sentire ogni tanto.» «È colpa mia.» insiste la bambina «Se non ci fossi stata, non avresti avuto questi pensieri. È perché ti preoccupi per me. È una cosa molto bella e molto triste allo stesso tempo.»
La donna la guarda di sguincio, poi si volta verso di lei. «È una riflessione molto vera. E molto bella. Ma non voglio che tu ti senta in colpa. Quello che è successo a me, e anche quello che sta succedendo a te ora, sono fuori dal tuo controllo, non ne hai responsabilità.» la tira a sé, la fa sedere sulle proprie gambe, la abbraccia «E poi è tutto per egoismo mio, vedo te e penso a me da piccola, e vorrei metterti in guardia, ma non vorrei spaventarti.»
«Non sono spaventata.»
Rimangono così per lunghi minuti, finché la bambina riprende: «Anche lui.» «Anche lui chi?» «L'uomo. Il gan'ka. Mi guardava, mi toccava come se non fossi io, come se stesse cercando di riconoscermi, qualcosa del genere. Mi ha passato le mani dappertutto, ma non era per qualcosa di … di sporco. Era come se volesse … non lo so, imparare il mio corpo, forse»
La donna ora la guarda preoccupata, ma la bambina continua «Ha detto che sono troppo piccola, che ho ancora il corpo di una bambina, anche se non parlo come una bambina. E che qui non avrò nulla da temere.» La donna sospira di sollievo. «Quindi non penso mi violenterà mai.» La donna la guarda sorpresa. «Con te l'ha fatto?» chiede, perplessa dalla reazione, la bambina. La donna ride, scuote il capo.
«Vedi, anche per questo dico che sono un rottame. Per quanto ne so, non ha mai usato violenza a nessuno. E con me … be', è stato proprio l'opposto. Che non significa che io ho violentato lui.» chiarisce, allo sguardo sospettoso della bambina «E nonostante tutto ciò, non ho potuto fare a meno di pensare che con te … be', ecco. Ma ora basta, alziamoci. Ti faccio vedere la casa.»
Gan'ka/16
La porta non si è ancora chiusa alle sue spalle, che la bambina si trova davanti la donna con i capelli rossi. Un sussulto, un pensiero lampo sulle mutandine dimenticate in quella camera, poi la bambina riesce a balbettare: «Ha … ha chiesto di … lasciarlo dormire.»
«Era te che aspettavo.» un tentativo di sorriso si affaccia sulle labbra della donna. «Perché me?» la bambina si sente ancora spaventata, confusa. «Perché temevo che …» la donna si ferma, chiude un attimo gli occhi, porta due dita alla fronte, come per concentrarsi, sospira «niente, lascia perdere. Andiamo, così eviteremo di svegliarlo.»
Perplessa dalla preoccupazione mostrata dalla donna, la bambina la segue lungo il corridoio, ed è come se allontanandosi dalla camera del padrone di casa il respiro le si alleggerisse, la mente le si schiarisse. Si chiede se questa donna sia una di quelle Custodi di cui parlava l'uomo, una di quelle che …
La bambina solleva lo sguardo verso la donna, spinta da una morbosa curiosità. Si chiede se c'è qualche segno esteriore, qualche indizio della sua storia, nella rigidità dei movimenti, nella tristezza nascosta dietro il sorriso con cui la donna risponde al suo sguardo curioso.
La bambina distoglie lo sguardo imbarazzata, torna a guardare davanti a sé. «Che c'è?» le chiede la donna. «Niente.» risponde la bambina, ed il suo sguardo si abbassa ancora, verso il pavimento. «Sei una Custode?» trova infine il coraggio di chiedere.
La donna sbuffa. «Siamo tutte Custodi. È così che ci chiama. Mai capito il perché. Forse del suo … stile di vita. Avrai già notato, immagino, che è un po' … eccentrico.» «Avrei detto pazzo.» bisbiglia la bambina.
La donna scoppia in una improvvisa risata, che spaventa la bambina e termina altrettanto improvvisamente. «Capita, sai, quando il tuo punto di riferimento sono le macchine piuttosto che gli esseri umani.» «È vero che è un gan'ka, allora?»
«Come lo chiami uno che si monta i computer a mano?» la donna fa un gesto verso il tablet con cui la bambina si nasconde il pube. «Non lo so,» la bambina solleva il tablet come per guardarlo meglio «ma ho sempre pensato che i gan'ka fossero … boh, tipo dei … degli ibridi.» «Non si attacca alla corrente per ricaricare le batterie mentre dorme, se è questo che vuoi sapere.» la risposta della donna suona un po' sarcastica, la bambina scrolla le spalle «ma sì, è abbastanza imprevedibile.» e dopo qualche secondo «Anche per questo ero un po' preoccupata.» aggiunge.
La bambina si chiede se raccontare o meno quello che è successo; e soprattutto si chiede come raccontarlo, non sapendo lei per prima come interpretare il modo in cui l'uomo l'ha toccata, o l'assalto che l'ha lasciata senza fiato. Nel dubbio, tace.
Ma è la donna stessa a riprendere a parlare. «No, non è per questo. La verità è che nonostante tutto, continuo a non avere … fiducia in lui, ecco. Mi ha … be', non so nemmeno se sia il caso di raccontartelo, ma … diciamo che mi ha rieducato alla presenza di … degli uomini, a non averne paura senza però essere … Lascia perdere.» tronca improvvisamente.
La donna si rabbuia, e la bambina ne vede solo il cambiamento d'umore, senza riuscire a indovinarne il motivo. «C'è … c'è qualche problema?» chiede timidamente. La donna scuote il capo in senso di diniego, ma poi risponde «sì, c'è qualche problema, ed il problema è che pensavo di essere più … adatta per questa cosa. Ma non puoi insegnare a correre se sei zoppo. Scusa un attimo.» La donna si ferma, si volta contro il muro, ad occhi chiusi, premendo i dotti lacrimali con indice e pollice della mano destra.
La bambina le guarda le spalle sussultanti, le si avvicina, le gira intorno fino a metterlesi davanti, le carezza timidamente un braccio. La donna crolla in ginocchio, scoppiando in singhiozzi, abbracciando disperatamente la bambina, che non trova altro da fare che ricambiare l'abbraccio e lasciare che la donna si sfoghi sulla sua spalla.
Gan'ka/15
Passano lunghi secondi in cui la bambina si chiede se quell'uomo la stia prendendo in giro, o cosa; è tutto talmente confuso, contraddittorio, senza senso, in quello che l'uomo fa, in quello che l'uomo dice.
Ed ora dovrebbe essere lei a raccontargli una storia, lei che non è ancora nemmeno uscita all'età in cui le storie si assorbono, in cui ancora non si ha nulla da raccontare che infantili emulazioni di avventure mai vissute?
Ed alla fine la bambina racconta l'unica cosa che può raccontare, il proprio disagio, perché sa che le storie parlano sempre di questo: problemi, difficoltà, disagi, e la loro risoluzione.
Parla lentamente, a capo chino, fermandosi a cercare le parole. E mentre parla, odia la propria voce, che non sembra emergere mai come lei vorrebbe, ma è sempre tremante, insicura, o stridula.
Ho imparato a leggere a 4 anni, e da allora ho sempre letto. Ho letto tutto quello che mi è capitato tra le mani, i libri di scuola, le antologie, i pochi libri che avevamo in casa adatti alla mia età, e quando ho finito con quello, anche quelli non adatti alla mia età.
Ero l'unica a leggere i libri nella biblioteca della scuola. Poi ho cominciato ad andare a quella comunale. Ero un po' la loro mascotte, visto che anche lì non ci andava praticamente nessuno.
All'inizio leggevo perché nei libri scoprivo mondi meravigliosi, persone affascinanti. Poi ho incontrato i libri che insegnavano le cose delle quali gli adulti non parlavano con i bambini; ed era un modo per imparare senza avere l'imbarazzo di chiedere agli adulti.
I miei non erano troppo contenti del fatto che leggessi così tanto; dicevano che tutti quei libri mi distraevano dalla scuola, mi distraevano dalla vita, che così non mi sarei mai fatta degli amici, che sarei diventata noiosa.
Io pensavo che noiosi erano i miei compagni: parlavano di cose noiose, ridevano per cose stupide, facevano cose stupide. Ho compagne di classe che si truccano come se avessero quindici anni, e alcune di quelle di terzo raccontavano …
L'uomo si solleva sulle braccia, la bambina si zittisce di colpo, nuovamente in ansiosa attesa, senza sollevare lo sguardo.
«Tu non hai dieci anni.» commenta l'uomo.
«Undici.» ripete la bambina; le sembra strano dover insistere tanto sulla propria età, senza che l'uomo dia segno di ricordarne il valore. «Ne faccio dodici a marzo.»
«Non è quello che intendevo.» l'uomo spazza via quella risposta. «Non è …» si ferma, si perde un attimo nei suoi pensieri, poi ripate da zero: «Che classe fai?» «Seconda.» «Hai fatto la primina?» «Cioè?» «Sei andata a scuola a cinque anni.»
La bambina deve farsi i conti prima di poter rispondere. «Sì,» conferma.
«Ti piace andare a scuola?» chiede l'uomo, dopo qualche secondo. La bambina non risponde subito, incerta ella stessa. «Mi piace imparare,» conclude. «Ma non andare a scuola.» insiste l'uomo. «Dipende.» «Dai professori, dai compagni.» «Sì.»
Un nuovo intervallo di silenzio, poi è sempre l'uomo a riprendere: «E la tua vita è fatta solo di studio e letture? Niente giochi, niente amici?» «Ho … avevo un'amica. Quando abbiamo finito le elementari, suo padre ha trovato lavoro in Francia, si sono trasferiti lì. Gli altri … insomma. Con lei era bello perché disegnavamo insieme le storie dei libri che leggevamo, oppure giocavamo con le costruzioni di suo fratello. E comunque stavo bene da sola a leggere. Meglio che a farmi prendere a pallonate per strada.» poi, un improvviso ricordo «Ah, avevo imparato a giocare a dama, da mio nonno. E lui mi faceva anche gli indovinelli, che a me piacevano un sacco. Come i libri gialli.»
Trentadue cavalli bianchi
su di un monte rosso
battono, mordono
ma nessuno s'è mosso
La bambina solleva il capo all'improvviso. «Questa la conosco!» poi ride «“ma ne abbiamo sssolo sssei!”» Torna subito seria, china il capo. «Chiedo scusa.»
«In realtà lo odio.» aggiunge dopo qualche secondo ed un profondo sospiro «Nella mia classe ci sono due che sono fissati con le cose fantasy, poi anche i giochi di ruolo. Ma sono insopportabili, pensano solo a quello. Quando hanno scoperto che a me piaceva pure sembrava che fossi diventata la loro migliore amica. Poi siccome non ero fissata come loro …» butta le braccia per aria «insomma, nemmeno fossi stata un'eretica.»
«Non sei una bambina della tua età.» le parole dell'uomo sembrano giungere dal suo discorso precedentemente interrotto, come se nulla fosse stato detto. «Non parli come una bambina della tua età, né pensi come una bambina della tua età.» Il suo sguardo si fa attento, con occhi socchiusi come se cercasse di guardare oltre commenta: «Della tua età hai solo il corpo.» ed a quelle parole la bambina ha di nuovo paura.
Improvvisamente, l'uomo si volta. «Vai,» ordina, accompagando la parola con un gesto del braccio «lasciami dormire.»
Gan'ka/14
Le afferro i polsi, la tiro a me con uno strattone; al suo improvviso strillo, più di stupore che di paura, le soffoco la voce spingendole il viso contro il materasso. Con le gambe ancora flesse, il sedere per aria, è nella posizione ideale: le monto sopra, facendo aderire il mio corpo al suo, inchiodandola sotto il mio peso, bloccandola in quella posizione.
Smette di dibattersi, il battito inferocito del suo cuore viene sostituito dai sussulti del singhiozzo. La libero, mi ritraggo, ma lei non cambia posizione. Rimane immobile finché il pianto non trova pace, quindi si solleva lentamente, prima a quattro zampe, poi tornando a sedersi sui talloni.
Alzo lentamente un braccio verso di lei, il suo busto si ritrae. «Questo» spiego «era per darti un'idea di cosa significa essere violentate.» il suo sguardo corrucciato mi guarda ancora con sospetto, sfiducia.
«Avrei potuto farti parlare con qualcuna delle Custodi,» continuo «qualcuna di quelle che ha effettivamente subito una violenza; magari persino con qualcuna di quelle che l'ha subita da piccola, magari ripetutamente, magari persino da familiari. Ma non ti avrebbe spiegato nulla. Ti avrebbe fatto impressione, magari, ti avrebbe fatto sviluppare ancora più rabbia, più odio, ma non ti avrebbe spiegato nulla.»
Il suo sguardo è ora indecifrabile, forse è ancora sotto shock e non riesce a seguire esattamente quello che dico, ma non importa, non ho intenzione di ripetermi né di aspettare. «Quando ti dicevo che non avevi idea di cosa parlavi, era a qualcosa come questo che mi riferivo. Un'esperienza del genere non è semplicemente l'essere obbligati a fare qualcosa controvoglia. È … ogni volta che io sarò troppo vicino,» dimostro, sporgendomi verso di lei, che si ritrae lentamente; le premo un indice sulla fronte «il tuo corpo avrà un sussulto, ricorderà l'assalto; e non ti ho nemmeno fatto alcunché. Quello, quello ti avrebbe davvero lasciato una cicatrice indelebile nello spirito.»
Mi distraggo un attimo, lei china il capo, forse in un gesto di assenso, forse in un gesto di accettazione, forse per cercare di guadagnare maggiore tranquillità.
«Ma quello,» riprendo «mi … ti auguro di non farne mai esperienza.» mi guarda di traverso, senza sollevare il capo. Passano lunghi secondi. «Ti ho detto che non hai motivo di avere paura qui.» le ricordo. Lei annuisce, continua a tenere il capo chino.
Odio parlare così tanto. Torno a stendermi, il braccio a coprirmi gli occhi.
«Che cosa vuoi da me?» mi chiede improvvisamente. La sua voce è fragile e tremante, ancora sull'orlo del pianto. «Niente.» la mia risposta è immediata.
«Perché sono qui allora?» «Ti ho fatta chiamare per farti avere il bracciale ed il tablet, ma soprattutto perché ci conoscessimo.» «Non qui qui, qui in questa … in questo posto, in questa casa.»
Sospiro. Impiego qualche secondo a trovare una risposta che non sia una menzogna, pur suonando meglio di “tuo padre ti ha perduto al gioco”. «Perché la tua famiglia non aveva i mezzi per mantenerti.»
«E cosa devo fare io?»
«Fare?» mi libero gli occhi, sollevo il busto puntellandomi sulle braccia «Cosa mai dovresti fare? Vivere. Oh be', in quanto tuo mentore dovrò occuparmi di cose come la tua educazione, andrai comunque a scuola, farai i compiti e tutto quello che è formalmente richiesto che si faccia fare ad una bambina di dieci anni,» «undici» «whatever; ma al di là di quello … non c'è nulla che tu debba fare. Crescerai. Imparerai cose. Imparerai a fare cose. Scoprirai cose che ti piace fare, e su quello costruirai la tua vita. Come tutte le altre.»
Quando smetto di parlare, lei è perplessa; sta per formulare qualche obiezione, ma improvvisamente mi ricordo di aver dimenticato la cosa più importante.
«Oh, tranne quando avrò voglia che tu faccia qualcosa per me. Nel qual caso farai quello che ti chiederò di fare. Qualunque cosa sia. Almeno fino all'esaurimento del mentoraggio, ovvero il giorno dopo il compimento del tuo ventunesimo anno d'età. Dopo di allora potrai anche dirmi di no, e potrai scegliere di andar via di qua. Definitivamente.»
Passa ancora qualche secondo mentre lei assimila quello che le ho appena detto. «Oh,» torno a sdraiarmi, a coprirmi gli occhi con il braccio «adesso, per esempio, vorrei che tu mi raccontassi una storia.»
«Una storia? Non so … non ho storie da raccontare.»
«Hai undici anni. Dovresti avere una fantasia tale da non riuscire nemmeno a distinguere tra la realtà e l'immaginazione. Raccontami qualcosa —qualsiasi cosa.»
Gan'ka/13
«In questa casa, vi sono tre regole molto semplici. La prima, la più importante: mai, per nessun motivo al mondo, interrompere il mio sonno. Mai. Per nessun motivo.» mi fermo, per aspettare che la bambina mi dia segno di aver compreso l'importanza di quelle parole.
Ora che la roscia si è allontanata, l'atteggiamento della bambina è cambiato, fin nella postura, irrigidita nella paura. Ansia, lotta o fuga. Mi chiedo se sono condizioni psicoemotive adatte a recepire quello che dico. Il suo sguardo, che finora mi ha evitato, è fisso nel mio.
«Secondo: se chiedo che venga fatta una cosa, la si fa. Non gradisco ripetermi.» lei china lo sguardo, sa a cosa mi riferisco «Evita di farmi ripetere le cose tre volte, non vuoi vedermi arrabbiato.» lei annuisce, senza sollevare il capo «In mia assenza, è la prima Custode a tenere le redini.»
Silenzio.
«Sai chi è?» Lei scuote il capo. Prendo il tablet dalle sue mani, le mostro come aprire l'elenco dei contatti. Le indico la Prima, lei annuisce. Mi chiedo se la riconosca per la donna che ci ha accolti quando siamo arrivati.
«Ultima regola. Le porte nere sono off-limits. Per il resto puoi girare liberamente —ma cerca di rispettare la privacy delle altre.» La bambina risponde con un altro cenno di assenso, lo sguardo fisso sul tablet, tornato in suo possesso.
Quei brevi momenti in cui i suoi occhi sono stati fissi sui miei, come a tentare di indovinare le mie intenzioni, sono passati; alla sensazione di pericolo immediato si è sostituita quella di sconfitta e sottomissione: eppure ancora, mentre le sue mani scorrono sullo schermo del tablet come a provarne le funzioni più elementari, il suo sguardo nascosto ogni tanto si solleva a spiarmi di sguincio.
Mi volto sulla schiena, coprendomi gli occhi con un braccio. La bambina sobbalza al mio movimento, quindi rimane immobile, tesa. Nel silenzio e nell'oscurità che seguono cerco di abituarmi alla presenza della nuova ospite, di percepire i suoi movimenti, le sue intenzioni. La sento nuovamente pronta alla fuga, ma in attesa della manifestazione delle mie intenzioni. Ed io lascio che il tempo passi.
È lei ad alzarsi, infine, ed in un mormorio mi chiede: «Posso andare?» Ed io mi accorgo che è solo la terza volta al più che sento la sua voce, brevi spezzoni minimalisti.
«No.» la fermo mentre compie i primi cauti passi per allontanarsi dal letto «Vieni qui, sdraiati accanto a me.» Rimane immobile, con il fiato sospeso; poi i suoi passi leggeri tornano indietro, completano il giro del letto, ed infine l'onda del suo peso sul materasso mi raggiunge il fianco.
Scosto il braccio dagli occhi quel tanto che basta per gettarle uno sguardo; supina e tesa, lo sguardo fisso davanti a sé, aspetta.
«Hai paura.» constato, tornando a coprirmi gli occhi; questo mi dà la sensazione di parlare più per me stesso che per lei, ma non importa «Eppure non ne avresti motivo, perché hai molto meno da temere qui che in qualunque alto contesto; ma non puoi saperlo, né avrebbe importanza.»
