Deformazione professionale
Fredde reazioni calcolate all'alluvione nella Sardegna settentrionale
Racconta Donald Ervin Knuth che da quando si è immerso nello studio della tipografia (per arrivare a produrre quei programmi che avrebbero rivoluzionato l'editoria scientifica, il TeX e il MetaFont) la sua attenzione ai dettagli tipografici ha raggiunto un livello tale da ridurre la sua capacità di lettura: la forma dei caratteri, la loro disposizione catturavano il suo interesse distraendolo dal messaggio che quelle lettere avrebbero dovuto convogliare:
The downside is that I’m too sensitive to things now. I can’t go to a restaurant and order food because I keep looking at the fonts on the menu. Five minutes later I realize that it’s also talking about food. If I had never thought about computer typesetting, I might have had a happier life in some ways.
Il lato negativo è che sono troppo sensibile a queste cose ora. Non possono andare al ristorante e ordinare cibo, perché continuo a guardare ai tipi di caratter del menu. Cinque minuti dopo mi accorgo che sta anche parlando di cibo. Se non avessi mai pensato alla tipografia informatica, avrei potuto avere una vita migliore, in qualche mod.
Questo tipo di meccanismo, che manifesta quella che potremmo dire una deformazione professionale (benché, tecnicamente, la professione di Knuth non fosse quella del tipografo), è diffusa e inevitabile: piaccia o meno, la nostra professione (se svolta con la dovuta competenza) influenza la nostra prospettiva, ed anche quando il nostro intento sarebbe di rilassarci, distrarci dalla stessa, questa nuova prospettiva continuerà ad influenzare il modo in cui vediamo il mondo, ed i pensieri e le domande che ci poniamo davanti a ciò a cui assistiamo.
È per questo, sospetto, che davanti alle immagini del disastro idrogeoogico che ha colpito Bitti in questi giorni il mio primo pensiero è stato: chissà se il nostro codice potrebbe simulare questo tipo di fenomeno. La perplessità è (certamente) “fredda e insesibile”, manca di emozione e coinvolgimento per il destino delle persone colpite dal disastro, ma non per questo sorprendente (e non voglio dire, anche se non voglio nemmeno negarlo, che la mancanza di sorpresa sia da collegare ad una mia mancanza di empatia nei confronti delle vittime).
Dopo tutto, uno dei cardini della mia professione è proprio la modellazione di flussi geofisici e la stima della loro pericolosità e corrispondente rischio: e benché il mio interesse primario al momento rimangono le colate di lava, il grande sogno della mia vita è quella di arrivare ad un codice numerico che possa affrontare con ugual capacità, accuratezza (e se possibile velocità di esecuzione) ogni tipologia di flusso, per tutte le applicazioni possibili. In questo, alluvioni, frane e colate di fango sono non meno importanti (come obiettivo modellistico) delle colate di lava e degli tsunami.
Ed a quanto possiamo vedere, ogni nuovo autuno ed ogni nuova primavera, l'interesse non dovrebbe essere puramente accademico: la possibilità di modellare questi fenonemi è essenziale per ottimizare pianificazione territoriale ed eventuali interventi di mitigazione sulle situazioni esistenti.
Verrebbe da chiedersi «perché non si fa, allora?», ma la vera domanda —che dovrebbe essere ormai stata brillantemente dimostrata dai comportamenti dei singoli come della collettività durante questa pandemia— dovrebbe essere piuttosto: se anche venisse fatto, cosa cambierà poi nella gestione delle cose?
E la triste risposta a questa domanda è: nulla. Perché al di là degli interessi di una (purtroppo ristretta) cerchia di studiosi, ricercatori e quella (anche qui, purtroppo piccola) parte della popolazione che ha la preveggenza di riflettere e ragionare sull'importanza di questo tipo di studî, di ricerche, e delle loro ricadute “sociali”, alla stragrande maggioranza delle persone —dal piú individualista dei privati con la loro casetta costruita in zona ad alto rischio al piú alto esponente governativo, passando per tutti i livelli del pubblico e del privato— non interessa nulla di quello che “potrebbe succedere” —salvo poi correre a pianger miseria quando le evitabilissime (con la dovuta pianificazione) ma disastrose conseguenze arrivano a colpire.
Il piccolo preferisce risparmiare piuttosto che investire sulla messa in sicurezza, il grande preferisce le opportunità di speculazione offerte dalla ricostruzione (ricordiamo l'esuberanza per il sisma in Abruzzo nel 2009), e chi dovrebbe custodire e sorvegliare preferisce evitare le responsabilità etico-morali dell'intervento a priori1 e fare poi il generoso con le elargizioni del caso a posteriori.
Alla fin fine, chiedersi se il proprio codice sarebbe in grado di simulare il fenomeno forse non è nemmeno la peggiore reazione possibile davanti al video del disastro. Per lo meno è orientato nella direzione giusta.
supponiamo sia in corso un'eruzione, e che si possa prevedere con una certa accuratezza quali aree verranno invase e l'eventuale danno che questo possa arrecare; supponiamo altresí che si possa pianificare un intervento (barriere, distruzione degli argini etc) che permetta di deviare il flusso verso un'area diversa, con danno complessivo inferiore; il dilemma etico viene dal fatto che mentre il danno causato dalla colata senza intervento umano non ha responsabili, nel secondo caso la responsabilità del danno arrecato dopo la deviazione cade su chi intraprende l'azione mitigatrice. ↩