Potrei chiederle quale pensa che sia la cosa peggiore che le possa capitare, quale quella che le sarebbe potuta capitare altrimenti, ma a che servirebbe? Quali possono essere le paure di una bambina nel proprio contesto famigliare? Fuori da storie di violenza o soprusi particolari, il peggio con cui si convive, il peggio che può conoscere e temere, sono ordini, litigi, piccoli disagi.
Il mondo da cui viene lei è un mondo che, qualunque problema le abbia potuto creare, le era vicino, di supporto. Come potrebbe non avere paura così, proiettata fuori da quel mondo, senza più rete di sicurezza? Non era un mondo da cui sentisse voglia di scappare, non era un contesto come quello da cui venivano …
Odio la facilità con cui questa bambina mi riporta alla mente quei due; odio come non riesco a non tracciare paralleli, questa è la verità, nonostante l'infinità che separa l'allora e l'ora, come fossero due vite diverse; penso alla situazione di questa bambina e la raffronto con quella da cui venivano quei due; penso al destino che avrebbe potuto avere questa bambina e lo raffronto con quello che hanno avuto quei due.
Sono io a poter immaginare per lei un futuro ben peggiore del vivere qui, perché ne ho visti vissuti da altri. Ma lei, cosa mai potrebbe immaginare che le sarebbe potuto succedere di grave? La morte di qualcuno caro? Perdere la propria famiglia?
Eh.
Se la sua presenza è per me una spina nel fianco, un'inceppatura negli ingranaggi della mia vita e una dolorosa memoria che torna alla luce, per lei è forse la realizzazione del suo peggiore incubo.
Mi volto verso di lei; il suo sguardo incrocia subito il mio, e c'è qualcosa dietro la paura, qualcosa che non riesco a capire. Quando allungo la mano per toccarla, il suo corpo ha un brivido, un sussulto, una breve convulsione; mi chiedo se si aspetta qualcosa di specifico, e cosa.
Seguo con le dita i tratti del suo corpo, la morfologia del viso, il collo, il torace, le gambe, per impararne consistenza, forme, reazioni. La pelle ha ancora la consistenza dell'infanzia; le forme sono ancora quelle magre e lisce delle fisicità ingenue; le reazioni sono ancora quelle della paura, del corpo che si scopre in balía di sollecitazioni esterne in risposta alle quali non sa come reagire.
Avevo dimenticato tutto, non avevo dimenticato niente. Per ciascuna delle Custodi saprei dire esattamente quale funzione assolva, quale mio desiderio o volontà esaudisca. Ma cosa mai posso volere da questa creatura? L'unica cosa che riesco a volere da lei, per ora, è che cessi di essere questa continua sollecitazione della memoria, che sia talmente diversa dalle vite con cui ho giocato da smettere di ricordarmele.
Ed ora, quel corpo ha perso la tensione dell'ansia, si lascia manipolare né più né meno di quello di una bambola articolata, un oggetto senza anima né pensiero.
Posso piegarle la gamba, ruotarla finché il ginocchio torni a poggiare sul letto, e le mie dita le faranno solo il solletico scorrendo poi lungo la coscia. Posso alzarle il braccio, poggiare la mia fronte contro il palmo della sua mano in attesa che i ricordi scorrano via, e lei non saprà mai perché; e forse nemmeno se lo chiederà, nella sua passiva attesa che tutto finisca, che io la lasci libera di costruirsi la propria nuova vita.
«Non hai più paura.» i suoi occhi, che finora mi hanno seguito, si distraggono. Potrebbe evitare di dire alcunché, ma si vede che sta cercando le parole. Esita, ed infine «No. Non ho paura. Non avevo paura nemmeno prima. Non puoi farmi nulla di peggio di quello che mi hai già fatto.»
«E cosa ti ho fatto di così grave?» mi chiedo come abbia interpretato il mio esplorare il suo corpo, ma è ad altro che sta pensando: «Hai distrutto la mia vita. Mi hai tolto la famiglia.» dopo tutto, è come pensavo; ma lei continua: «Cosa puoi farmi di peggio? Mi potrai fare male, fisicamente male, poi basta. Non è paura, la mia, è attesa.»
Ora capisco anche cosa c'è nel suo sguardo: quello che non riuscivo a decifrare è odio, ma è anche sfida: “violentami pure, se credi di potermi fare qualcosa.” Scuoto la testa. «Tu non hai la minima idea di cosa stai parlando.»
«Sì invece.» ed al mio sollevare un sopracciglio perplesso, sbuffa «Neanche la mamma ci credeva.» «Che c'entra tua madre?»
«Mi ha detto … mi ha detto che avresti voluto “fare delle cose” con me» con entrambe le mani virgoletta gestualmente l'espressione «e di non opporre resistenza, perché mi avresti fatto ancora più male. Ma ne parlava come se io non sapessi di cosa parlava, come se fosse meglio che non sapessi.»
Mentre parla mi siedo a gambe incrociate, puntello i gomiti contro le ginocchia, poggio il mento contro le dita incrociate. «Ma tu invece sapevi. Sai.» la invito a continuare, ma lei non risponde, distoglie lo sguardo, labbra corrucciate. «Mettiti a sedere.» Esegue, alzandosi sulle ginocchia, sedendosi sui talloni, quindi aspetta, pazientemente; sembra persino più rilassata.
«Quando ho detto che non avevi la minima idea di cosa stessi parlando … non mi riferivo al sesso. Non mi interessa nemmeno sapere se quello che sai l'hai imparato dai libri, giocando con i tuoi amici, o cosa; non è a quello che mi riferivo.» il suo sguardo è ora perplesso «Almeno, non direttamente.»
Gita scolastica/4
Mentre gli studenti che sono andati al bagno cominciano a tornare, il professore si guarda intorno perplesso. Forse anche la collega era in bagno? Ma prima ancora, è entrata affatto in trattoria?
L'uomo riesce a ricordare chiaramente lo sguardo che si sono scambiati mentre lui si affacciava dalla trattoria per invitare gli studenti a entrare, e riesce a ricordare con uguale precisione di non averla più vista fuori, prima di chiudere la porta.
È successo qualcosa in quel fatidico momento di distrazione in cui ha cercato di raccomandare agli studenti di aspettare; o la collega gli è passata sotto il naso senza che lui se ne accorgesse, o è sparita in quel momento. Sparita dove?
«C'è qualcun altro in bagno?» «No, professore.» L'uomo tira fuori il foglio per le presenze. «Augusto.» chiama; si guarda intorno, gli studenti si guardano intorno; «Non c'è.» dice qualcuno. «Cominciamo bene,» mormora l'uomo, annotando il foglio «Bertaglia.» «Presente.» Un sospiro di sollievo.
- Augusto ✗
- Bertaglia ✓
- Bertone ✓
- Bolani ✓
- Faenza ✓
- Gargani ✓
- Gorigno ✓
- Lomatto ✓
- Licitra ✓
- Malloni ✓
- Sacchinelli ✓
- Stefani ✓
- Torre ✗
- Veneziano ✗
Abbassando il foglio delle presenze, ritrovandosi sotto gli sguardi tra lo spaventato e il curioso degli studenti, il professore si sente prendere dal panico. Manca un terzo dei ragazzi che gli erano stati affidati, è sparita la collega; l'unico, magro appiglio è la speranza che i tre studenti mancanti siano con la collega —sì, ma dove?
Il peso dell'assurda situazione, la responsabilità della cura di quella decina di ragazzi seduti in giro sui tavoli, la mancanza di un appoggio, di un aiuto, di qualsivoglia consiglio lo colpiscono in pieno. Sgomento, si guarda intorno sperduto, incurante del fatto che i suoi studenti possano vedere il suo smarrimento.
Accanto al registratore di cassa, dietro il bancone, c'è un telefono. Sarebbe una di quelle cose quotidiane a cui, in giorni normali, non si presterebbe minimamente attenzione, ma per il professore è come se qualcuno gli avesse tirato un salvagente.
Con movimenti controllati, per evitare di precipitarcisi sopra come un assatanato, il professore fa il giro del bancone, alza la cornetta, ascolta il familiare suono del telefono in attesa, e finalmente compone il numero per le emergenze.
Il problema del crearsi aspettative, del nutrire speranza è quanto più doloroso diventa il crollo quando la realtà ci ricorda il nostro posto nella crudele realtà.
I ragazzi non hanno nessun problema ad indovinare quanto (poco) successo abbia avuto il tentativo del professore di mettersi in contatto con qualcuno: basta loro vedere la fiamma dell'entusiasmo che si era brevemente accesa sul suo volto morire rapidamente, la pesantezza con cui l'uomo abbassa la cornetta, la rialza, tenta un nuovo numero.
Sulla sala scende il silenzio della preoccupazione, mentre ciascuno di loro si rende conto che il fuori programma non è più qualcosa da affrontare spensieratamente, non è più solo il fastidio di una notte scomoda passata cercando di dormire in pullman; la mancanza di connettività non è più soltanto l'incapacità di aggiornare il proprio stato sui social network; qualcosa di molto più grande, e di molto più grave, sta succedendo intorno a loro, e nessuno di loro ha idea di cosa.
«Professore.» «Hm.» «Cosa … cosa sta succedendo?» la voce della ragazza è timida, trattenuta dalla paura di infrangere quel silenzio, provocare chissà quale reazione.
Il professore annuisce. «Siamo …» cerca le parole più giuste «… siamo isolati dal resto del mondo.» conclude. Non sono le parole giuste, ma lui non sa trovare le parole giuste; la collega era brava, sì, sapeva calmare, tranquillizzare, pacificare. Lui ha con sé solo la forza bruta della realtà, dura spigolosa sconsolata.
Ma non sembra esserci bisogno di tranquillizzare. Forse perché ancora troppo sconvolti dalla loro presa di coscienza della situazione, nessuno dei ragazzi esplode in uno scatto di rabbia o di frustrazione, in una crisi isterica. Esteriormente calmi, aspettano.
Anche il professore aspetta. Aspetta di aver raccolto abbastanza forza di volontà per prendere in mano la situazione, per poterla valutare con serenità, senza panico, valutando gli eventi e scegliendo il corso che loro, professore e studenti, dovranno tenere per il futuro.
Adesso, l'atteggiamento che l'aveva sorpreso nella collega, quella calma rassegnata, assume un nuovo colore, un nuovo significato. Sei in una situazione che ha dell'assurdo, ogni cosa sembra andare per il verso sbagliato; c'è una soluzione? se no, allora di che ti preoccupi? se sì, allora di che ti preoccupi?
Respirare. Se c'è una soluzione, non è nell'angoscia che la potremo trovare. Se non c'è una soluzione, non sarà con l'angoscia che tireremo avanti. Abbiamo un tetto sopra la testa a proteggerci dalla pioggia, quattro solide mura a proteggerci dal vento. Abbiamo acqua corrente in bagno, elettricità (va bene, quanto dureranno? non lo sappiamo, non importa; ma avremo il buon senso di non abusare dell'ospitalità di questo luogo).
Siamo in una trattoria. Potrebbero persino esserci da mangiare.
Gan'ka/11
«È presto,» la donna nemmeno alza lo sguardo, il suo orecchio allenato ha distinto subito l'arrivo di persone che si accomodano per mangiare «manca ancora un'ora.»
«Veramente qui c'è gente che ancora dovrebbe fare colazione.» spiega Lena, nel silenzio che è sceso attorno a loro.
«Allora è già tardi.» la donna si volta infine, il suo sguardo si sofferma sulla bambina, che china lo sguardo con fare colpevole. «Se proprio non potete resistere, prendete qualcosa di leggero, uno yogurt, un po' di frutta. Mangerete con il primo turno. Forza ragazze, rimettiamoci al lavoro.»
La cucina torna in movimento mentre Lena aiuta la titubante bambina a preparare una piccola macedonia. «Non ti preoccupare,» la tranquillizza «abbaia, ma non morde. Mangia con calma.»
Nonostante l'invito di Lena, la bambina cerca di mangiare rapidamente; la donna, accanto a lei, continua a sbucciare frutta. «Basta per me.» mormora la bambina, temendo che la sua macedonia con yogurt sia destinata a crescere indefinitivamente. Ma Lena sta tagliando ora la frutta in un altro recipiente: «Questa è per il pranzo.»
La bambina si guarda intorno; le donne sono tutte variamente indaffarate, chi taglia, chi lava, chi bada ai fornelli; e mentre lei rimane lì a pensare quanto si stia sentendo inutile, una immensa montagna di carne le si siede accanto, facendola sobbalzare.
«Sai sbucciare le cipolle?» le chiede la gigantessa, mentre la bambina guarda preoccupata i bulbi rossastri che la donna sta spargendo sul tavolo. «Oh, non ti preoccupare, sono da insalata queste, non bruciano gli occhi. Ecco qui,» le offre un coltello, le mette davanti un tagliere, sbuccia una cipolla dimostrativa «metti qui le bucce, taglia la cipolla in due, così, poi ancora in due, così, e poi la affetti così.»
La donna passa alla seconda cipolla mentre la bambina si cimenta, impaurita, con la prima. La donna la ferma ben presto: «quanto tagli, ricorda di tenere le dita piegate così,» le mostra come progettere i polpastrelli «altrimenti rischi di tagliarti via una falange.» e le mostra, non si capisce quanto con orgoglio e quanto come avvertimento, la cicatrice che troneggia sul suo pollice.
La bambina ha appena cominciato a prendere dimestichezza con l'arte di affettare i cipolloni che l'ultimo sparisce nell'insalatiera, mentre la gigantessa si alza a mescolare. Pochi secondi dopo, dal tavolo è sparito tutto, ed altre due donne passano degli stracci e stendono una cerata, per poi riporvi rapidamente piatti, posate e bicchieri per una ventina di persone.
La sala si riempie quasi improvvisamente, e la bambina viene sommersa da un'ondata di nomi, piatti che passano avanti e indietro, domande che la sorprendo, risposte che a volte arrivano troppo tardi. «Peperoncino?» «No, grazie.» «Vino?» «No, gra…» «Oops, troppo tardi,» la gigantessa alza il braccio «un altro bicchiere per la signorina.» «Non era necessario, potevo anche bere da lì.» ma il nuovo bicchiere è già arrivato.
La bambina mangia lentamente, guardandosi intorno, intimorita dal caos che la circonda, le facce nuove, le voci che si inseguono. Nella marea dei visi riesce solo a pescare dettagli, la carnagione di quella, i tratti orientali dell'altra, i capelli lunghi, quelli pazzi.
I corpi, tutti nudi o quasi nudi, mostrando chi un tatuaggio su una mammella, chi piercing ai capezzoli, chi collane, chi bracciali. La bambina cerca di non soffermarsi su nessuno, e nel frattempo si chiede quanti di quei tratti siano solo ornamentali, quanti siano strumenti come quelli di cui parlava la dottoressa.
Ma c'è un corpo su cui il suo sguardo continua a cadere, quello di una donna dalla carnagione dorata, dagli immensi occhi scuri e lucidi, dai capelli corvini raccolti in una treccia che frusta la vicina di posto ogni volta che la donna si volta. Dal viso fino a sparire sotto il tavolo, il corpo della donna è marcato dal disegno di una pianta, lunghe foglie colorate, steli serpentini, infiorescente saltuarie.
Ed ogni volta lo sguardo della bambina si incanta a contemplarlo, per distogliersi improvviso quando gli occhi della donna incrociano i suoi. Persino Lena se ne accorge. «Bella, vero?» «Ma è un tatuaggio?» «No, è body painting.» «È dipinto?»
La donna si alza, si accuccia alle loro spalle, le chiede «Ti piace?» «È … molto bello.» «Ne vuoi uno anche tu?» la bambina vorrebbe rispondere sì, ma non ci riesce, ed è la donna stessa a rispondere «Sì, ne vuoi uno anche tu. Oggi pomeriggio se vuoi vieni nella mia stanza, ti insegno come si fanno, cerchiamo un bel disegno anche per te, ok?» La bambina trova solo la forza di annuire, la donna torna al suo posto, le fa l'occhiolino, e quella parentesi svanisce nella portata successiva.
C'è qualcosa, nel modo in cui quelle donne comunicano, parlano, scherzano, si insultano persino che fa pensare ad una grande famiglia. E questo pensiero la fa sentire improvvisamente piccola, sola, separata e distante dalle altre, nonostante l'imponente figura che le siede accanto, nonostante i sorrisi stanchi di Lena, nonostante l'invito dell'indiana.
È come se una immensa campana di vetro le fosse stata improvvisamente calata sopra: non più con la propria famiglia d'origine, e troppo lontana da queste donne che ora le siedono accanto per poter sperare di entrare nella loro, di venir da loro accolta come una pari.
Eppure, la pienezza della tristezza di questo pensiero non riesce a raggiungerla, ad emergere; è come se le sue sensazioni fossero al momento ovattate, forse dalla vivacità dell'ambiente intorno a lei, forse al contrario per la pacata, silenziosa vicinanza di Lena, alla quale la bambina sente che si potrebbe poggiare in qualunque momento di debolezza, nonostante Lena stessa non sembri solida sulle proprie gambe, o forse proprio perché questa sua incertezza, questa sua immensa stanchezza o fatica la avvicina a lei, almeno nella sua mente.
Così, alle donne sedute intorno al tavolo la bambina sembra solo timida, sopraffatta dalla novità, magari persino spaventata, ma non certo sconvolta da quell'improvvisa sensazione di solitudine che l'ha colpita.
Gita scolastica/3
La notte passa scomoda e fastidiosa. Il vento fuori sibila continuo, e nelle folate più violente scuote l'intero pullman, ululando. Nello sgradevole dormiveglia, il professore sente rumore di sabbia, percepisce un'oscurità ancora più greve, come se qualcuno avesse spento anche le ultime stelle. Ogni tanto qualche studente va al bagno, poi torna a stendersi al proprio posto accucciandosi, in posizioni a volte improbabili, sotto la propria giacca.
Nell'ora più fredda, il vento si placa, ed è poco dopo che il cielo comincia a schiarire, sebbene il professore non sia sicuro dello scorrere del tempo; non sa nemmeno se ha dormito, o quanto. Passeranno ancora ore prima che il sole sorga dietro le creste delle montagne, ma la maggior parte degli studenti è già sveglia, anche se non li si potrebbe definire attenti: all'assurdità della loro situazione si va aggiungendo la spettralità dei volti nel risveglio da una scomoda notte povera di sonno.
Al professore viene da ridere: un pullman di zombie in un mondo senza
più vita. È troppo facile lasciar correre la fantasia agli scenari
catastrofisti, in una situazione del genere, tanto appetitosa per troppa
letteratura post-
La professoressa sembra aver dormito meglio di molti, e dalla sua infinita borsa per le emergenze tira fuori un thermos; mormorando un “temo che abbia perso molto del suo calore” ne versa un bicchiere al collega, quindi uno per sé. Il té al limone, non più caldo ma non ancora freddo, li aiuta a riprendere voglia di affrontare la giornata.
Il professore accenna a quegli studenti che, nonostante la luce ed il sordo trambusto che comincia a crearsi al risveglio dei compagni, sono ancora immersi nel più placido dei sonni. «Invidiabili. Mi sa che gli daremo ancora qualche ora per svegliarsi.»
«Progetti per oggi?» «Ci muoviamo. Da questa strada non passa nessuno, a quanto pare. Non possiamo rimanere qui in eterno. E visto che il pullman non ne vuole sapere, ci dovremo muovere a piedi.» «Quanti chilometri?» «Bella domanda. Questa cartina è la cosa più farlocca che mi sia mai capitata tra le mani. Dovremmo essere circa qui, ma a questa scala non è facile capire dove, esattamente. E se non sappiamo dove non sappiamo qual è più vicino,» indica i due paesi tra cui si stavano spostando ieri «e dove convenga andare.»
«Professore.» «Che c'è, Sacchinelli.» lo studente gli porge il proprio smartphone, gli occhi del professore si illuminano, ma il suo entusiasmo è presto smorzato «Il cellulare non prende la linea, ma il GPS sì. Dovremmo essere circa qui.»
Il professore prende in mano lo smartphone, controlla la mappa. È piuttosto diversa dalla cartina su cui ha cercato di raccapezzarsi fino ad allora, e molto più verosimile. Se la posizione è corretta, il pullman si trova circa a metà strada —ovviamente, pensa l'uomo, che gusto c'era altrimenti?
Con un sospiro, il professore passa lo smartphone alla collega. «Mi sa che torneremo indietro. Se non altro è di discesa, e se le distanze sono giuste dovremmo sbrigarci in tre, quattro ore.» «Con zaini e borsoni?» Oh vero. «Sempre dell'idea che non sia il caso che io vada da solo?» «Non esiste.» «Arriveremo in paese per pranzo, se va bene.» «Andrà bene.» «Com'è andata finora?» I professori ridono amaro.
L'organizzazione non è difficile: il professore è il primo a scendere dal pullman, si posiziona in modo da dirigere facilmente gli studenti verso la coda, li conta ad uno ad uno mentre scendono, ripetendo le istruzioni ogni due o tre teste: non lasciate nulla sull'autobus, prendete i vostri borsoni, scendete fino alla coda.
Qui avrebbe fatto comodo essere in tre, pensa il professore, mentre gli ultimi studenti defluiscono dal pullman; la sua collega si prende cura di chiudere tutto, scende dal lato dell'autista, raggiunge il resto della classe dietro il pullman, e sono finalmente pronti a partire. Sembrano sereni, i professori, ma guardandosi negli occhi sanno di aver notato entrambi la stessa cosa: l'autista è sparito, la macchia blu in mezzo al verde non c'è più. Cani randagi? Lupi?
Gli studenti sembrano aver preso gusto all'avventura fuori programma, marciano spensierati sull'asfalto, scherzano, cantano. Il professore è lieto che siano così pochi, sette a testa da tenere a bada, e nemmeno particolarmente ‘irrequieti’. Sacchinelli ogni tanto getta un occhio al proprio smartphone, come a controllare di essere sulla strada giusta; il professore se lo tiene vicino, ma è piuttosto sereno, la strada non ha biforcazioni, e scende, curva dopo curva, fino al paese.
La passione iniziale dei ragazzi si va spegnendo con il passare del tempo e il sopraggiungere della stanchezza, ma nonostante tutto riescono a tenere un buon passo, ingegnandosi per alternarsi nel portare i borsoni, poggiandoli su quelli di chi ha trolley con le ruote, lasciando che la discesa li aiuti; ed i primi segni della civiltà, intravisti che ormai è passato mezzogiorno, infondono loro nuova energia.
L'entusiasmo dei ragazzi muore però velocemente quando il paese li accoglie con un freddo, spettrale silenzio che sarebbe più adatto ad una domenica dopopranzo che prima di pranzo in mezzo alla settimana. Non una persona per le strade, non una saracinesca aperta.
L'avanguardia del gruppo degli studenti rallenta, si lascia raggiungere dagli altri; i professori si guardano intorno, stupiti non meno dei ragazzi.
«Professore.» «Eh.» «Non c'è nessuno.» «Parrebbe.» «Però all'andata c'erano.» «Mi ricordo anch'io qualcosa del genere.»
«Proviamo a suonare a qualche campanello?» propone uno dei ragazzi. In qualunque altro momento, il professore avrebbe osservato che non era il caso di mettersi a fare scherzi stupidi, ma adesso l'idea non pare tanto male. Lasciando collega e studenti sulla strada, l'uomo si avvicina ad uno dei palazzi, suona un campanello, aspetta, prova il successivo, aspetta ancora, e così fino a coprire l'intera bottoniera. Quando torna a raggiungere i ragazzi, il suo sguardo stranito si riflette su quello ansioso degli studenti, della collega. «Deserto.» si limita a dire l'uomo.
La classe continua ad avanzare, guardandosi intorno stupita. Nessun segno di vita, come se l'intero paese avesse fatto i bagagli e se ne fosse andato, lasciandosi dietro solo le case; non ci sono panni stesi alle finestre, non ci sono motorini parcheggiati sui marciapiedi; l'unica automobile, parcheggiata seminascosta in una traversa, è vecchia, polverosa, con gli pneumatici sgonfi, abbandonata lì da chissà quando.
Il gruppetto si tiene ora compatto, marciando lentamente in formazione pressoché quadrata, con i professori in seconda e quarta fila non meno confusi dei loro studenti, soggetti non meno di loro alla sensazione di pericolo e minaccia stimolata da quell'innaturale assenza di vita che li circonda. Ogni tanto si fermano, il professore si stacca da loro per provare qualche citofono, torna a raggiungere il gruppo, ed insieme ripartono.
«Professore, lì c'è una cosa aperta.» tutto il gruppo si volta, si spostano compatti addentrandosi nel vicolo segnalato, attratti dall'ingresso della trattoria che si trova all'altro estremo.
È il professore ad entrare per primo, nella grande sala deserta. «C'è nessuno?» la sua voce rimbomba, nessuno risponde. Con un sospiro che ha più del rassegnato che del sollievo, l'uomo torna all'ingresso, la collega risponde con spallucce al suo sguardo interrogativo. «Forza ragazzi,» l'uomo fa cenno agli studenti «almeno ne possiamo approfittare per riposarci un po'.»
La proposta viene accolta con un grido d'entusiasmo, ed il professore si ritrova a doverli nuovamente imbrigliare, per evitare che sfondino le porte cercando di entrare tutti insieme.
«Uno per volta, ragazzi, c'è posto per tutti, posate i borsoni di lato all'ingresso, andatevi a sedere, non fate caciara, con calma, ragazzi.»
«Professore, posso andare in bagno?» giunge la domanda da dentro la sala. «Aspetta che facciamo la conta.» «È urgente.» «Vai, ma torna subito.» «Professore, sto andando pure io.» «Ragazzi, un momento, uno per volta.»
Il caos si placa con il terminare dell'afflusso degli studenti. Il professore getta un ultimo sguardo all'esterno, per assicurarsi che nessuno sia rimasto fuori, forse anche nella speranza di intravedere qualcuno, chiunque, al di fuori della classe, quindi chiude la porta.
I bagagli sono stati accatastati confusamente accanto a lui, i ragazzi si sono distribuiti ai tavoli. C'è meno gente del previsto, e l'uomo, pur pensando a livello cosciente che assenti sono gli studenti andati in bagno, non riesce a scrollarsi di dosso l'idea che ci sia qualcosa che non vada.
«Professore, manca la professoressa.»
Gita scolastica/2
L'attesa si prolunga. Il tardo pomeriggio primaverile sfuma in una triste serata, mentre gli studenti accettano mesti la loro situazione, distraendosi tra musica e giochi improvvisati.
Con l'affievolirsi della luce del sole, la loro collocazione isolata, sperduta si fa più manifesta: nessuna luce artificiale lungo la strada, i paesi più vicini invisibili oltre la cresta verso cui arrancava prima il pullman, da un lato, e dietro curve e tornanti alle loro spalle; nessun mezzo di trasporto oltre al loro pullman fermo sul ciglio della strada, nessun'anima viva intravistasi nelle ultime ore.
«Possibile che non sia passato nessuno in tutto questo tempo?» la professoressa è sgomenta. Il suo collega quasi nemmeno la sente, sprofondato com'è nelle proprie riflessioni. Si interroga sulla saggezza della scelta fatta, prova a figurarsi gli scenari, si chiede quanto avrebbe impiegato per raggiungere il paese più vicino, se fosse dovuto salire o scendere; si rende conto di non sapere esattamente nemmeno dove si trovano. Si morde nervoso il pollice, contempla la cartina, vecchia e vaga nelle indicazioni.
«Professore.» «Che c'è.» «Per la cena cosa facciamo?» Il professore annuisce. Certo. La cena. E dovranno —dovremmo— anche andare in bagno. Non siamo più bambini, ma a tutto c'è un limite. Saremmo dovuti tornare indietro; forse mi sarei dovuto mettere alla guida. Che stupido sono stato. Be', possiamo sempre farlo ora.
«Per ora dobbiamo accontentarci dello spuntino a sacco che ci siamo portati.» interveniene la collega, alzandosi con calma dal proprio posto. Avanzando lentamente lungo il corriodio, invitando gli studenti a tornare la loro posto, la donna controlla che tutti abbiano cibo e acqua; per chi è stato più distratto provvede lei, dal capiente borsone per le emergenze che occupa i due posti dietro il suo. «Se dovete andare in bagno, usate quello del pullman. Non scendete, l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un altro scherzetto.»
Il professore la guarda stupito e incredulo; si sistema meglio gli occhiali sul naso, come a capire se non sia un suo problema di vista, piuttosto che un'improvviso mutamento nell'atteggiamento di lei. Uscita dallo stato di shock, la donna passa ora a tranquillizzare e rasserenare tutti, con calma ed efficacia. “Scherzetto.” Bella parola per descrivere quello che è successo. Eppure la donna ora appare serena, arrivando persino ad abbozzare un sorriso quando, tornando al proprio posto, incrocia lo sguardo del collega.
«Mi sa che avevi ragione tu, avremmo dovuto provare a raggiungere il paese.» bisbiglia il professore alla collega, sporgendosi per coprire il corridoio che li separa. «Sì … forse …» la risposta della donna è lenta, quasi distratta. «Dopo questo spuntino,» insiste l'uomo «possiamo provare.»
«È buffo,» la donna commenta dopo qualche secondo «tu stai cambiando idea, ed io invece ho la netta sensazione che invece rimanere qui sia stata la scelta giusta. È così silenzioso, là fuori, così … privo di umanità, c'è solo la strada, il nostro pullman, quel pover'uomo …»
Ma non c'è paura, nelle sue parole; forse un po' di tristezza, ma quello che soprattutto colpisce il professore è la rassegnazione nella voce della donna.
Lo scambio di battute è durato poco, ma quel poco è bastato perché la sera si trasformasse in notte, una notte buia come la pece, coperta da un cielo rossastro e fosco che rapidamente sfuma in un nero sparsamente trapuntato.
Lo scendere quasi improvviso delle tenebre soffoca per qualche secondo anche il mormorio delle conversazioni degli studenti, lasciando spazio solo al sibilare del vento, allo scricchiolare dei sedili. Il professore torna al cruscotto, si guarda intorno con una lampadina tascabile, trova il pulsante delle luci per l'abitacolo, e l'intera classe sembra riprendere a respirare con un sospiro di sollievo.
L'uomo rimane seduto alla plancia, ricontrolla tutti i tasti, il freno di stazionamento, il cambio, i pedali. Sembra tutto a posto, molto simile alle automobili, solo più grande, o in posizioni leggermente diverse.
Le stelle fuori sono poche, fioche, tremolanti. Il professore si chiede com'è il resto del cielo, la parte che non si riesce a vedere da dentro. La collega gli si siede dietro, si sporge in avanti per potergli parlare a filo di voce. La sua voce, così aerea e distratta prima, è ora secca e decisa.
«Non scendere,» gli dice, come se avesse indovinato le sue intenzioni «non mi piace, non mi convince.» l'uomo si volta a guardarla, ma la donna non è spaventata; piuttosto, concentrata: come se cercasse di intravedere là fuori qualcosa di sfuggente alla vista.
Quando infine il professore prova a mettere in moto, l'avviamento singhiozza e boccheggia disperato. Al secondo tentativo, dopo aver spento tutte le luci, il motore riesce finalmente a prendere vita, per reggere qualche secondo prima di tornare a morire. Al terzo, il professore sta molto attento a mantenere sull'acceleratore l'attenzione dovuta ogni volta che il motore prova a spegnersi.
«C'è qualcosa che non va. O il motore non regge il minimo o …» «Lascia perdere,» la professoressa gli poggia una mano sulla spalla «mi sento molto più sicura a rimanere qui dentro, sinceramente. Chiudi tutto, lascia accese solo le lucine della corsia, per non inciampare se ci si alza di notte per andare in bagno. Dormiamo qui, domattina pensermo al da farsi.»
Il professore spegne il motore, controlla la chiusura delle bussole e la sicura dello sportello alla sua sinistra, torna ad accendere le luci interne; la collega ripercorre l'autobus, informa gli studenti della decisione, li invita a prendersi una coppia di posti ciasuno per poter dormire più comodi, e ricorda loro che l'indomani verranno svegliati dalle prime luci dell'alba, e che quindi sarebbe meglio se cercassero di dormire quanto prima.
Non si sentono proteste né lamentele. I ragazzi si ridistribuiscono sui trenta posti disponibili, la professoressa ne approfitta per contarli un'ultima volta, ed infine torna alla testa del pullman. «Oh be', per lo meno siamo ancora tutti.»
Gita scolastica/1
L'autista accosta, grugnisce qualcosa nel suo solito incomprensibile linguaggio, scende dal pullman e sparisce tra i cespugli. I professori si guardano sorpresi, poi scherzano con gli studenti delle prime file: «mi sa che avremo una piccola pausa fuori programma.»
«Professore, possiamo scendere anche noi?» «No, ragazzi, ripartiremo subito. Se volete sgranchirvi le gambe, fatevi una passeggiatina in corridoio.»
Minuto dopo minuto, la pausa si prolunga, l'autista non torna, i ragazzi cominciano a manifestare la propria irrequietezza, i professori il loro nervosismo. «Non vorrei gli fosse successo qualcosa.» bisbiglia la professoressa.
Traccheggiando con i pulsanti sul cruscotto, il professore riesce ad aprire la bussola anteriore, ed entrambi si sporgono guardando verso i cespugli. L'autista, una macchia azzurra e blu nel verde, giace riverso su una mezza siepe naturale.
«Oh mio dio.» la professoressa si precipita giù dal pullman, ed incespicando sul terreno raggiunge il corpo, lo volta, prova a sentirne il polso, senza successo.
Il professore, in attesa del ritorno della collega, ha cercato di chiamare un'ambulanza, senza successo. Gli studenti si sono ammassati contro i finestrini a seguire la scena; ma la professoressa, tornando al pullman, scambia con il collega solo brevi cenni del capo, sufficienti a comunicare quello che c'è da dire.
Mentre la professoressa, scoraggiata, risale lentamente a bordo, il professore fende il chiacchiericcio degli studenti, prova a riportare ordine, ne approfitta per cercare un cellulare funzionante. Il pullman è tutto un rimpallarsi di «Professore, qui non c'è campo.» «Professore, non prende la linea.» «Ma che sta succedendo?» «Ma siamo rimasti fermi qui?» «Ma cosa facciamo adesso?»
Quando il professore ha finito il giro, raggiungendo nuovamente la testa del pullman, i ragazzi sono tutti tornati al loro posto, seppure irrequieti, colpiti dalla coscienza di essere isolati dal resto del mondo, fermi in mezzo al nulla.
I professori stessi sono sorpresi, sbigottiti. Scendono dal pullman, parlando a bassa voce, interrogandosi sul da farsi. La donna è visibilmente sconvolta, l'uomo cerca di tranquillizzarla, gli studenti seduti da quel lato del pullman si schiacciano nuovamente contro i finestrini, cercano di indovinarne le parole, di interpretarne i gesti.
«Fermiamo la prossima macchina che passa, chiediamo loro di avvisare il 118. Magari nel frattempo riusciamo a contattare qualcuno col cellulare, il campo va e viene, possiamo beccare il momento giusto.»
Il vento fischia e ulula loro intorno per qualche minuto, prima che la donna proponga: «E se prendessimo noi il pullman e lo portassimo al paese più vicino? Se la strada non è troppo brutta potremmo portarlo anche noi.» «E l'autista? Lo lasciamo qui così?» «Lasciamo un segno, qualcosa, per indicare il posto … mio dio che situazione assurda, surreale, ma come diamine succedono queste cose?»
«E siamo ancora stati fortunati. Immaginati che succedeva se succedeva mentre era ancora alla guida.» l'uomo accenna con il mento in direzione del corpo dell'autista. «Per favore, non mi ci fare pensare,» la donna si cinge la fronte tra indice e pollice della mano sinistra.
«Seriamente, te la sentiresti di provare a portare il pullman?» insiste, dopo qualche secondo. L'uomo fa varie smorfie prima di rispondere: «Sinceramente, con i ragazzi a bordo? Mi sembra un po' rischioso. Piuttosto vado io a piedi fino al paese.» «Non ti mettere in testa di lasciarmi qui con … con il corpo dell'autista e la classe in fermento. Guardali lì …»
Quando i professori alzano lo sguardo, gli studenti tornano a sedersi composti, pur continuando a rimanere rivolti nella loro direzione.
«Be', aspettiamo, allora, almeno finché non ci venga un'idea migliore.»
Gan'ka/12
La stanza è molto ampia ed immersa nella penombra. Al centro della stanza, un letto matrimoniale, su cui l'uomo giace prono, volgendo le spalle alla porta, con accanto una donna dalla carnagione chiara e lentigginosa.
La bambina rimane ferma sulla soglia, finché non viene raggiunta da un «vieni» pronunciato dall'uomo con tono assente.
La bambina si avvicina al letto con passi cauti, mentre la porta si chiude alle sue spalle. L'uomo non si volta a guardarla, sembra intento a smanettare con qualcosa. Passando accanto al letto, la bambina riesce finalmente a riconoscere la donna dai capelli rossi sdraiata accanto all'uomo, è la stessa che ha intravisto prima di colazione; sdraiata supina, la donna sembra fissare il tetto sopra di loro, con uno sguardo corrucciato.
L'uomo solleva a stento lo sguardo quando la bambina infine passa loro accanto, fermandosi appena oltre il letto, a distanza di sicurezza. La bambina può ora vedere chiaramente che l'uomo sta finendo di assemblare qualcosa con pezzi poggiati su un ripiano in legno che sembra un prolungamento della rete del letto.
«Vai indietro.» l'uomo accompagna le parole con un cenno, invitando la bambina ad allontanarsi ulteriormente. La bambina si volta, fa qualche passo, si guarda dietro le spalle come per verificare a quale distanza deve fermarsi. «Spogliati.» dice l'uomo. Il tono rimane laconico, indifferente, mentre le mani rimangono impegnate sui pezzi da assemblare.
La bambina si volta completamente verso il letto, china lo sguardo, imbarazzata, ma non si spoglia. «Spogliati.» ripete l'uomo; il tono è ora più secco, forse spazientito. La donna al suo fianco ha un sussulto, sforza il collo quel tanto che le serve per gettare anche lei uno sguardo alla bambina, poi torna a fissare il tetto.
Con mani tremanti, la bambina si sfila le mutandine, mentre l'uomo, con rapidi gesti accompagnati da croccanti scatti, chiude infine le due metà del rettangolo di plastica e vetro che si ritrova tra le mani, facendolo quindi scivolare da parte.
Puntellando il viso sugli avambracci, i gomiti saldamente puntati sul ripiano in legno, l'uomo alza lo sguardo verso la bambina. «Dritta.» la bambina raddrizza le spalle, porta indietro il ventre, le braccia che puntavano a coprire il pube le cadono ora tese lungo i fianchi.
L'uomo la fissa a lungo, con uno sguardo che la bambina non riesce a decifrare, attento e serio ma distante, quasi annoiato. Dopo i primi interminabili secondi la bambina ha l'impressione di essere diventata trasparente, che l'uomo non la veda nemmeno più.
«Voltati.» il gesto di un immaginario avvitamento accompagna le parole, la bambina gira su sé stessa, un passo dopo l'altro, fino a tornare a fronteggiare il letto.
«Vieni qui.» lo sguardo dell'uomo torna distratto, mentre con passi tremanti la bambina si avvicina al letto. L'uomo le porge un braccialetto dall'apparenza dorata; nel prenderlo, la bambina ne sente il calore, nonostante al tatto la consistenza dell'oggetto sia quasi impalpabile; non c'è alcun gancetto visibile, ma il braccialetto si manifesta sufficientemente elastico da poter scorrere sopra le dita, oltre le nocche, fino al polso. Qui la bambina ne sente crescere la sensazione di calore fin quasi al limite di sopportazione, per poi cessare di colpo.
Mentre la bambina è intenta a studiare il braccialetto ed il modo in cui questo le adorna il polso, l'uomo parla, con un tono stavolta più vivace «Lo terrai sempre con te. Non lo toglierai mai, per nessun motivo.» La bambina annuisce; il braccialetto le dà ora una sensazione di prurito, ma anche questa sembra andare e venire, crescendo fino appena sotto la soglia di sopportazione, diminuendo fin quasi a sparire; la bambina prova, timidamente, preoccupata che la cosa non sia permessa, a cambiare di posizione il braccialetto, facendolo scorrere in avanti, indietro, ruotandolo.
«Ti darà fastidio per un po',» continua l'uomo «il tempo della calibrazione. Tra un po' non lo sentirai più, domani non ti ricorderai nemmeno di averlo; nel frattempo, sistemalo pure come più t'aggrada, basta che non lo togli.»
La bambina continua a fissare il braccialetto, che è anche un modo per evitare di guardare l'uomo, o la donna che gli giace accanto.
«Un'altra cosa.» la bambina sobbalza, quando l'uomo riprende a parlare. «Questa è pure per te.»
La bambina abbassa lo sguardo. Sul ripiano, subito davanti a lei, l'aggeggio che l'uomo ha da poco finito di montare. Visto da vicino, quel rettangolo di plastica e vetro sembra essere nient'altro che un tablet, e la cosa stupisce la bambina, per la quale i prodotti tecnologici sono sempre stati qualcosa la cui creazione doveva di necessità essere frutto di industrie specializzate.
Non appena le mani dell'uomo perdono l'ultimo contatto con la cornice, lo schermo, lucido e nero, è percorso da un rapido sfarfallio, e pochi attimi dopo mostra la sagoma di una mano, azzurrina su fondo nero, con scritto sopra e sotto, in nitide lettere bianche: Identificazione digitale, poggia qui ↑ la tua mano.
La bambina si inginocchia, per avere più comodamente accesso al tablet, e segue le istruzioni. Dapprima fredda e liscia come il vetro, la superficie dello schermo, sotto la sua mano, diventa per qualche momento tiepida, ruvida come la pelle di una persona. Spaventata, la bambina solleva la mano di scatto.
Il testo è stato ora sostituito. Identificazione vocale, dice la riga in alto. La sagoma della mano è svanita, sostituita da un cerchio con scritto benvenuta al centro. La riga in fondo chiede ora: come posso chiamarti?
«Adele.» la voce della bambina è un mormorìo. Il testo in fondo diventa: come, scusa?, e la bambina ripete il proprio nome, stavolta con una voce più decisa.
Benvenuta, Adele. Le altre scritte svaniscono, lasciando solo il saluto al centro del cerchio. L'intero schermo sfuma in nero, per poi tornare alla vita.
«Lasciaci soli.» la bambina solleva di scatto la testa, convinta di potersi finalmente defilare dalla presenza dell'uomo; ma ad alzarsi è la donna dai capelli rossi. Il viso di lei è corrucciato, e nell'incontrare il suo sguardo la bambina vi legge qualcosa che sembra paura. La donna si allontana, rapida e silenziosa, e gli occhi della bambina incontrano ora quelli dell'uomo.
Gan'ka/10
La stanza in cui Lena la introduce sa di ospedale, nella sua natura luminosa e candida, acroma, tutta in bianco e chiare tonalità di grigio, come nel mobilio, pratico, accessibile. La donna che le accoglie con un sorriso appena percettibile sulle labbra è giovane, carica di energie, ma pacata.
«Oh, benvenute, finalmente. Ciao Lena. E tu come ti chiami?»
Lena si siede in un angolino, con un'aria stanca. La bambina si ritrova spontaneamente a rispondere alle domande della dottoressa, il proprio nome, la data di nascita, ci sbrigheremo presto, vediamo quanto pesi.
La dottoressa la conduce al centro della stanza, su un simbolo che sembra disegnato sul pavimento, stai un po' più dritta, vediamo, le sue dita esercitano leggere pressioni sulla schiena, sul petto, la dottoressa controlla la statura della bambina, allarga le braccia, le misura la circonferenza del petto, l'apertura delle braccia, girati un attimo verso di me, voltami le spalle.
Ogni volta che ruota su sé stessa la bambina scopre che l'ambiente in cui si trovano si apre come lo sbocciare di un fiore su altri ambienti, alcuni simili, altri diversi, altri appena indovinabili oltre un séparé divisorio.
La visita continua, le domande a volte sono strane, ti piacciono i dolci, ti piace mangiare salato; altre volte sono le solite domande e richieste di tutti i dottori, siediti, sdraiati, respira, inspira, trattieni, espira, tossisci; le sue mani sono leggere ma ferme, altre volte più pesanti, quasi dolorose, ti fa male qui? e qui? le sente il polso, le preme il basso ventre, le tempie, la fronte, le chiede delle malattie esantematiche, esantiche? varicella morbillo rosolia? e gli orecchioni? altre malattie dell'infanzia?
La bambina risponde quello che può, quando può. Si ricorda la varicella, si ricorda anche gli orecchioni. Si ricorda alcune febbri che ha avuto, i cibi che le danno nausea, quando ha sofferto il mal d'auto, quando ha battuto la testa sullo spigolo di un mobile. La dottoressa le guarda la cicatrice tra i capelli, le guarda gli occhi, le orecchie, il naso, a volte è quasi imbarazzante, più spesso la bambina si sente un po' ridicola.
«Ora vediamo di che colore è il tuo sangue.»
«Cosa?»
La dottoressa le prende un dito, le punge il polpastrello, raccoglie una goccia di sangue su quella che sembra una linguetta di plastica che sparisce in un piccolo macchinario, disinfetta un batuffolo di cotone e lo poggia sul polpastrello indolenzito. La bambina ha appena avuto il tempo di dire «ahi», ed è già tutto finito.
«Tieni premuto.» La dottoressa lascia il batuffolo di cotone mentre la bambina lo ferma con il pollice, e si volta ad armeggiare con dei cilindretti di plastica. La bambina prova a sporgersi per guardare oltre la schiena della dottoressa, tra la curiosità ed il timore per quello che la aspetta.
«Cos'è quello?» la bambina si tira indietro quando la dottoressa si volta.
«Questo?» la dottoressa lo brandisce minacciosamente «Questo è uno sfigmomanometro.» «Sfigoche?» «Serve per misurare la pressione del sangue. Metti il braccio qua.» la bambina infila titubante il braccio nella larga fascia tenuta aperta dalla dottoressa.
È la bambina ad interrompere il minuto di silenzio che segue, proprio mentre la dottoressa si prepara a ritirare lo strumento. «Perché tutte queste cose?»
«Abbiamo quasi finito.»
«Ma perché?»
«Per sapere come stai. Tutte quante abbiamo fatto una visita medica completa quando siamo arrivate. E controlli periodici. A proposito, Lena, sbaglio o in questi giorni dovevamo fare un'analisi del sangue.»
La bambina sente sbuffare alle proprie spalle, Lena che si lamenta: «ecco, lo sapevo che finiva così.»
La dottoressa si china a bisbigliare all'orecchio della bambina: «Lena ha paura della puntura.»
«Anch'io.» risponde la bambina, sempre sottovoce.
«Facciamo uno scherzo a Lena? Le facciamo vedere che invece tu non hai paura?» la bambina è titubante «Dài, così poi riesco a farle anche a lei.»
«Ma io ho paura!»
«Che cosa state complottando voi due?» interviene Lena, alzandosi dalla sedia.
«Niente.» la dottoressa si gira, prende tre dei cilindretti che aveva preparato prima.
La bambina tende il braccio, tremante. «Fa male?»
«Ti sentirai come se ti stesse cascando il braccio.» La bambina getta un urlo, nasconde il braccio dietro la schiena. «Sto scherzando.»
«Io non ho paura dell'ago!» Lena si è ora seduta accanto alla bambina.
«Mai detto nulla del genere.» la dottoressa è talmente serie nel negare, da essere evidentemente troppo seria. La bambina cerca di non ridere.
«Fa un po' male,» spiega Lena «ma è come un pizzico sul dito. Abbiamo un'infermiera molto brava.» «E chi è.» «Uh … lei?»
«Oh.» la bambina si sente un po' stupida «Certo.» torna a porgere il braccio, timorosa. L'ago punge entrando, il braccio indolenzisce un po', la dottoressa alterna le tre fialette cilindriche, quindi toglie l'ago e nuovamente disinfetta con un batuffolo di cotone.
«Tieni premuto. Lena, vuoi che faccia pure te mentre che ci siamo?»
La donna è rassegnata, aspetta pazientemente che la dottoressa prepari di nuovo l'armamentario, e nel frattempo confessa alla bambina, sottovoce, «Il realtà io ho il terrore dell'ago.» La bambina finge sorpresa.
Mentre la dottoressa le preleva il sangue, Lena chiude gli occhi strizzando le palpebre e voltandosi dalla parte opposta. La bambina trova che la scena sia un po' esagerata. Poi nota che le fialette del sangue di Lena sono solo due.
«Perché a me tre?»
«Perché per te è la prima volta,» spiega la dottoressa «e dobbiamo vedere più cose. Se sei umana o rettiliana, se …»
«Certo che sono umana!» esclama la bambina. Poi perplessa: «che è un rettiliano?»
«Ma non insegnano più nulla ai bambini, oggigiorno? I rettiliani sono
una specie di uomini-
«Mi state prendendo in giro.» «Be', sì.» «E poi quelli non erano i gan'ka?»
Lena e la dottoressa si guardano, una breve risata.
«Cos'è un gan'ka, secondo te?» chiede, incuriosita, la dottoressa.
«Sono uomini bionici, sai, di quelli che hanno pezzi di computer invece di … non lo so, del cervello, del cuore. E sono collegati alla Rete e vivono in queste specie di vasche che li alimentano, e possono controllare tutti i computer collegati alla Rete, e così in realtà controllano il mondo.»
Lena è costretta ad alzarsi ed allontanarsi, tornandosene all'angolo accanto alla porta, per nascondere le risate. Anche la dottoressa fallisce nel tentativo di rimanere seria.
«Be', immagino che qualcuno stia sperimentando i potenziamenti neuronali.»
«Uffa. Non ho detto che ci credo. Però è quello che dicono dei gan'ka.» c'è qualche attimo di silenzio, prima che la bambina continui «E io non sono un gan'ka. E nemmeno un … coso, quelli dei serpenti.»
«No, anche perché i rettiliani non esistono.» «E i gan'ka come sono invece?» «Tendenzialmente cicciottelli. Per la scarsa attività fisica, non perché vengano coltivati in vasche idroponiche.»
La dottoressa riflette qualche secondo.
«Sai, l'uomo che ti ha portata …»
«Lo odio!» esplode la bambina, tra rabbia ed improvvise lacrime «È … è cattivo, mi ha … mi ha portato via da … non ho più i miei, e non ho più la … tutte le cose che avevo, non ho più niente, sono qui, non so nemmeno dove sono, io non voglio …»
«Sh,» la dottoressa la abbraccia «sei ancora spaventata, è ancora troppo presto, sh, calma, sh, fa ancora male, scusami, sh, scusami, scusami, scusami.»
La bambina affoga il tormento in un immenso sospiro. «Lo odio. E voi non sarete mai come i miei. Anche se siete così … così buone, così …»
«Se non vuoi che noi si sia la tua nuova famiglia, possiamo almeno renderti più felice la nuova vita?»
«Sì.» mormora la bambina, tirando su col naso. La dottoressa le porge un fazzoletto, in cui la bambina si soffia rumorosamente.
«Prendi questo.» la dottoressa le porge un bicchiere.
«Cos'è?» «Una medicina.» «Non sono malata.» «No, ma questa è una medicina speciale. Serve per curare gli incubi.» «Non ho …»
La bambina ricorda la notte, prende il bicchiere, beve. «Sembra acqua.» «E invece è una pozione magica.»
«Sai,» continua la dottoressa «per una bambina della tua età parli molto bene. E sai un sacco di cose.» la bambina fa spallucce «Ti piace leggere?»
«Un po'.» la risposta è titubante. «Non è una cosa di cui vergognarsi,» osserva la dottoressa «anche a me piace leggere, anche Lena legge un sacco. Lena passa tutto il giorno a leggere, praticamente. Quando non è troppo stanca anche per quello, ovviamente» Dal suo angolino, Lena fa una linguaccia alla dottoressa.
«È diverso, voi siete grandi e potete fare quello che volete.»
«Oh, tu leggevi invece di fare i compiti?» «No! Ho sempre fatto i compiti, io. Leggevo solo quando avevo finito.» «Di notte, di nascosto.»
La bambina arrossisce. «Solo quando leggevo le cose che i miei non volevano che leggessi.»
«Oibò, e perché mai non volevano che le leggessi?»
«Perché “non sono adatte per la tua età”. Oppure “ti annoierai”. È vero, a volte era vero, erano noiosi.»
Mentre parlano, la dottoressa la fa scendere dal lettino, la porta in uno degli altri ambienti su cui si apre l'infermeria. «Dovresti toglierti le mutandine e sdraiarti qui, con le gambe qui e qui.»
«Perché?»
«È l'ultima visita che dobbiamo fare oggi.»
«Ma è …»
La dottoressa la fa sedere, le spiega come presto non sarà più una bambina, come comincerà a diventare una donna, le illustra brevemente la maturazione del corpo femminile, l'opportunità dei controlli, anche se sarà un po' imbarazzante, ma sarà veloce, non si accorgerà di nulla.
«E nel frattempo puoi decidere se vuoi una collana, un braccialetto o una cavigliera.» «Per cosa?» «Te lo spiego nel frattempo.»
La bambina acconsente, a malincuore, aspetta che la dottoressa si giri per prepararsi, si stende con le gambe aperte. «Penso di volere un braccialetto, ma per cosa?»
«È un piccolo strumento per raccogliere dati sul nostro corpo. Come quelli che usano gli atleti professionisti durante gli allenamenti, per sentire il battito cardiaco, o la respirazione, o la pressione del sangue.»
«E perché dovrei portarlo?» «Oh, l'abbiamo tutte. Alla fine scopri che è molto comodo, e non hai bisogno di venire fino a qui per fare molti dei controlli. È come i microfoni e le telecamere nascoste delle spie, ma è tutto per te.»
«Ma Lena non ce l'ha.» «Lena ha scelto un tatuaggio. Ma per te è presto.»
«Un tatuaggio? Come fa un tatuaggio a fare queste cose?»
La dottoressa la fa scendere dalla sedia, la bambina ha già scordato l'imbarazzo della breve visita ginecologica.
«Be',» fa la dottoressa, togliendosi e scartando i guanti in lattice «è un tatuaggio speciale, ovviamente. Ma se vuoi conoscerne i dettagli dovrai chiederli al nostro padrone di casa.»
La dottoressa accompagna la bambina alla porta, saluta Lena con un buffetto sulla guancia, e conclude.
«Lo sai che è un gan'ka, no?»
Gan'ka/9
Fuori controllo. Non riesco a ricordare da quanto tempo non avevo più la sensazione che la situazione qui fosse così fuori controllo.
«Colazione?» «Grazie.»
«Scusa per prima.» la bruna mi mette davanti yogurt, tè e biscotti.
Non riesco nemmeno ad essere arrabbiato. Alla fine, sono io che ho deciso di farmi trascinare dagli eventi invece di cavalcarli. Non ho molto da dire. «Solo … cercate di metterla a suo agio. Avete tutto il tempo per soddisfare le vostre curiosità.»
«Quindi resta.» la bruna mi si siede accanto con davanti la propria colazione. La roscia le tiene compagnia con il solito cesto di frutta.
«Perché non dovrebbe?»
«Sì, lo so, ho letto il messaggio. Ma non è proprio vero, no? Per lei è più come per la prima, o per Hiromi, non è che può andar via quando vuole. Almeno fino a quando non diventa maggiorenne. Oddìo, anche dopo … alla fine a parte le chiacchiere del mentoraggio suo padre di fatto te l'ha venduta, tu puoi farci quello che vuoi.»
La bruna si ferma, non si capisce se per mangiare, per riflettere, o entrambe le cose.
«E diciamolo, anche la storia del … che non cambia nulla è un po' una vaccata, eh. Non è che l'idea di una di dieci anni che ti spunta mentre fai zozzerie sia proprio il massimo, anche per quelle di noi con meno senso del pudore. E non è che siamo semplicemente una colonia di nudisti, qua, giusto?»
«Magari per lui l'età non fa differenza.» la roscia interviene laconica, quasi indifferente «C'è gente per cui l'età non ha alcuna importanza, basta che ci sia un buco.»
La bruna rimane interdetta, il cucchiaino si ferma a mezz'aria prima di tornare rumorosamente nella tazza. Non ricordo sul momento se lei comprende il peso che quelle parole hanno per la sua compagna, la storia da cui sgorgano. Ma tutto quello che riesce a dire è un «no, avaja, dài» che non tange minimamente la roscia, imperterrita nella propria nonchalance.
Mi viene quasi da ridere quando nei lunghi secondi di silenzio che seguono la responsabile approfitta del piccolo shock della compagna per rubarle un'abbondante porzione di yogurt con cui arricchisce la macedonia che si è preparata fino ad allora.
«Io volevo solo dire che non so come si fa a mettere a proprio agio una di dieci anni … va be', a parte non tartassarla di domande. Ma questo no, dài. Non è così, vero?» la bruna è rivolta a me, ed al ritardo di una mia risposta insiste, più preoccupata: «Vero?»
«Trovo abbastanza interessante questa ricerca di conferma verbale. Cosa cambierebbe se ti dicessi sì e poi lo facessi comunque? Davvero una semplice parola ti tranquillizzerebbe?»
«Io … io vorrei solo conferma del fatto che tu non sia …»
«E ti accontenteresti per questo di una conferma verbale. Mia, del diretto interessato.»
La bruna è di nuovo senza parole. La sua compagna ora ghigna. Adocchio il suo cesto di frutta, i sopravvissuti alla macedonia.
«Passami la susina.»
«Ti susi e t'a v'o ppigghi tu.» e per meglio evidenziare la frase allontana il cesto in direzione opposta alla mia.
Mi alzo, e nel passarle accanto le pizzico un gluteo. La sua reazione è un'immediata, rapidissima gomitata allo sterno che mi mozza il fiato. Quando raggiungo la cesta di frutta la susina è sparita e la roscia gonfia le guance per scartare il nocciolo.
«Direi che per mettere a suo agio una di dieci anni non ci saranno problemi.» sospiro.
Gan'ka/8
La cucina è grande, spaziosa, con un largo tavolo di legno, grezzo nella fattura, segnato da un uso prolungato, ma dalla solida apparenza. La donna fa accomodare la bambina, le chiede cosa preferisce per colazione, le versa un bicchiere d'acqua.
La bambina beve, ancora troppo intimorita per esprimersi. L'acqua ha un sapore tagliente, con un retrogusto quasi frizzante.
«Buona.»
La donna le versa un altro bicchiere. Poi torna ad insistere: «Allora?» ed al persistere dell'esitazione della bambina, per darle ispirazione, enumera latte, tè, orzo, yogurt.
La lista viene interrotta dal sopraggiungere di nuove persone, i cui discorsi sui piani culinari del pranzo naufragano con il trovarsi davanti la nuova ospite, risolvendosi in una confusione di domande e commenti che la bambina non riesce a seguire, dai quali si sente travolgere.
«Lasciatela in pace.» la voce maschile è imperativa, pacata, inconfondibile. Si fa subito silenzio, le ultime arrivate tornano a quello che avevano interrotto.
«Avevo chiesto di farla visitare prima di colazione.»
La donna troppo magra china lo sguardo. «L'ho dimenticato.»
«Mi fa piacere vederti in piedi.»
I due si scambiano un sorriso che la bambina, con il suo sguardo intensamente fisso sul bicchiere nuovamente vuoto davanti a sé, non può vedere, anche se nella voce dell'uomo si può sentire una nota diversa.
«Grazie.»
«Te la riporto subito. Andiamo.» l'uomo poggia una mano sulla spalla della bambina, la sente irrigidirsi ulteriormente.
«L'accompagno io, non ti preoccupare.» interviene la donna.
L'uomo si sposta, la bambina si affretta a raggiungere la donna, senza mai sollevare lo sguardo, per timore di incontrare quello dell'uomo, per l'imbarazzo di poter vedere la sua nudità.
E mentre si allontanano l'uomo manda loro una raccomandazione: «Di buona Lena.» e nuovamente la bambina può sentire quel tono diverso nella voce, quel tono che non capisce, che non ha nulla di serio, di imperativo, di infastidito.
«Scemo!» è la risposta che la donna si butta dietro le spalle, di nuovo con un sorriso. Ed allo sguardo perplesso, forse persino preoccupato con cui la bambina ha assistito allo scambio, chiarisce: «Lena è il mio nome.»
Gan'ka/7
Il risveglio è accompagnato da un'onda di panico, improvvisa quanto momentanea, per l'estraneità dell'ambiente. La bambina giace supina per qualche momento, lo sguardo perso nelle ombre appena distinguibili della stanza.
Al panico segue la sensazione di vuoto abissale della presa di coscienza del distacco definitivo dalla sua famiglia, e da tutta la sua vita di prima; ma se anche tutto il suo corpo si prepara al pianto, non una lacrima esce.
La bambina si solleva a sedere, raccoglie le gambe al petto e rimane a fissare le pieghe delle coperte davanti a sé, appena percepibili nell'oscurità, e lascia che quella sensazione di immane solitudine la affoghi, mozzandole in gola anche l'unico singhiozzo.
Le parole consolatorie della matrona, che pure la notte prima le avevano donato un momento di serenità, vengono travolte nuovamente dai dubbi, si confondono con gli incubi che hanno accompagnato il sonno, corse per labirinti sotterranei inseguita dal nulla, grida d'aiuto senza risposta.
Eppure la bambina sente l'aria pacifica di quella casa, fin nel buio della stanza in cui aspetta non si sa bene cosa, quello stesso buio che la notte aveva portato ansia, dopo la sensazione di vita che le avevano dato i corridoi di quella casa.
La bambina finalmente si alza, e la stanza si illumina un po' di più, di una luce fioca e diffusa che ricorda quella di prima dell'alba, quando si riesce già a vedere, ma non si capisce ancora da dove sorgerà il sole. La luce la segue in gabinetto, attende che lei finisca di espletare le necessità organiche del mattino, poi la segue di nuovo in camera.
Ora la bambina ha fame e sete e paura, e pensa che deve ritrovare la matrona. Schiude piano la porta che dà sul corridoio, spiando timorosa l'ambiente. Non sa nemmeno di cosa dovrebbe avere paura, o perché averne. Ed in realtà è il suo stesso modo di fare ad amplificare il suo disagio.
Il corridoio è luminoso e deserto. La bambina vi avanza esitante. Si ferma davanti alla porta del bagno, crede di sentire voci ridere dall'altra parte, ma non raccoglie abbastanza coraggio per entrare, per chiedere. Si ferma alla porta successiva, bussa esitante, e quando una voce da dentro chiede «Sì?» apre piano la porta.
La bambina si ritrova davanti un viso sconosciuto, occhi grandi, vivi, con uno sguardo interrogativo che subito diventa sorridente.
«Tu sei la nuova.» la donna, seduta sul letto con la schiena contro la testiera, abbandona accanto a sé l'oggetto che teneva in mano.
«Io … mi dispiace, non volevo … non volevo disturbare, ce… cercavo la …» la bambina sta affogando nell'imbarazzo, aggrappata alla porta come pronta a farsene scudo, senza sapere nemmeno come concludere la frase.
«Oh, Nana, sicuramente, è lei che ti ha accompagnato, vero? Eh, non saprei dov'è ora. Ma forse posso aiutarti io?» la donna si solleva a sedere, spostandosi fino al bordo del letto, le gambe fuori.
La bambina rimane sorpreso dalla magrezza della donna, dalla lentezza dei suoi movimenti che nulla ha a che vedere con la pacatezza della matrona della notte scorsa, ma sembra piuttosto causata da un'infinita stanchezza. La donna le sembra persino barcollare, e la bambina le si affretta incontro.
«Stai male?»
«Eh, chissà. Grazie, comunque, camminiamo insieme.»
La stufa
«Basta!» disse la donna «Fa troppo freddo! Non ne posso più di dovermi coprire così tanto anche quando sono in casa! Sono stufa!»
E puff divenne un grosso blocco di metallo capace di radiare calore.
Ed ancora oggi si ricorda quella coraggiosa eroina che con la sua trasformazione ci permette da allora di passare le fredde serate invernali al calduccio senza bisogno di vestiti pesanti.
Sin City Style/4
No more than two weeks later, Stark was found dead in his own apartment. The cause of death was determined to be heart failure, caused by a lethal cocktail of alcohol and antidepressants.
Stark didn't leave quietly. On the opposite, it was the cessation of the screams and of the pounding and crashing noises coming from his apartment that had finally triggered the police call that resulted in the discovery of his dead body.
According to the landlady, Mr. Stark had always been a troublesome, noisy tenant. The other tenants actually enjoyed the times when he didn't make it back home due to his work, as it was a vacation from his loud swearing, kicking and stomping around. His forced leave from work had initially worried Mr. Stark's neighbors, but his first days home had been surprisingly quiet.
The landlady was pretty sure it was depression, she knew how much Mr. Stark was attached to his work, and having been left out had probably destroyed his life for good. Although she couldn't explain why his last days were so loud, but from the conditions the apartment was found in, as well as the attested cause of death, had the landlady convinced that Mr. Stark had become a drunkard, not an unusual condition for someone in his situation, and had probably lost his mind.
Stark's apartment was thrashed. Shelves and cupboards had been ripped from the walls and lied across the apartment, their contents spilled all over the floors. The scene had many of the traits of the aftermath of a fight, but there were no signs of a break-in, and none of the tenants, nor the landlady, had ever seen anyone come visit Mr. Stark.
The doctor believed it possible for the rampage to have been caused by Stark himself, while fighting the hallucinations caused by his excessive drinking and antidepressant consumption, and particularly by the combinations of the two that had ultimately led to his death.
The case was closed.
Sin City Style/3
«Lieutenant.»
«Sir.»
«Please have a seat.»
Stark sat on the closest armchair in front of the Commander's desk. The Commander stood up, walked to the window behind his desk, and waited.
Stark hadn't liked the idea of a meeting with the Commander right from the beginning, and he liked the wait even less. He shifted position, uncomfortably.
«Do you read the newspapers, Lieutenant.»
No, fatass, I have better things to do with my time. Like squashing crimes. «Not for leisure, sir.» The Commander dropped his head, pensive, but didn't reply. Stark continued «I prefer quicker ways to be up to date with the news, sir, like the radio and the television.» Still no response. «I do have a couple of heads in my team that peruse the newspaper for work, sir, to look for hints and clues that might have escaped us.»
The Commander nodded «Ah, smart choice, Lieutenant, smart choice. Sometimes journalists can see things in a different light, and that can help us indeed. Even when they ramp up some allegations, some useful truth may be hidden in them, couldn't it? Good job with your men, Lieutenant.» Silence again «So, you don't read the newspapers.»
I thought I already replied to that question, fatass «Not habitually, sir.»
«You see, Lieutenant, I think you should have a look at them, from time to time. See this, for example.» The Commander turned, picked a newspaper from a pile that was standing on the left corner of his desk, and slapped it in front of the Lieutenant. Stark picked it up, while the Commander continued. «You made the first page, apparently. And not in the best of ways.»
IRON-FISTED POLICEMAN BEATS YOUNG COLLEAGUE TO A PULP
Stark bit his lip, as the Commander continued: «You know best of all what happened two days ago, Lieutenant. As it happens, there were people around —luckily for the controller, if you allow me— and they could overhear the last bits of your … conversation with him. A little impudent, wasn't he? He surely overstepped a few boundaries, didn't he?»
«Sir, yes, sir.»
«But we have ways to deal with that, yes? Insubordination and all that stuff. We have procedure.»
«Sir, yes, sir.»
«Which you didn't follow.»
«Sir, no, sir.»
«Shall we say you … overreacted, maybe, Lieutenant? Regardless of what the controller could have said to you, provoked or unprovoked, your reaction was maybe a little out of bounds? What would you say?»
«It might have been, sir.»
The Commander nodded again. «Yes, it was a little excessive. And to make it worse, the news made the rounds, kicked you in the front page. Not the best way to get famous, is it?»
«Sir, no, sir.»
«You see, Lieutenant, the controller here was very much liked. I think he mentioned he was the best controller we ever had, yes, during your conversation? Well, he's right. We have the numbers to prove it, even just by comparing his turns with the time when he's off duty. He does a very good job.»
«Sir, he's just a controller. He just calls the number, sir.»
«Oh, indeed, Lieutenant. But he's damn good at it, much better than anybody else. And we don't judge people by the job they do, Lieutenant, do we? We judge them by how well we do it. And he did his job very well.»
«Sir …»
«Please, Lieutenant, I'm not finished. When he is calling the numbers, as you call it, everything goes smoothly. Maybe he's just lucky, maybe it's just that the others fancy him, because he's so young or who knows why. You see, Lieutenant, that controller is very much liked here. We can't say that your … dispute with him would have made you win a popularity contest, if there was one around here, would it?»
«Probably not, sir.»
«Good, I see we're on the same wavelength here. That's very good, Lieutenant. Now, just out of curiosity, why did you call for him? What was all the discussion about?»
«Sir, I believed I saw something odd in the CC recordings surrounding the bombing of my car, sir.»
«Something odd pertaining the controller, Lieutenant?»
Suddenly, Stark felt a little stupid about the whole affair.
«Lieutenant.»
«Sir, yes, sir. He … he just happened to duck at the same time as the explosion, sir. Quite the coincidence, wouldn't you think?»
«Ah, very odd, very odd indeed. You mean, like he was expecting something?»
«That was my impression, sir.»
«Quite the accusation, Lieutenant. You believe he might have been involved with the bombing?»
«I don't know, sir. I did believe he might have been aware of it, though.»
«And what did the controller have to say about it?»
«He … he mentioned that he had heard the threat that came through our radio, sir.»
«Ah. Of course. Him being the controller, this would be a plausible explanation, wouldn't it?»
«It could be, sir. It was delivered in a, shall I say, unfriendly tone, sir. This, I might have felt provoked by, sir.»
«Ah, I see. Of course, having just survived a bombing, not the most relaxing experience, is it.»
«No, sir.»
«Yet, the explanation could be checked, yes? We have audio recordings from the controller station as well, don't we.»
«Yes, sir. I didn't have the idea to check them out though, sir.»
«Of course, of course. The bombing of one of our cars is definitely not something to overlook, every clue must be considered. I will pass the suggestion over to the team that is looking into it.»
«Thank you, sir.»
Silence dropped in the office. The Commander stood still, leaning against the desk.
«Will that be all, sir?» Stark asked, when his patience had run over.
«No, Lieutenant, I'm afraid that's not all there is about it. Please have a look at the newspaper.» Stark picked it up, as the Commander continued «Apparently, they weren't satisfied with the front page news. There's a whole service about you, Lieutenant. Those journalists, they got quite busy around here. Asked a lot of question. Collected a lot of data —only data we could officially provide, of course. Now, if you would indulge me, on page three of that same newspaper you'll find an interesting chart, Lieutenant. Apparently, they took the liberty of benchmarking your work.»
«Quite the liberty, sir, if I may say so.»
«Quite the liberty indeed, Lieutenant. Yet, I find that chart interesting, Lieutenant. You know why?»
«Hm, it's downwards, sir.»
«Indeed it is, Lieutenant. And you know what that means? It means that —according to the press— you're slipping. You have had a brilliant career so far, Lieutenant, wouldn't you say?»
«Sir, yes, sir. Thank you, sir.»
«No need to be modest about it, Lieutenant. Credit where credit is due. I must say that I, personally, was never too happy about some of your strategies, Lieutenant, but I must concur that they have been quite effective in solving a number of cases. Sometime good manners don't get you very far, do they? And an iron fist is better to crack some nuts, isn't it?»
«I believe so, sir.»
«Indeed you do, Lieutenant, indeed you do. And you've got the numbers to prove it. And see, this is where that chart comes in and throws new light on the matter, Lieutenant. Apparently, there's such a thing as too much of an iron fist. And I'm not talking about the controller, here, Lieutenant. I'm talking about cases. Apparently, the press has done some impressive research on that account.»
«With all due respect, sir, the press doesn't know» shit «anything about my cases.»
«Oh, but that's where you're wrong, Lieutenant. They do, they know an amazing lot about them. Not just yours, mind you, but more in general about everything we do here. Sometimes I'm surprised myself, they seem to know how things are run around here better than me. And I don't like that, I'll say, I don't like that one little bit. But maybe it's just that an outsider perspective helps them see things in a different light, see different things. And the press has a formidable memory, a memory that sometimes seems even better than our own. They manage to dig up things from who knows where and tie them together in impressive ways. Not always correct, but nevertheless impressive.»
Stark was a little confused by the speech. At times, the Commander seemed to drift out of the main course into some side-rant, and that required some energy to stop and bring the discourse back on track. The Commander paused, breathed in, then continued:
«But let's stay on topic, shall we. So these journalists thought they could evaluate your performance in solving a number of cases. And given the topic of the discussion —your iron fist, to say— they thought they could even decide when your iron fist was necessary and when it was sufficient, when it was unnecessary, down to when it was actually counterproductive. Funny, isn't it, that they could think themselves able to evaluate your work like this.»
«Funny indeed, sir.» But Stark didn't find it funny. He found it preposterous.
«Yet it's true what they say about a fistful of sand, Lieutenant, isn't it? The stronger your grasp, the less sand remains in your hand. Sometimes, a lighter touch can do miracles.» Silence «Do you agree, Lieutenant?»
«There are such cases, sir.» but he didn't sound too convinced, nor he was.
«Indeed there are, Lieutenant. Like with the controller, for example.»
«Yes, sir.» OK, I got it. I thought we were over that, too.
«Or with Mollica.»
For the first time in his adult life, Stark felt the cold sweats of fear.
«When your car was bombed you had just come back from trying to get your hands on a Mr. Vincent Mollica, nicknamed ‘Quippy’, where you not?»
«So I was, sir.»
«And did you manage to apprehend the individual, Lieutenant?»
«I … I believe I did, sir.»
«So you did. Yet with the blast that blew up your car, you were the only survivor, and everybody else inside was just blown to smithereens. Quite tragic.»
«Tragic indeed, sir.»
Silence again. Then the Commander spoke again:
«Did you ever consider that the bomb might have been set up during your visit downtown?»
«I would find that hard to believe, Sir. Me and my men never left the whereabouts of the car, nobody got close, sir.»
«I believe you underestimate the technology possessed by some of the criminals living there, Lieutenant.»
«Sir?»
«You see, Lieutenant, we just happened to have received a video that seems to have been recorded where and when you went to apprehend Vincent Mollica.» Oh, shit. «Incredible stuff. High definition, night visibility, really incredible stuff. Even more incredible, it seems to have been recorded from a very close location to where you were standing. I'll show it to you.»
The Commander pulled the curtains, locked the door, and turned on the projector, lowering the volume so that no sound from the video would be heard beyond the walls of the office.
Stark saw himself shouting at a crowd, ordering his men to drag a man in front of him, shooting the man in his mouth blowing half his head off, shouting again at a commenter from the crowd —and this time the commenter voice was surprisingly loud and clear— and finally facing the commenter himself —staring straight at the camera— while the news about Vincent Mollica was delivered to him. The video ended with his car rolling out of sight.
Right in front him. Smartass #2 had video cameras implanted in his glasses. Fuck.
The Commander turned off the projector, pulled the curtain open again.
«Quite some stuff, uh? And that's actually a … ah, what did he call it … interpolated video or something. Apparently the original feed is in stereovision. The technician —mind you, a person I have the most profound trust in, he knows when to keep his mouth shut— said that with time and the right tools a lot of analysis can be done with the video and sound from this recording.»
The Commander turned again at Stark, that hadn't moved from his position, turned against the wall against which the video had been projected. Stark was unusually pale, and both his hands were clenched into fists.
«So for the time being, nobody knows about this video, but me and you. And we want to keep it this way, don't we, Lieutenant?»
Stark unclenched his fists, but his breathing was heavy and uncontrolled.
«Lieutenant.»
«Sir. Yes, sir.»
«Especially since if it was known that you had killed Mollica —like that, moreover— someone might even suspect that you bombed your car yourself.»
«What!?»
«Relax, Lieutenant, I'm not saying that you did. But think about it, it makes perfect sense: you make a big blunder like this, your car blows up and not only you are the only survivor, but the others are reduced in such a condition that no mortician would be able to tell the guy's head had been already blown off. All traces of your blunder —wiped out, like that.»
Stark was stymied.
«Honestly,» the Commander continued «I find this idea absurd. I'm more prone to believe that the bomb was set up during your brief stay there, with some mechanical trick to pass unobserved while you were distracted. Maybe this accident was all a set up. Who knows, maybe even the whole Vincent Mollica thing was a way to bait you. But that's not the point, Lieutenant. You know perfectly well that Vincent Mollica was our only lead in the Tailgate case.»
«Yes, sir.»
«And even if the bombing put the closing seal on our chances to get anything from Vincent Mollica, it can't be said that you handled the whole thing as it would have been expected.»
«I understand, sir.» Stark started to see where the whole discussion was going.
«There's more, and it's the worst. Have a look here.» the Commander picked up the newspaper and shove it in Stark's hand, pointing at a specific paragraph.
“… his latest blunder being the loss of an important lead in a top-secret case, nicknamed Tailgate …”
«How the hell do they get this information?» Stark blasted.
«Ah, that would be an excellent question, and rest assured that we'll find the leak. But that's not your concern, Lieutenant.»
«Sir?»
«You must realize that Tailgate is a very delicate case. You know what's involved.»
A fatass senator whose daughter prefers to be a stripper in the worst part of town than marry some pompous fatass son of a fatass like you «Yes, sir.»
«I cannot allow any more slip-ups in this case, Lieutenant.»
«There won't be, sir.»
«No, there won't be because I'm taking the case off your hands.» Stark was flabbergasted. «You're slipping, Lieutenant. You're slipping badly. I'm sending you on vacation. You're over-worked and over-stressed. You over-react, and you make big, blatant mistakes. You're relieved from duty until you calm down and grow back to your sense.»
«Sir! Please, sir, no, … I … this is my whole life, you can't take it away from me, please sir, please, I won't slip up again. There will be no more mistakes, sir, please.»
«No, Lieutenant, and that's final.» Suddenly, the Commander voice grew softer. «Listen, son, don't take it this badly. You really need a vacation. Get on the road, see places, meet people. Find yourself a nice woman. It'll do miracles for you. And you'll come back stronger than ever.»
«Sir.» Stark stood up, holding his tears in. That paternal final talk was even worse than everything that had come before. He was disgusted.
«That'll be all, Lieutenant. Dismissed.»
Stark saluted, and left the office.
Sin City Style/2
«You know kid, I really don't like you.» Stark was pissed off. He was so pissed off that the hospital had had him relieved before his full recovery because nobody could stand him anymore, even though of course that wasn't the official reason.
«Sir.» the young man knew he would be better not provoking Stark, so he just acknowledged the comment.
«You see, one of the nice thing about the accident my car had is that it was just inside the garage. You know what we have inside the garage, boy?»
«Cars, sir?» the young man was really clueless about where Stark's speech was going, so he took the stupidest guess.
«Aha, very funny kid. Now try to stop being funny, my chest still hurts when I laugh and that's guaranteed to cripple my good mood. And we don't want that, do we?»
«Sir, no, sir.» and that was true.
«I'll give you a hint, kid, so maybe that'll enlighten you. We have closed-circuit cameras, kid. All over the place. Every corner of the garage, every pillar, even just outside the garage. Even inside your stupid control box.»
«Yes sir.»
«So you see, it just happens that I had a lot of free time these past days, you know, being hospitalized and whatnot. And I spent most of this time watching TV, kid. CC-TV, if you catch my drift.»
«Sir, yes sir.»
«Do you know where I'm going with this, kid?»
«Sir, I assume you were looking for clues about the explosion, sir.»
«Ah, smart kid. I like that. It still doesn't make me like you, but at least I know I'm not talking to some dumbbell. Now, you know, there's an interesting thing caught by the CC during that fucking bombing of my fucking car. And you know what it is, kid? It's that you happen to duck at just the right fucking time.» Now Stark was standing behind his desk, and shouting right in the face of the young man. «Explain this!»
«Sir, I am the controller, sir. I hear everything that goes in or out or through the car radios, sir. I heard the voice just like you did, sir, and just like you stepped out of the car in time, sir, I ducked fearing the worst.» The young man spoke very fast, trying to get the point across, through the veil of anger and hate that covered Stark's face.
«Oh, sure, how fucking convenient. “I'm the controller, sir, I hear everything, sir, please don't eat my face, sir.”» What had started with a falsetto mocking voice ended with a growling snap.
«Sir,» the controller's voice was much less assertive now «that's the plain truth, sir.»
«Oh, yeah, of course it's the fucking truth, kid, of course. How else could you know about the bombing, eh? Except maybe if you put the fucking bomb there.»
«Sir, I never go near the cars, sir. Mechanics service the cars, sir. I'm only told when they are serviced and when they come back, sir. Closed-circuit cameras can surely confirm that, sir.»
Stark was now fuming with anger. He felt mocked by the controller, and he didn't like that. He didn't like that at all. «Get out of my sight, kid, get out of my sight before I lose it. GET. OUT.»
«Sir.» the controller snapped to salute and headed for the door.
«You're a disgrace, controller, you're an insult to the intelligence and bravery of our police corps. I'll see you kicked out before you know what hit you.»
The controlled stopped and turned.
«What.» Stark shouted.
«With all due respect, sir. I'm the best controller this section ever had. I give my best to the section, sir, and that turns out to be better than what anybody else in my position has ever done.»
Stark looked at the controller madly. «What's that supposed to mean, kid?»
«With all due respect, sir, I believe that if someone is bringing disgrace to the police corp with its actions and behavior, that wouldn't be me.»
Stark had now moved around the desk, and two quick steps brought him face to face with the controller. «And who would that be, kid? Are you somehow suggesting that I bring disgrace to the police, kid?»
«Sir.»
«Have the guts to say that in my face, kid.»
«Sir, I believe that your recent behavior has brought more troubles than solutions to this section.»
«My behavior, kid? What about my behavior.»
«With all due respect, sir, you have been an aggressive jerk, si—»
The punch flung the controller throught the open door into the corridor. Stark was upon him in no time, and started beating him, until people rushed through from all directions to grab him.
Sin City Style/1
The car came to a screeching halt just a few yards beyond the checkpoint. Stark stepped out, followed by two of his men.
«God I hate this part of the city.»
«Well, we don't like your kind here either.»
«Woohoo, we got a smartass over here! Who said that? WHO. SAID. THAT.» Stark looked around him until his eyes met with those of a man standing on the border of the circle the crowd had formed around the car. «Guys, bring him here.»
The other two policemen grabbed the man by his arms and walked him to stand in front of Stark.
«So, Mr. Smartass, since you seem to like it quick and dirty, let's get straight to the punch» and he punched the man in the guts «line.» The man dropped to his knees, and Stark grabbed him by his hair «So, do you happen to know where I can find Mollica, Vincent ‘Quippy’ Mollica?»
«Fuck you.»
«Jesus.» Stark dropped the man's hair, and brought the hand to cover his eyes «Why do you guys always have to make it so hard.» He rolled out his gun, and waved it in front of the man. «OK, let's try one more time, gently. A Mr. Vincent Mollica, do you know where I can find him?»
«I said fuck you.» repeated the man.
Stark grabbed the man by the nose and forced the gun in his mouth. «Let's try this one more time, gently.» and this time Stark was shouting «Vincent Mollica, asshole, do you know where I can find Vincent Mollica?»
«I ‘aid ‘uck you.» repeated the man, unfazed by the gun in his mouth.
«Oh, fuck you.» Stark pulled the trigger. The shot blew the back of the man's head out, and Stark let the body drop to the ground.
«You're not going to get far with that kind of attitude, mister.» said another voice from the crowd.
«Oh, Jesus, this place is crawling with smartasses. Ok, Mr. Smartass #2, come out of the crowd before I start shooting random people.» A man stepped out of the crowd. «So, Mr. Smartass #2, let's hear what you have against this attitude of mine.»
«Nothing, mister, it's just that you killed the man you were looking for.»
Stark burst into laughter and stopped as abruptly. «OK, guys, search Mr. Smartass #1 over there, see if he has any ID. As for you» the gun was still pointing as the other man «I hope you have some ID on you as well or you'll have to come with us to the station.»
«Sir,» the corporal handed to Stark what he had found on the body «driving license and, uh, passport, sir.»
Stark sheathed his gun and grabbed what the corporal was handing him «Guy was a traveler, uh?» he looked the at the driving license first «Fuck.» his voice was much lower now. He franticly went for the passport «Fuck, fuck, fuck, fuck.» He stood still and silent for a moment «OK, guys, grab that body, we going home. As for you, Mr. Smartass #2, consider yourself lucky today.»
The other man didn't even bother to reply, and just looked over as Stark and his men climbed back in the car dragging the dead body of Vincent Mollica with them.
At the checkpoint, the car was stopped again. Stark rolled down his window and shouted «Jesus fucking Christ, man, we just went through!»
«Sorry sir, just doing my duty sir.»
«Well, speed it up if you don't want to end up like him.» Stark shoved Mollica's head through the window.
«Yes, sir, you're free to go sir.» the sergeant saluted, and as the car rolled by he murmured «Asshole» in its general direction. His voice was apparently not low enough, as the car stopped and rolled back.
«What was that, soldier?»
«Sir, that's a fricking ugly asshole you got there with you, sir.»
Stark kept the man on pins and needles as he pondered, then he said «You're quick on your feet, soldier, I like that. I might even consider forgetting that you tried to insult me and give you a recommendation.»
«Sir.» the sergeant saluted again, this time keeping silent until the car was gone.
Stark had had enough with idiots and inconveniences. He was also quite pissed off by the way the Mollica affair had turned around. Still, when an unknown, deep voice came out of the car radio just as the car was rolling into the station garage, he was the only one quick to recognize the threat in the message:
«Bye bye, gentlemen.»
Stark managed to slam his door open and jump out just as car blew up.
Gan'ka/6
Dicono che gan'ka si diventa quando la nostra anima, il nostro spirito, o per lo meno la nostra mente si trasferiscono dal loro naturale supporto biologico alla circuiteria elettronica delle macchine con cui conviviamo, perdendo con ciò i più profondi legami con la nostra umanità.
Ma se smetto di raccontare non è per mancanza di materiale, perché ricordi ce ne sono ancora a valanghe, le immagini e le sensazioni di allora, freddo e impassibile come una statua, un unico lungo solco nel cristallo della mia vita, le ricerche, le mie implacabili reazioni, senza sollievo, senza chiusura.
No, è la forza a mancare, perché non pensavo che facesse ancora tutto così male, un colpo secco da mozzare il fiato. Ed il mio silenzio è abbastanza lungo, abbastanza pregno. Le mie ascoltatrici sanno lasciarmi da solo, finché la porta si chiude e la statua si sbriciola ed io posso ancora piangere, inconsolato, ad ogni istante vissuto e perduto.
Solo l'indomani, a mente fredda, tornerò a sapere che è l'infrazione di quel sogno non voluto, utopico eppure concretizzato, a farmi sentire la sua mancanza, non le persone in sé, e non solo perché persone per me non erano nemmeno state, fintanto che il cerchio del loro orizzonte finiva lì dove io l'avevo fatto cominciare; ed è proprio quella la mia vita irrecuperabile. Perché è della mia vita, alla fine; è per ciascuno della sua, e di quella degli altri nella misura in cui questa incide sulla propria, che si sente il peso: tutto il resto sono solo riflessi di ombre di simulacri, ancora più astratti dal nostro che la percezione del vero nella caverna di Platone.
Sono tornato me stesso, e della mia vita e di tutto ciò che la circonda ho il pieno dominio.
La prima Custode mi raggiunge qualche ora dopo nella stanza delle macchine. Si affaccia alla porta, attende un mio cenno per entrare ed avvicinarsi, quindi nuovamente attende, in silenzio, in piedi alla mia destra. Le carezzo distrattamente l'interno coscia, dall'incavo delle ginocchia alla fessa, mentre finisco di studiare la nottata della bambina, una notte che dal sonno in cui l'aveva lasciata Nana si è interrotta bruscamente, con un cuore impazzito di paura ed una breve veglia, seduta al centro del letto, aggrappata alle coperte, ad ascoltare la stanza in attesa di chissà cosa, prima di tornare a raggomitolarsi in posizione fetale e scivolare infine dal pianto ad un nuovo sonno, che perdura tutt'ora.
«Dorme ancora?» chiede la Custode quando smetto di far scorrere il cursore e le immagini a schermo si fermano. So che la sua domanda va oltre, è solo una primitiva interpretazione di ciò che ha visto, in attesa di ulteriori delucidazioni. «A quanto pare.» è la mia sintetica risposta. Non sazio la sua curiosità, non torno con il cursore al momento dell'improvviso risveglio, non le spiego i grafici che contornano l'immagine della bambina aggrappata alle lenzuola al centro del letto, non le evidenzio il sistema di sorveglianza che controlla ogni camera della villa, né quello posto a monitorare l'appartamento in città.
«Le carte sono pronte.» mi porge i fogli, le strisce per la firma digitale. Scorro il testo, “io sottoscritto” blah blah sapendo di essere morto di fame e disperato (“cosciente delle ridotte possibilità educative offerte dalla condizione economica” eccetera eccetera) “affido mia figlia” blah blah “alla custodia di” blah blah “nella convinzione che il mentore designato sappia educare e crescere” blah blah “secondo sani principî” eccetera eccetera ed il mentore scelto “per la pregressa e comprovata disponibilità” a venire incontro “al disagio economico della famiglia”.
«Formulazione standard?» «Formulazione standard.» a dire che la vendita di figli per debito è praticamente diventata norma. Smetto di leggere per evitare che mi venga la nausea, conosco già i termini del contratto; siglo ogni pagina, firmo in fondo, strippo ogni mia sigla e firma, restituisco i fogli alla Custode.
«Quando si sveglia» la fermo mentre si allontana «prima che faccia colazione, fatele una visita medica completa.» la Custode annuisce «E prendetele le misure, poi manderemo qualcuno a farle un minimo di guardaroba decente.»
Gan'ka/5
Ricordo lo sternuto di lei che mi rivelò la loro presenza mentre attraversavo il vicolo, la mia esitazione iniziale, ignorarne la presenza o tornare indietro. Ricordo il ragazzino, dodici anni, forse meno, che mi fronteggia armato con qualcosa raccolto dai rifiuti in mezzo ai quali avevano celato la loro presenza. Ricordo la bambina, qualche anno meno, nascosta dietro il fratello, visibilmente ammalata. Ricordo come erano sporchi, magri, ed io che non sapevo se fosse pietà quella che provavo per loro, o semplicemente un disagio troppo vicino al ribrezzo.
Ricordo le prime parole, poche, secche, rabbiose, con cui il ragazzino cerca di cacciarmi, ricordo la sorella che quasi sviene, che solo per questo finiscono per seguirmi a casa, lei sostenuta prima dal fratello poi dal mio braccio. Ricordo l'attimo di perplessità davanti al sopralzo che separa l'ingresso di casa dal resto dell'appartamento, alla mia richiesta di togliersi le scarpe. Ricordo la mia improvvisa preoccupazione su come mi sporcheranno la casa, l'inevitabile reticenza con cui accolgono le mie disposizioni sullo spogliarsi nudi per fare subito un bagno.
Ricordo il pudore, il timore, la tensione soprattutto di lui, sempre disposto tra me e la sorella. Ricordo gli occhi bassi, le schiene voltate, le vertebre, le costole, le mani a coppa, e poi il sapone, lo shampoo, la schiuma ed infine la grande vasca da bagno, e con essa il sopore del calore.
Ricordo la stanchezza, la rassegnazione, che andavano oltre la fiacchezza della malattia, con la quale lei accettava ogni cosa. Ricordo la tensione che dilaniava lui, tra la malattia della sorella e l'incognita me.
Ricordo le primissime notti, le ore di sonno in cui il petto di lei trovava finalmente riposo dallo squasso della tosse, le ore di veglia di lui, il respiro lento ma controllato di chi vuol sembrare dormiente mentre invece veglia, attento.
«So che stai fingendo. Vieni.» un bisbiglio appena. Lui prova ancora, ma si accorge che non mi muovo. Apre gli occhi, scivola giù dal letto, mi segue in camera mia. Ci sediamo sul mio letto, a due angoli opposti.
«Non puoi rimanere sveglio in eterno per vegliare su tua sorella. Morirai di stanchezza. E chi la proteggerà allora?» Il suo sguardo rimane chino. «Hai paura che possa fare qualcosa a tua sorella?» Non risponde «Non hai paura che possa fare qualcosa a te?» Scuote appena il capo. Poi qualcosa dentro di lui si spezza, e lui sbotta: «no, no, non ho paura io, ma non fare niente a Laura, non farle niente. Fai a me, fammi qualsiasi cosa, ma per favore non le fare niente.» e comincia a piangere, piangere a dirotto, come piangono i bambini di sei anni.
Faccio una delle mie tante cose stupide, vado a cercare le manette. Quando le vede si spaventa, ma sono io a mettermene una, gli porgo l'altra, gli porgo la chiave. «Ecco.» Lui si lega a me, incredulo «Così non potrò allontanarmi senza svegliarti.» Mi sdraio, con la tavoletta in braccio per poter continuare a lavorare, e prima che lui scivoli nel sonno, gli rammento l'unica regola: non disturbare mai il mio sonno.
Ricordo i suoi sonni sempre più tranquilli, dopo, raggomitolato sul mio braccio fino a farmi perdere la sensibilità. Ricordo il suo entusiasmo quando gli faccio vedere la sala d'intrattenimento, palestra, proiezioni, lettura, gioco. Ricordo la guarigione della sorella, ricordo i film, i silenzi dei libri. Ricordo le notti senza più manette, e lui che adesso si addormentava accucciato contro di me, senza più svegliarsi di soprassalto ai miei movimenti, al mio abbandonare il letto.
Ricordo meste serate in cui emergono brandelli del loro passato, famiglia sommersa di debiti, padre disoccupato e violento, qualche abuso o tentativo di abuso sulla bambina, mesi di fuga. Ricordo lacrime liberatorie, sempre più dolci, sempre più poche.
Ricordo una casa in ordine, pulita e noi suoi abitanti sempre più astratti dal mondo e dal tempo nel nostro edonismo.
Ricordo quando infine, qualche anno dopo, rimango folgorato dalla constatazione che ho vissuto, sto vivendo tutto ciò non come una famiglia di qualche tipo, ma come se i due ragazzini non fossero altro che grossi giocattoli, bambole di dimensione umana. Ricordo la lenta maturazione della concordata scelta di tornare a dar loro una vita esterna.
Ricordo l'immonda burocrazia per ottenere il mentoraggio, la ricerca di scuole che fossero non dico sopra ma almeno vicine alla soglia della decenza. Ricordo la sensazione, i primi tempi, che tutto ciò ne fosse valsa la pena, la loro nuova vivacità, i loro nuovi orizzonti.
Ricordo il repentino cambiamento, quel grumo di dolore raggomitolato sul letto al ritorno da scuola, racchiuso inarrivabile nella sua sfera di disperazione che escludeva amici e nemici, il suo pianto silenzioso che diceva tutto ma non abbastanza, la sua rabbia sfogata con violenza nella piccola palestra.
Ricordo quando a casa non tornarono, nessuno dei due; quando vennero ritrovati qualche giorno dopo, a pochi passi l'uno dall'altra, nudi, lui legato mani e piedi, riversi, sventrati. Segni di violenza ed abusi. Morte sopraggiunta per dissanguamento.
Georg
Due cose amava, Georg: leggere, e scrivere. Si sarebbe quasi potuto dire che la sua intera vita fosse ridotta a queste due attività, che tutto il resto venisse svolto in concomitanza con una delle due, e che la sopravvivenza stessa di Georg dipendesse perciò in maniera determinante da coloro che lo circondavano con le loro attenzioni, con il loro supporto.
Di leggere, Georg leggeva la qualunque. Leggeva letteratura, leggeva poesia, leggeva saggistica, leggeva teatro. Leggeva blog, wiki, wall. Leggeva in italiano, in inglese, in francese, in tedesco, in arabo, in cantonese, in giapponese, in zulu, in xhosa. Leggere era il vero nutrimento per la sua anima, ed ogni cosa letta rimaneva incisa indelebilmente nella sua formidabile memoria: memoria che, come ogni cosa ben curata e mantenuta, cresceva secondo necessità.
Scrivere, per Georg, era naturale quasi quanto leggere. E se la lettura era il nutrimento, la scrittura era la ragione di vita. Senza la possibilità di produrre, l'anima di Georg sarebbe stata sterile; l'immensità della sua conoscenza sarebbe stata insignificante.
Inevitabilmente, nella scrittura di Georg si poteva intravedere, a volte più distintamente a volte meno, il riflesso della sua anima e di ciò che l'aveva nutrita. In alcuni passi si stentava a vedere alcunché di nuovo nella produzione di Georg, al punto che lo si sarebbe potuto accusare di plagio, citando la fonte con malefica puntualità; ma era altrettanto facile trovare esempi di una illuminante quanto pregevole originalità.
L'obiettivo ultimo di Georg era compiere la più ardua delle imprese, superando con la propria opera le più metafisiche fantasie letterarie, in primis le indefinite opere cinicamente descritte da Borges nei propri racconti: perché dopo tutto, benché in quantità smisurata, i volumi distinti della biblioteca di Babele erano comunque in numero finito; e benché infinite e disordinate, le pagine del libro di sabbia erano numerabili, anzi numerate.
Ma l'opera ultima di Georg avrebbe infranto queste barriere, sarebbe andata oltre la mera numerazione naturale; e non semplicemente oltre, fermandosi al numero volgarmente detto decimale: avrebbe trasceso ogni forma di numerazione terrena, avrebbe creato una pagina per ogni valore dell'infinità di infiniti che la matematica sapeva costruire.
Vi sono scrittori, artisti delle opere dei quali si è detto che fossero in qualche modo sempre la stessa opera, come se lo scrittore, l'artista avesse cercato, consciamente o più spesso meno, di approssimarsi ad una propria opera ideale di cui le opere reali erano solo platoniche proiezioni.
Ogni nuova opera di Georg, partendo da ciò che altri avevano chiamato Vuoto incipit (una semplice pagina bianca senza nemmeno una numerazione), era con dichiarato ed esplicito intento, una generazione successiva alla precedente, nel processo verso la maturazione del magnum opus. Ed il processo stesso di maturazione della scrittura di Georg, un'opera dopo l'altra, era da intendere parte di quella stessa opera definitiva.
La naturalezza con cui Georg produceva l'opera successiva una volta terminata la precedente faceva pensare, sospettare se non addirittura intendere, che l'opera ultima fosse già presente in ogni minimo dettaglio nella mente di Georg come la quercia lo è nella ghianda, e che pertanto più che ideale potesse essere detta, se non reale (per la titanicità della sua realizzazione), quanto meno surreale.
Forse, se qualcuno avesse avuto il coraggio di chiedere a Georg di produrre questa o quella ben determinata pagina di questa o quella ben determinata generazione della successione delle opere di Georg, sarebbe intercorso solo un necessario momento di riflessione tra la richiesta e la creazione della pagina stessa.
Ma nessuno osava interrompere l'incessante attività di lettura e scrittura di Georg per distrarlo dal suo immenso obiettivo; quanto tempo ci si sarebbe potuti permettere di sottrarre all'opera ultima senza inficiare la possibilità che essa potesse essere completata, ammesso che ciò fosse possibile?
Eppure, il tempo non era una risorsa della quale Georg si preoccupasse. Lo scorrere stesso del tempo, si potrebbe dire, gli era indifferente, scandito più dal susseguirsi delle letture e dalla produzione di nuove opere che da un arbitrario sistema di misura ispirato dal moto di specifici corpi celesti.
Arbitrario, ovviamente, come lo sarebbe stato dal punto di vista di Georg se Georg avesse potuto avere un punto di vista.
Gan'ka/4
Percepisco la sua silenziosa presenza accanto al letto, so che attende conferma della mia veglia. Faccio un vago gesto con la mano, senza abbandonare la mia posizione prona. Ho dormito il mio bastante, ma non ho ancora voglia di affrontare il mondo alzato. È lei, come consuetudine, a sedersi cavalcioni sulla mia schiena, scivolando poi indietro fino a potervi poggiare il petto.
«Sono venuta a chiedere scusa.» parla con calma «Ho avuto paura. Ho ancora paura. Non so … non ho idea di come … gestire questa situazione. Non siamo … non siamo attrezzati per ospitare una … bambina. Non abbiamo vestiti, non abbiamo nulla, non sappiamo …»
«Enough.» Accenno a voltarmi, lei si solleva quanto basta per permettermi di completare il movimento, poi torna a sedere. «Non cambierà nulla. La mia vita, la nostra vita, non verrà sequestrata dalla presenza di questa persona. Le condizioni per la permanenza di chiunque qua dentro rimangono invariate.» la guardo fisso negli occhi, e lei sa che le sto ripetendo che può andar via, per sempre, quando vuole, e che le sto confermando che potrò fare quello che vorrò con la nostra nuova ospite.
Perché alla fine sappiamo entrambi che è questa la sua paura, l'aura di sessualità che sottende la presenza delle Custodi, la nudità non scevra di una certa carica erotica.
Avrei giustificazioni. A dodici anni non è più una bambina. Il bombardamento mediatico, la pubertà precoce (non tanto, a guardare la figura del soggetto specifico). Ma la verità è che non mi interessa. Non mi interessa giustificarmi, non mi interessa lei come corpo, non mi interessa lei. Punto.
Ma è qui, ed è la prima inserzione casuale nella compagine delle Custodi, la prima a non essere cercata o trovata. La prima imposta, benché il termine sia improprio giacché in qualunque momento avrei potuto (dovuto?) rifiutare.
E nel mio sguardo fisso si riflette intanto lo sguardo angosciato della mia prima Custode, che infine abbassa gli occhi.
«Lo so. È per questo che sono venuta a chiederti scusa. Scusa per la mia paura, perché è una mancanza di fiducia, perché è una reazione … intestinale? isterica? emotiva? E mi fa paura perché pensavo di esserne libera. Ma non ne sono. Ed è una reazione stupida, perché lo so che il corpo non è … Nana, per esempio …»
Dalla porta arriva mormorìo di voci, una domanda «dorme?» una risposta non udibile, forse un gesto di diniego. «Entra» dico. Si affaccia dalla porta, Nana, come per assicurarsi di non stare disturbando. Mi sollevo a sedere, la prima scivola via da me, mi si siede accanto.
«Dorme.» incisiva, tranquillizzante «Al ciliegio.» E segue un momento di silenzio «Le ho detto che saresti stato il suo mentore.» Altro momento di silenzio «Si è tranquillizzata.»
Lei. Io molto meno. E si vede. Quando mi alzo, spostandomi verso il balcone, Nana mi segue, senza fretta.
«Il mentoraggio.» mi limito a dire, guardando oltre la balaustra il campo che ci si stende davanti.
«Anche dal punto di vista legale, è la soluzione migliore.» mi ricorda. È vero, e lo so, e lei sa che lo so; come sa che è tutto perfettamente inutile, che è solo pro forma; come sa che se ne occuperanno altri, che io mi limiterò a porre una firma, perché non mi interessa fare di più, perché mi disgusterebbe incontrarmi con chiunque per affrontare la burocrazia e la meschinità che orbitano attorno a questa pratica.
«Spero solo che vada meglio dell'altra volta.» è il mio ultimo commento, e la mia voce esce più malinconica e deprimente di quanto sperassi. E loro mi guardano sorprese, si guardano sorprese, ma anche la prima non sa.
Mi accomodo sulla sdraio. La prima esita, poi mi siede in braccio. Ed ascoltano il mio racconto.
Gan'ka/3
La donna che viene loro incontro lungo il corridoio ha nelle forme e nei gesti la morbidezza di una bellezza un tempo prorompente ed ora pacatamente sfiorita. Sorride alla bambina, la saluta con un «ciao cara, benvenuta», le porge la mano, il palmo rivolto verso l'alto, accogliente.
La bambina lascia la mano della donna che l'ha accompagnata fin lì, e si sente già meno triste, meno spaventata, meno arrabbiata; segue la nuova materna signora giù per un corridoio, cullata dalla sua morbida voce, che le spiega come ora troveranno una stanza per lei, faranno un bel bagno ed andranno a dormire, che sicuramente sarà stanca morta.
La bambina, il cui sguardo non si è mai sollevato da terra se non per pochi brevi momenti, nota i piedi nudi della donna, in contrasto con i sandali a tacco alto dell'altra; nota la gamba morbida e libera, in contrasto con lo scultoreo tono avvolto da lacci di pelle dell'altra; si ferma un attimo, si toglie le scarpe, i suoi piedi poggiano sul pavimento nudo, tiepido.
Il sorriso della donna si allarga, la sua morbida mano le carezza il capo. «Vieni», la invita a seguirla ancora; la bambina perde un po' il senso dell'orientamento nei corridoi sempre più illuminati, è sorpresa da come quella casa sia grande, viva ancora a quell'ora; combattuta tra la stanchezza e la novità, è comunque lieta quando finalmente si fermano.
«Ecco,» la donna apre una porta «questa andrà benissimo.»
La bambina si guarda intorno timorosa, è colpita dal colore rossastro del legno del perlinato alle pareti, dei mobili, del letto. È stupita poi quando la donna le mostra il controllo per la luce, non il solito interruttore ma una manopola con cui regolare l'intensità.
La donna la guida nella stanza. «Qui puoi tenere i tuoi vestiti …» i loro sguardi si incrociano «se vuoi puoi toglierti quelli che hai adesso, ma non abbiamo qualcosa per la notte della tua misura.»
«Mi vergogno.»
«Non ti preoccupare. Qui» la donna apre l'altra porta della camera «c'è il gabinetto. Per fare il bagno, però, dobbiamo andare di là. Ora tu ti sistemi un attimo, ed io ti aspetto qui fuori in corridoio, appena sei pronta. Va bene?» La bambina annuisce a capo chino, la donna le carezza il mento, sorridendo.
Da sola, la bambina ha di nuovo paura. Usa il gabinetto in fretta, si spoglia restando con i soli slip, quindi si precipita alla porta. La donna le carezza il capo, spegne la luce nella stanza, e la conduce alla porta successiva.
L'ambiente in cui entrano sembra quasi uno sgabuzzino, con spazio forse per tre persone al massimo, due pareti con scaffali a nido d'ape. Qui la donna la invita a togliere le mutandine, quindi la introduce, attraverso la porta di fronte, al bagno vero e proprio.
C'è una grande vasca, ed una doccia fuori da essa, con stupore della bambina; ci sono due sgabellini, qualche bacinella, spugne, saponi. La donna le spiega come funzionano i bagni giapponesi, la aiuta ad insaponare la schiena, a fare lo shampoo; infine, quando entrambe si sono lavate e sciacquate, entra nella vasca e la invita a seguirla.
«Ed ora ci rilassiamo un minuto prima di andare a dormire, va bene?»
L'acqua è molto calda, ma non scotta. La bambina si siede di fronte alla donna, e rimane lì rigida, ancora incerta. La donna la invita ad avvicinarsi, la fa girare, la avvolge in un abbraccio, la fa poggiare al proprio petto, le carezza i capelli e lascia che la tensione e la paura della bambina trovino finalmente sfogo nel pianto.
I singhiozzi della bimba trasportano la disperazione dell'abbandono, la sua voce rotta insiste sui perché interrogativi, sui dubbi dell'affetto famigliare. La donna tace, le sue carezze continuano ininterrotte finché il pianto della bambina non si estingue.
Allora la donna la aiuta ad uscire dalla vasca, a soffiare il naso, ad asciugare il corpo ed i capelli, ed intanto le racconta che in molti luoghi, in molti tempi, una famiglia che avesse delle difficoltà affidava i figli a qualcuno che potesse prendersene cura meglio, e che proprio perché era la cosa più preziosa per suo padre lei ora si trovava qui.
Quando potrò rivederti
Quando potrò rivederti
allegra e spensierata
gioiosa e felice
come una bambina
che corre e si entusiasma
e presa in braccio abbraccia
o ride e distende le braccia?
Gan'ka/2
Dicono che gan'ka si diventa quando la paura o il disprezzo o l'odio per gli esseri umani ci porta ad allontanarci dalla nostra specie per legarci alle macchine. Nell'immaginario collettivo i gan'ka sono tutti delle sorte di cyborg, quando non degli ammassi ormai informi di carne incapace di muoversi, alimentati da sofisticati macchinari e la cui vita è ormai solo virtuale; pare inoltre che i gan'ka diano di matto in presenza di esseri umani, fuggendo in preda al panico o reagendo con pericolosa, possibilmente mortale, violenza.
La realtà è molto più banale, benché sia incontestabile che in maggioranza noi si conduca una vita piuttosto riservata, circondati per la più parte della giornata più da macchine che da esseri umani. Ma la maggior parte della gente incontra gan'ka quotidianamente, senza nemmeno rendersene conto. Non so quanto l'élite prema per il persistere di questo immaginario, magari come misura difensiva; dopo tutto, se loro governano come sovrastruttura, è nostra la mano che controlla e mantiene l'infrastruttura tecnologica della vita quotidiana di questo angolo di universo.
Fuori dai centri urbani, la notte è più nera e più greve, la strada quasi spettrale sotto i fari bluastri della mia automobile. Momenti come questi mi riportano a riflettere su come la società sembra regredita, tornando in piena fanfara ad una condizione socioculturale quasi medievale: una scenografica vernice stesa a nascondere un contesto dove spesso la vita di una persona ha meno valore di ciò che la persona stessa porta con sé, dove il crimine è un'allettante alternativa al lavoro di fatica per chi non può fare la guardia del corpo dell'élite, dove il sesso è spesso l'unica chiave per la sopravvivenza per una donna. Un mondo dove le uniche vie di fuga sono spirituali, alcune vecchie, altre nuove.
Anche per questo ho preso residenza così lontano dai centri abitati. La bambina seduta accanto a me si ostina a combattere il sonno nonostante la tarda ora. Ma sono io a sospirare di sollievo quando i fari dell'automobile illuminano finalmente i cancelli della abitazione: la mia casa, il mio rifugio, la mia fortezza.
Le cariatidi che li tengono aperti si apprestano a chiuderli appena la mia automobile le sorpassa, e quando infine spengo il motore dell'auto ormai ferma nella rimessa, trovo ad accogliermi, come sempre, la prima delle mie Custodi.
«Bentornato.»
Una parola sola, non diversa da quelle altre volte, e come le altre volte è la parola che mi scioglie dal mondo di fuori, per accogliermi a casa. È la parola del riposo.
Giriamo intorno alla macchina per far scendere il passeggero, e vedo gli occhi della Custode spalancarsi per lo stupore nel vedere la bambina in piedi davanti a sé. La sua bocca si apre per la sorpresa, quindi il suo sguardo cerca il mio. So cosa vorrebbe dirmi, sento crescere la sua voglia di protestare, di rimproverare, di contestare, ma la sua bocca si apre nuovamente senza emettere suono. È alla nostra nuova ospite che si rivolge infine, con voce dolce:
«Quanti anni hai?»
La bambina non risponde. Continua a guardare ad occhi bassi un punto non meglio determinato di fronte a sé, ed insiste con il suo sguardo nascosto anche quando la Custode le solleva delicatamente il mento.
«Dodici.» un mormorìo, giunge infine la risposta; poi ancora più basso, quasi impercettibile «A marzo.»
Chiudo gli occhi per un momento. Altre Custodi sono giunte intanto. «Preparatele una stanza» chiedo a quella più vicina a me, indicando la bambina. La Custode prende la bambina per mano, la porta via con sé; le altre svaniscono silenziose come sono apparse, lasciandomi nuovamente solo con la prima.
Mi avvio per rientrare in casa, ma la mano di lei cerca il mio braccio. Mi fermo, mi volto.
«Mio signore, vi sono sempre stata accanto, fedelmente. Quando avete cercato la mia opinione, ve l'ho detta senza timore anche quando sapevo che non sareste stato d'accordo. Ma vi ho sempre seguito, in ogni vostra scelta, anche quando il mio consiglio è andato inascoltato. Ma stavolta … undici anni! Non posso …»
La interrompe uno scatto improvviso del mio braccio, che ella para con gesto istintivo. Quindi i suoi occhi si riempiono di paura, ed ella si lascia colpire, manrovescio schiaffo manrovescio schiaffo. I primi due sono uno sfogo per l'ira che provo contro me stesso, gli ultimi per punire il suo precedente tentativo di fermarmi.
Non sono fiero di me.
È la prima volta che colpisco la Custode in uno scatto d'ira. Non mi piace essere giunto a tal punto di stanchezza e nervosismo. Vado a dormire.
Gan'ka/1
Non sono fiero di me.
Il mio passeggero, imbronciato e silenzioso, fissa il cruscotto davanti a sé. Non so cosa stia pensando, ma so cosa sta tormentando me in questo momento.
Non sono fiero di me.
Il mio passeggero è una ragazzina; no, una bambina; una ragazzina; non so. Prepubere. L'ho vinta giocando d'azzardo contro suo padre.
Non sono fiero di me.
Mi dico che non è colpa mia, che è colpa del padre, ma so bene che avrei anche potuto, no, dovuto rifiutare. Anche quando mi dico che vista la situazione è persino meglio per lei che adesso sia in mano mia, ma non mi sembro molto convincente.
Non sono fiero di me.
Non lo sono perché gioco d'azzardo, perché vinco, perché vinco giocando contro persone per cui l'azzardo è una droga, che insistono a giocare anche quando non hanno né la capacità né la fortuna necessari per vincere.
A quest'uomo ho vinto tutto, prima tutti i soldi, poi ogni altro suo possesso, fino alla casa in cui vive con la sua famiglia. L'ho lasciato continuare a vivere lì, senza nemmeno chiedergli l'affitto, per pena. Poi lui ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, la sua figlia maggiore contro tutto quello che aveva perso.
Avrei potuto rifiutare; non l'ho fatto. Avrei potuto incassare la vittoria come avevo fatto per la casa; non l'ho fatto.
Non sono fiero di me.
Continuo a dirmi che mi lascio trascinare da chissà che cosa a fare cose che non vorrei nemmeno fare, ma la cosa non mi fa sentire meglio.
L'uomo si è presentato con sua figlia al seguito, questa bambina goffamente vestita e truccata da o per sembrare più grande della sua età, ed io mi sono scoperto innervosito da ciò, e disgustato. Ho provato per quell'uomo, per la sua mania, per la sua ottusa costanza nella sua debolezza, un ribrezzo che non avevo mai provato prima per nessun essere umano.
Forse quando avevo accettato la proposta del tutto per tutto avevo sperato che l'uomo non potesse trovare la forza di fare veramente una cosa del genere. Ritrovarmelo davanti questa sera mi ha fatto ricordare con il peggiore degli esempi la radice della mia misantropia.
La bambina è rimasta seduta su una sedia contro la parete, lontana dal tavolo, fino alla fine, facendo oscillare le gambe per passare il tempo. Dopo qualche minuto mi ero quasi dimenticato della sua presenza, e l'unica cosa che me la teneva a mente era la crescente sudorazione dell'uomo, con il procedere della sconfitta.
L'uomo ha pianto in silenzio abbracciando in ginocchio la figlia in piedi accanto alla porta, quindi se n'è andato, lasciandomi ad affrontare lo sguardo corrucciato di lei.
Non ho ancora sentito la sua voce; solo qualche sbuffo infastidito quando le ho passato ripetutamente sul viso lo spugnone da doccia per levarle quell'orrido trucco e ridurre il fastidio della sua presenza a quegli assurdi vestiti per i quali non potevo proporre un cambio.
Non sono fiero di me.
Non sono fiero di me anche perché non temo ripercussioni. Non temo ripercussioni legali, perché da anni ormai quest'angolo di mondo non ha più una legge che possa raggiungermi. Non temo vendette da parte della famiglia, se anche la moglie dell'uomo dovesse provare in tutti i modi a convincerlo a riprendere indietro sua figlia (ma non avrà già cercato di dissuaderlo? e lui l'avra picchiata), se anche offrisse se stessa in cambio … forse divorzieranno, ma sicuramente per quell'uomo non vedo altro modo di mettere a tacere la propria coscienza che il suicidio.
Non voglio più avere nulla a che fare con loro, non mi sarà difficile.
La Strega/2
Della strega io non avevo paura; al più, un certo disagio riflesso, ispirato dalla paura degli altri, dalla distanza da loro mantenuta. E non lo dico certo per vantarmi, la boria non mi si addice e non sono nemmeno particolarmente coraggioso; non credo tra l'altro che la mia istintiva reazione di stupore e curiosità nei confronti della strega sia mai stata molto diversa da quella che ebbero gli abitanti del villaggio al suo arrivo. Però ecco, non la potevo certo chiamare paura. Finora.
Trovarmi qui ora, però, con l'oscurità intorno, la porta davanti a me con chissà cosa dietro, ed i compagni che mi hanno portato qui nascosti da qualche parte a spiarmi dall'altra parte della strada, non mi fa sentire tranquillo, ed è molto più di un semplice disagio riflesso quello che sento ora, perché ho il cuore che mi batte forte che penso lo si possa sentire anche fuori e sto sudando freddo e vorrei essere da un'altra parte e non certo qui davanti a bussare e scappare via come mi hanno sfidato a fare.
Non è bello dover scegliere tra l'essere preso in giro e picchiato per tutti i futuri giorni, o venir mangiato dalla strega ed evitare così che i futuri giorni ci siano. Perché diciamolo, io a tutte le storie del cannibalismo non ci avevo mai creduto. Finora, però. Perché ora questa porta sembra quasi che anch'essa mi sfidi a bussarci contro, a mostrare di avere il coraggio di mettere a repentaglio la mia vita disturbando questa crudele e minacciosa strega che chissà cosa farà delle mie povere carni. Tanto varrebbe presentarmi con un mazzo di rosmarino e una mela in bocca e risparmiarle di doversi andare a cercare i condimenti.
Sto delirando. Devo fare una cosa semplicissima, bussare e correre via, la strega non farà nemmeno in tempo a vedermi. Parole che non riescono a convincere il mio braccio tremante che si alza per dare un rapido doppio colpetto, le gambe già pronte a tirarmi via di là. Mi immagino la porta che si apre di colpo prima che io possa colpirla una sola volta, un demone inferocito comparirmi davanti, mi immagino incespicare e crollare di schiena mentre questo mostro con una testa di Medusa mi si avventa contro, pronto a divorarmi.
Sono ancora qui, mi guardo dietro ed i miei accompagnatori sono lì, li vedo che si affacciano dalla siepe dall'altra parte della strada, che mi fanno il gesto di bussare; secondo me hanno più paura di me, hanno paura di doversi pentire di questa bravata, e però sono io qui davanti che deve bussare a questa porta. E quindi lo faccio. Deglutisco a vuoto, e do due colpi, rapidi ma nettamente udibili, sembrano rimbombare dappertutto, ed io rimango paralizzato dal rumore che ho fatto; le mie gambe si rifiutano di portarmi via di là.
E la porta si apre, e la figura della strega ne riempie il vano, sagoma nera contro rossastri riflessi luminosi sullo sfondo, ed io non riesco a muovermi, paralizzato come sono dalla paura. Siamo a pochi centimentri, ed io sento distintamente il suo odore pungente, e mi sento investito da un'ondata di calore, e non capisco se è dalla stanza dietro di lei che proviene, o se invece è vero quello che dice la gente, che è lei ad emanare un calore così intenso. Anche perché non capisco niente in questo momento, salvo che le mie gambe finalmente si sciolgono, ma si sciolgono troppo e non riesco a correre, solo ad indietreggiare barcollando.
Finché il mio piede non trova il vuoto dove finisce lo scalino antistante l'uscio, facendomi crollare sul viottolo, riverso sulla schiena mentre la strega avanza verso di me, ed io scalcio per rimettermi in piedi e correre via, ed appena mi sono alzato lei è lì accanto a me e mi afferra, e mi guarda fisso con quello sguardo che non ha nulla di torvo e minaccioso, ma è invece acceso da cupidigia e bramosia, e la cosa mi mette ancora più paura. E se non riesco più ad opporre resistenza, e mi lascio trascinare fin dentro casa, ho un unico martellante pensiero in testa: “non voglio morire, non voglio morire, non voglio morire così”.
La Strega/1
Dice che la donna che vive qui sia una strega. È così che la chiamano, ‘la strega’, anche se nessuno l'ha mai vista fare un incantesimo, un maleficio, una mavarìa. Dice che non parla mai con nessuno, e nessuno parla con lei. E quando esce per strada, sempre completamente nuda, in qualunque stagione e con qualunque tempo, con quei suoi lunghi capelli neri, tenuti lisci ed in ordine con l'olio, a coprirle la schiena, nessuno la affronta; anzi, la evitano, cercano sempre di non intralciarle il passo, evitano persino di guardarla.
Dice che quando era arrivata in paese la prima volta, dalla strada maestra, era stata una sorpresa. I bambini erano corsi in paese gridando che c'era una donna nuda che camminava per strada, e tutti si erano affacciati a guardare, e lei aveva attraversato il paese così, con i capelli scarmigliati, sporca e graffiata, sotto lo sguardo attonito di tutti. Si era fermata all'altro estremo, davanti ad una casettina abbandonata. E da allora non se n'era più andata. Dice che questo era successo tanti anni fa, ma nessuno si ricorda veramente quando, c'è chi dice quaranta, c'è chi dice sessanta, c'è chi dice cento. Ma la verità è che io la strega l'ho vista e secondo me non ha nemmeno trent'anni. Però io del paese sono nuovo e non posso sapere quando sono successe queste cose.
Dice che passato il primo sbigottimento la gente cominciò a chiedersi chi fosse e cosa ci facesse. Le donne soprattutto non erano contente di questa nuova arrivata che andava in giro sempre nuda, una cosa indecente e offensiva, un brutto esempio per i bambini e una tentazione per gli uomini. E anche se lei non disturbava nessuno, e l'unica cosa che fece i primi tempi fu mettere a posto la casetta, la gente la guardava con sospetto. Dice che anche allora non parlava mai con nessuno. Ogni tanto capitava che qualcuno provasse a dirle qualcosa, ma lei li guardava dritto negli occhi, con uno sguardo chi dice assente chi dice di disprezzo, e non rispondeva e tornava ai fatti suoi.
Dice che i bambini stavano sempre a spiarla, e anche gli uomini capitava che si fermassero a guardarla lavorare, ma sempre poco, per non dare nell'occhio. E la cosa piaceva in segreto agli uomini e ai bambini, ma non piaceva alle donne e anche gli uomini facevano la faccia di quelli insospettiti da questo comportamento. Perché non si capiva come vivesse, come si procurasse da mangiare, come non soffrisse il freddo sempre più intenso mentre la stagione cambiava. Forse fu per questo che si cominciò a chiamarla ‘la strega’ e non ‘la pazza’. Dice che ipnotizzava le persone e si faceva portare da mangiare da gente che poi non se lo ricordavano, cose così, ma era solo una diceria perché non mancava mai niente a nessuno. Dice che gli uomini andavano da lei in segreto, ma anche questa è una diceria, non si fermavano nemmeno per aiutarla.
Dice che lei finì di rimettersi a posto la casa subito prima che arrivasse il brutto tempo, le bufere e la neve. Dice anche che quell'inverno fu l'inverno più grave che avesse mai colpito il paese, con le bufere più violente, la neve più alta ed il freddo più gelido. Dice anche che la sua casetta appena restaurata, rimessa in sesto non si sa bene come, fu la meno colpita. Forse anche per questo si pensava che fosse una strega, che avesse chiamato lei il cattivo tempo e che lei ne fosse immune, talmente immune che poteva camminare tranquillamente con la neve alta al ginocchio, nuda, senza che gli arti le diventassero blu per il freddo. Dice che addirittura la neve le si scioglieva davanti, come se un fuoco le bruciasse dentro.
Dice che fu l'inverno più lungo che il paese avesse mai visto, e che sembrava non finire mai, che anche quando ormai non nevicava più e le bufere portavano solo acqua e le strade erano fango che ghiacciava, era sempre inverno; ed alla fine il paese stremato decise che l'avrebbero cacciata via, la strega. E allora si riunirono in massa, con i forconi e le torce, uomini e donne, ed andarono alla casetta, inferociti, urlanti. Dice che si fermarono davanti alla staccionata, gridandole di venire fuori, strega. Dice che lei uscì sulla soglia, davanti alle torce e ai forconi, e li guardò con quel suo sguardo torvo, minaccioso, penetrante, che le avrebbero sempre visto in volto da allora, e che tutti si zittirono di botto, e lei avanzò fino alla staccionata con la folla che si protendeva indietro per paura ma con la volontà di non retrocedere. Dice che lei strappò la torcia di mano a uno che le stava davanti, e che la spense con le mani, come si fa con due dita sulla candela quando non si vuole che faccia fumo. E che sempre a mani nude spezzò quel troncone di torcia che aveva in mano, lasciandolo cadere di là dalla staccionata.
Dice che quando subito dopo la donna gridò “Via!” tagliando l'aria con le braccia tese, scapparono via tutti, anche se erano in tanti e lei una sola. Dice che nessuno si ricorda quella voce, ma solo come rimbombò nell'aria tagliente di quella notte, alle loro orecchie, nella loro testa. Dice che quella notte finì l'inverno, e che da allora la gente, anche se ne ha paura, ha rinunciato all'idea di cacciarla, e si limitano ad evitarla quanto gli è possibile.
Dice anche che una volta hanno provato a violentarla: erano in cinque, e una sera l'hanno beccata fuori di casa e le sono saltati addosso. Dice che lei è riuscita ad acchiapparne uno, che chiamavano ‘il toro’, per il collo, e che gliel'ha spezzato a mani nude, e che subito dopo ne ha afferrato un altro, e che nel frattempo gli altri sono scappati. Dice che di quei due, il toro e l'altro, non si è più trovato niente, né i corpi né i resti. Dice che se li è mangiati.
La strega io l'ho vista con i miei occhi, e secondo me ha vent'anni, forse trenta, ma dice che è sempre stata così, che non è invecchiata. L'ho vista camminare nuda per strada, nella neve come sotto il sole; ed ho visto lo spazio vuoto sempre attorno a lei, e gli sguardi di timore di tutti, e la curiosità dei più giovani. L'ho vista raccogliere gli scarti del fabbro, e quelli del vetraio, e quelli del falegname, ed è come un'offerta che il paese fa alla strega perché non porti di nuovo su di loro stagioni crudeli come il primo inverno, ma un'offerta sotto tono perché tale non sembri. Ho visto con i miei occhi la paura della gente, e ho visto lo stupore dei miei, e li ho sentiti parlarne a voce bassissima e timorosa i primi giorni, quando un anno fa ci siamo trasferiti qui.
Io ho quindici anni, e i bulli della scuola questa sera hanno deciso di mettere alla prova il mio coraggio costringendomi a venire a bussare a questa porta.
Momento sbagliato
I due sono seduti su una panchina al parco, guardano una bambina giocare, più che altro per non guardarsi negli occhi.
«Ricordi» dice lui «il discorso che mi avevi fatto, il coraggio di prendere il treno, ma anche il coraggio di scendere …»
La giovane non risponde, anche se sa già dove andrà a parare lui, o forse proprio per questo. Il ragazzo continua:
«Io … ieri ho incontrato una … una persona, una persona che non vedevo da … da secoli, dai tempi del liceo. Abbiamo … abbiamo parlato, abbiamo ricordato i bei tempi, ci siamo … aggiornati sulle novità. E … insomma, l'ho riaccompagnata a casa e … ed abbiamo … scoperto, riscoperto che … che le schermaglie di allora erano … un preludio, un velo su qualcosa di … di più profondo.
“Mi … mi sento … mi sento ridicolo, lo so, è … è assurdo, soprattutto dopo … dopo ieri, dopo …»
Tace, perché gli è impossibile continuare, perché in realtà non ce n'è bisogno. E lei che non risponde, continua a seguire attentamente i movimenti della bambina, sembra quasi non aver ascoltato.
«Mi dispiace.» conclude infine il giovane.
Ella scuote il capo. «No, va bene. Meglio ora che dopo.»
Il giovane non sa cos'altro dire, perché non c'è piu nulla. Si alza, ed è l'immagine della goffagine, dell'imbarazzo. Si … si allontana, ecco, si … si allontana.
Ed appena è abbastanza lontano la maschera della giovane crolla e si sgretola. Non piange, ma il suo corpo non riesce a nascondere i sussulti. Si alza anche lei dalla panchina, mentre il mondo le crolla intorno, ira disperazione angoscia, e raggiunge la bambina, le fa indossare la giacca, «È ora d'andare.» e la bambina è all'inizio recalcitrante, non è ancora ora, no, normalmente non lo sarebbe e lei lo sa, anche se le dispiace sempre dover andare, ma stavolta è troppo presto; ma l'umore della giovane non è nascosto, non è verniciato, non è coperto, ed anche se la bambina capisce solo che c'è qualcosa che non va, segue mitemente la giovane, lasciandosi trascinare via dal parco, attraverso la piazzetta.
Il giovane non se n'è andato, ha solo fatto il giro, rispunta in piazzetta proprio mentre la giovane e la bambina stanno attraversando la strada. Chiama la giovane per nome, ed il suo viso è ben diverso dal contrito e disperato viso di prima, è allegro mentre grida
«Che giorno è oggi?»
E la giovane si ferma un istante solo, interdetta, quando è già quasi sull'altro marciapiede, si volta incredula verso il giovane.
Poi c'è solo lo stridente urlo dei freni tardivi della Opel Tigra grigio metallizzato, e due corpi presto senza vita che per un breve tratto di parabola accompagnano le anime verso il cielo.
Non ciò che ero (1)
Lei dorme prona, la faccia girata dalla parte opposta a me, le braccia piegate sotto il cuscino; il suo respiro è regolare, ma non profondo. Io non dormo; sto seduto sull'altra piazza del letto, la schiena contro il perlinato della parete, le gambe incrociate; guardo un po' lei un po' la stanza. Mi viene in mente Norwegian Wood dei Beatles. Mi viene in mente che fa molto scena da film, ripresa da qualche parte con lei in primo piano, quasi invisibile nell'ombra, la mia silhouette chiaramente marcata dall'abat-jour accesa sul comodino alla mia destra. Destra, sinistra; lei è alla mia sinistra, io sono alla sua sinistra. Relatività.
La scena farebbe molto più film se io stessi fumando. La silhouette non sarebbe allora chiaramente marcata, ma immersa in questa nuvola di fumo. E forse non dovrei essere a gambe incrociate, ma con una gamba distesa e l'altra con il ginocchio sollevato, a fungere da supporto per il braccio con cui non tengo la sigaretta.
Invece io non fumo. Non è una questione di vizio, è una questione di congiuntivite, di senso di soffocamento. Quindi non fumo. Ci sono un sacco di cose che non faccio. Ci sono anche un sacco di cose che credevo, speravo direi, non avrei mai fatto.
Come ad esempio trovarmi in una situazione del genere. A letto con una ragazza. Bionda. Di destra. Di cui so così poco, e di cui quel poco che so non mi piace tanto. Per questo non so bene cosa ci faccio qui, o quello che farò, o che dovrei fare. So solo quello che ho fatto, anche se preferisco non pensarci. Anche il fatto che dico di sapere così poco di lei, ed il fatto che lo dica pensando “di lei come persona”, è significativo, probabilmente; vuol dire qualcosa sull'importanza che do alla componente non fisica di una persona: quello che le passa per la testa, la sua scala di valori, il suo modo di pensare, di parlare, di agire; e ciò da cui tutto ciò deriva, le origini dell'imprinting. Ed a maggior ragione, allora, non mi risulta chiaro perché sono qui. O piuttosto perché è successo quello che è successo. Che in realtà lo so, anche se non mi spiego bene quando ciò che ero ha smesso di essere, ha ceduto il passo a qualcun altro, che ha agito in almeno due cruciali momenti in maniera diversa da come avrebbe agito ciò che ero. Però il fatto che continui a pensarci vuol dire che ciò che ero è ancora lì da qualche parte e che ritorna, vorrebbe riprendere ad essere. Anche il fatto che continui a pensare per frasi così convolute.
«Non dormi?» mi chiede. La voce non è pastosa, ma un po' strascicata.
«Neanche tu, mi pare.»
Scuote debolmente la testa in segno di diniego. Non la solleva nemmeno dal cuscino, non riesco a capire se sia veramente un diniego. Forse è un assenso. In entrambi i casi, potrebbe voler dire qualunque cosa.
«Abbracciami.» biascica ancora.
Scivolo disteso, mentre lei si solleva su un fianco, sempre volgendomi la schiena. Di nuovo la sua pelle contro la mia; quando le mie braccia la cingono, il suo braccio destro, ora libero, cerca a sua volta un abbraccio un po' difficile, quindi si ferma su una natica.
Mentre stiamo così mi vengono in mente tutta una serie di cose a cui ciò che ero dava una priorità secondaria, terziaria, spesso anche meno. Come: devo lavorare sugli addominali; forse mi dovrei depilare. Forse perché non è facile pensare come pensavo quando ero ciò che ero, quando come adesso si ha il corpo nudo di un altro essere umano tra le braccia. C'è da qualche parte qualcuno che alza o abbassa un interruttore in base alla situazione. Chissà se ha la saggezza di scegliere sempre correttamente.
Mentre stiamo così i pensieri si spengono ed emergono le sensazioni, preponderatamente tattili e olfattive; ed con esse il corpo che agisce di testa sua.
«Hai di nuovo voglia.» dice lei ad un certo punto.
«No.» dico io, senza troppa convinzione.
«Tu magari no, ma qualcun altro credo proprio di sì.» si volta verso di me quanto le è possibile senza distruggere il cucchiaio, le leggo un sorriso sul volto.
«Forse.» ancora non molto convinto.
Mi stacco da lei, mi sdraio sulla schiena; lei si volta completamente verso di me, sempre sorridendo chiede:
«Che c'hai, eh?» È allegra, lei. Ed io non riesco a guardarla, non quando il flusso e riflusso come di mare sulla battigia porta di nuovo ciò che ero a dominare i miei pensieri. «A che pensi?»
Continuo a guardare il soffitto, la presenza di lei un'ombra appena percepibile con la coda dell’occhio. «Mi chiedo che ci faccio qui.»
Il suo viso mi si para davanti; è sempre allegra «È una domanda seria?» Non ci crede; forse pensa che io mi atteggi. Si siede cavalcioni sul mio ventre. Si abbassa finché il suo seno sfiora il mio petto, mi acchiappa le guance, una per mano, me le stira in una smorfia di sorriso, e sorride in risposta. Fa il pesce. Poi si china ancora, finché le nostre fronti si toccano, e strofina il naso contro il mio, lentamente, da un lato e dall’altro. «Che c'hai, eh?» ripete ancora, la voce ora bassissima.
Quello che c'ho ora è la sorpresa per il suo gesto del bacio eschimese. Perché l'ho sempre considerato persino più intimo del tanto decantato e praticato bacio francese. Ecco qual è il mio problema. Proiettare sugli altri i miei pensieri, ritenere che gli altri facciano, o non facciano, un certo gesto, dicano, o non dicano, certe parole per lo stesso motivo per cui io farei, o non farei, lo stesso gesto, direi, o non direi, le stesse parole.